Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza
PH: Matilde Bernabò
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Il game tra Bosnia e Croazia

Un reportage di una settimana sul confine

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di Matilde Bernabò 1

Una fotografia della situazione in Bosnia e in Croazia a fine dicembre, a cavallo con l’inizio del 2023. Bihać, Velika Kladuša, e Rijeka (Fiume) sono le tre città in cui, in auto con tre compagne, abbiamo sostato, muovendoci libere tra i confini, forti dei nostri passaporti europei.

Lo chiamano il game. Ma non è un gioco o, al massimo, è il gioco dell’oca, perché spesso ti riporta indietro, alla casella di partenza. Lontano dai luoghi da raggiungere, di nuovo in quelli da cui si cerca di fuggire. Ecco cos’è la «Rotta Balcanica», via migratoria fin dagli anni ’90, diventata il principale corridoio verso l’Europa.

A seconda delle politiche internazionali il passaggio nei diversi paesi cambia costantemente, e dal 2016 il viaggio verso l’Europa è diventato sempre più pericoloso e costoso in denaro e vite umane. Tuttavia, l’obiettivo resta sempre lo stesso, raggiungere i paesi europei desiderati attraverso rotte che mutano: da alcuni paesi diventa più difficile passare, alcuni ergono muri, in alcuni c’è molta polizia al confine, attraverso altri i controlli sono invece diminuiti. Alcune persone passano per la Grecia, altre non ci sono mai arrivate e hanno fatto il percorso via terra dalla Turchia. Le persone in movimento intraprendono dunque quello è appunto chiamato game ma che gioco non è, che può essere vinto o perso, fatto di tentativi e di pericoli, di rischi che possono costare caro, per attraversare i confini.

E alla fine? Difficile dire quanti arrivano alla fine del game. Sì, molti riescono a raggiungere il paese desiderato, la Germania, la Francia, i paesi scandinavi, ma è davvero la fine? O solo l’inizio di un gioco nuovo per districarsi nelle politiche d’accoglienza e nella costruzione di una nuova vita?

La Bosnia Erzegovina

La Bosnia Erzegovina è una delle tappe finali del game, forse una tra le più difficili. Quando il passaggio dal nord della Serbia verso Ungheria o Croazia è diventato più complesso, a causa delle politiche restrittive dei governi, molte persone hanno iniziato a transitare per la Bosnia. È soprattutto nella primavera del 2018 che chi si muove da Afganistan, Iran, Siria ha iniziato ad arrivare a Bihać, città del cantone di Una Sana in Bosnia Erzegovina, facendone una delle principali tappe del game. Alcuni Bosniaci che abbiamo incontrato in viaggio ci hanno raccontato come al momento degli arrivi la popolazione locale, memore delle difficoltà vissute durante le guerre che hanno portato alla dissoluzione della Jugoslavia negli anni 90 e della condizione stessa di migrante che molti bosniaci hanno vissuto, si è fin da subito mostrata disponibile ad aiutare le persone in movimento, aprendo anche le case per offrire un pasto caldo o una doccia.

Poi però il passaggio è aumentato, la Bosnia è diventato luogo di transito per migliaia di persone e non tutti i locali sono stati più in grado di aiutare, come ci racconta D., che fin dall’inizio ha aperto il suo negozio e ha accolto molti nel suo giardino, organizzando una stanza con sedie e prese per ricaricare i telefoni. Così il lavoro delle organizzazioni e dei volontari internazionali è diventato fondamentale per portare supporto alle persone.

Negli anni sono state aperte diverse strutture di accoglienza da parte delle grandi organizzazioni internazionali come IOM, utilizzando vecchie fabbriche o edifici in disuso. Oggi la maggior parte di questi edifici è stata chiusa vista la diminuzione degli arrivi in Bosnia.

Tra le varie strutture di accoglienza c’era l’ex Hotel Sedra, che è stato aperto dal 2018 al 2021, oggi è tutto in abbandono e potrebbe essere il set perfetto per un film horror. Abbiamo camminato intorno all’hotel, ci sono i cartelli di IOM e dell’Unione Europea che segnano, in diverse lingue, tra cui l’arabo, le aree riservate al personale. Mi sono affacciata alle finestre, nella hall si vedono delle piante e una lavatrice. Le porte sono tutte chiuse, è impossibile entrare dentro, riusciamo a vedere solo qualche stanzetta laterale, ci sono scaffalature con le taglie scritte sopra, rimandano alla distribuzione di vestiti che sicuramente veniva fatta. Ma la rotta cambia e ora questi luoghi sono deserti, in un’altra città, su un altro confine probabilmente ne verranno aperti di nuovi.

A Bihać rimane solo il campo di Borici, un ex studentato con dei container per l’accoglienza di famiglie. Fuori città invece, a una mezz’ora di auto, in una zona totalmente isolata, c’è il campo di Lipa, per uomini soli, che negli ultimi anni è stato al centro dell’attenzione mediatica per le condizioni di vita all’interno e per il grosso incendio che nel dicembre del 2020 lasciò al freddo più di mille persone. I numeri oggi sono nettamente inferiori e nel dicembre 2022 c’erano circa 200 persone. All’interno del campo è stato recentemente costruito un centro di detenzione, ancora non operativo, che affiancherà il campo “libero” e diventerà probabilmente prigione per molte delle persone senza documenti che verranno respinte in Bosnia. I campi come questo sono soste provvisorie per rimettersi in sesto e per continuare il viaggio, le persone vengono registrate ma la loro condizione giuridica e sociale non è affrontata poiché quasi nessuno vuole fare domanda d’asilo in Bosnia. Ottengono un documento che ha solo valore per entrare e uscire dal campo, non sempre però è possibile muoversi liberamente, spesso c’è un coprifuoco che limita gli spostamenti. Poi, quando le persone decidono di partire per il game semplicemente spariscono.

Con i volontari di un’organizzazione ci fermiamo a un chilometro dal campo e aspettiamo le persone che hanno preso contatto con loro per ritirare alcuni oggetti: molti si stanno preparando a partire e hanno bisogno di vestiti più pesanti e zaini. Non tutti però vogliono stare all’interno dei campi, perché si è più limitati e sono più lontani dai confini, e così molti fanno sosta negli squat, ovvero in edifici abbandonati che vengono occupati e usati dalle persone in movimento, soprattutto durante la bella stagione quando ancora il freddo non impedisce di stare in queste strutture semi distrutte.

Uno degli squat che ho visto a Bihać era rimasto vuoto da poco perché il ragazzo pakistano che ci stava vivendo era appena partito per Sarajevo. Più che un edificio è lo scheletro di una casa non finita: al piano superiore la mancanza di finestre rende impossibile resistervi per il freddo. La parte sotto invece è più riparata, c’è una sorta di piccola stanza sotto a una tettoia dove rimangono alcuni oggetti del ragazzo che aveva fatto di questo luogo la sua casa. Aveva creato un lato dove mangiare e dove fare il fuoco per riscaldarsi e un altro, più lontano dall’apertura, dove dormire su un materasso. E così in quell’edificio con vista sulle colline di Bihać passava le sue giornate a programmare come affrontare il game, studiando le mappe e i percorsi.

La preparazione al game è fondamentale per capire dove è meglio passare, dove è meno rischioso, come evitare di essere catturati dalla polizia. Quando penso alle persone che attraversano il confine, mi immagino chilometri di reti e filo spinato che dev’essere bucato o scavalcato. Sì, in alcuni paesi è proprio così, come al confine tra Bulgaria e Turchia o tra Ungheria e Serbia ma tra la Bosnia e la Croazia non ci sono muri, non ci sono reti, c’è la frontiera nelle strade che regolano l’accesso alle auto e poi ci sono i boschi.

Dalla frontiera noi ci siamo passate, abbiamo fatto una breve fila, mostrato il passaporto alla polizia di frontiera croata e poi a quella bosniaca e viceversa e così in pochi minuti, grazie al nostro passaporto, abbiamo attraversato senza alcun problema. Alle zone sul confine ci siamo avvicinate in auto ma poi non puoi raggiungerle, ci sono boschi o fiumi e devi proseguire a piedi. Al di là di quella linea immaginaria chiamata confine, in Croazia, ci sono spesso molti poliziotti di pattuglia ed è lì che le persone tentano la sorte, tentano il game.

Le persone in movimento si fermano quindi in edifici abbandonati a qualche chilometro dal confine, aspettano la notte e al buio si incamminano nel bosco per raggiungere la Croazia, senza luci che diano nell’occhio. Ma la parte più difficile arriva una volta giunti in Croazia: è importante allontanarsi il più possibile dal confine senza farsi sorprendere dalla polizia perché altrimenti si viene riportati indietro.

Il respingimento o pushback è una pratica illegale e spesso la polizia croata effettua pushback molto violenti, picchiando le persone, denudandole, rompendo i telefoni e gli zaini così da rendere più difficile un nuovo tentativo. Perché ci sarà un nuovo tentativo, è un game e le persone hanno chiaro l’obiettivo finale e nonostante le difficoltà tenteranno di nuovo di attraversare sperando di non essere respinte ancora. Si fermano di nuovo negli squat, ricaricano le energie, si curano e poi aspettano il momento giusto per riprovare. Un ragazzo della Guinea mi ha raccontato di aver provato già quattro volte, l’ultimo tentativo aveva avuto successo, si era allontanato dal confine croato, era entrato all’interno del paese per diversi chilometri ma mentre si riposava in un edificio abbandonato uno dei suoi compagni è stato visto dalla polizia e sono stati riportati tutti in Bosnia. Quando l’ho incontrato si stava riposando per riprovarci dopo 4 giorni, il 31 dicembre, sperava che ci sarebbe stata meno polizia in giro nella notte dell’ultimo dell’anno. Chissà se c’è riuscito…

Il ragazzo si trovava in uno squat insieme ad altri nella cittadina di Velika Kladuša che dista circa 40 minuti di auto dal confine croato. Chi ha un po’ di soldi da parte fa il così detto taxi game ovvero paga delle persone, dette smugglers, che organizzano una autovettura che li porti il più vicino possibile al confine e poi un’altra che li aspetti qualche chilometro dopo in territorio croato per allontanarli da lì. Dalla Bosnia, da Bihać o Velika Kladuša, fino a Trieste costa circa 3.000 o 4.000 euro. Ma chi non ha i soldi deve fare la maggior parte del percorso a piedi attraversando boschi, fiumi e montagne aumentando il rischio del game. E tutti, chi è appena arrivato o chi è già stato respinto diverse volte, fa sosta in questi luoghi abbandonati che lasciano le tracce delle centinaia di persone che sono passate di lì.

A Velika Kladuša, c’è più movimento rispetto a Bihać e negli squat ci sono spesso persone. Il primo in cui andiamo però è vuoto, le volontarie insieme alle quali ci stiamo muovendo ci dicono che da qualche mese lì non si ferma più nessuno. Inizia a farsi buio ed entriamo in quella che doveva essere stata una fabbrica, con ancora la ciminiera in mattoni. Qualche cane si avvicina a noi e ci fa strada con aria esperta del luogo.

Si apre davanti a noi uno stanzone enorme senza pareti e con una distesa di rifiuti. Per fare il game si deve partire leggeri e non si può portare dietro la sporcizia che spesso rimane in questi luoghi. Così le organizzazioni che lavorano nella zona si occupano anche di ripulirli e renderli più “vivibili” se si può usare questa parola, come due delle stanze al piano superiore in cui sono state messe porte e teli alle finestre per non far entrare il freddo e preservarle dagli animali. Ma anche per loro è impossibile pulire edifici come questo che negli ultimi anni ha visto il passare di centinaia di persone che hanno lasciato il segno anche sulle pareti con graffiti come grida di protesta, di coraggio, di disperazione e di speranza per chi passerà dopo di loro.

Così cammino muta nel freddo di quell’edificio vuoto, sento solo i miei passi e il rumore di una goccia che cade sopra a un barattolo di latta. Osservo ogni dettaglio, leggendo ogni scritta sui muri senza riuscire ad immaginare cosa possa voler dire anche solo passare una notte lì sapendo che io andrò a dormire in un confortante appartamentino al caldo di una bellissima stufa a legna, a due passi da lì.

Poi, sempre in silenzio, proseguiamo verso un secondo squat, dove ci sono una ventina di persone, alcune proveranno il game stanotte e hanno bisogno di alcuni oggetti così le volontarie portano zaini, medicine, e vestiti caldi. Quando entriamo, dopo una camminata di cinque minuti con il fango fino alle caviglie, i ragazzi sono attorno al fuoco, si stanno scaldando, un ragazzo della Guinea asciuga le sue scarpe, “le ho lavate” ci dice. Un ragazzo marocchino si avvicina e ci racconta di essere arrivato in Bosnia spostandosi sempre con i bus partendo dalla Turchia, poi si rivolge a una volontaria di origini marocchine e le dice in dialetto arabo “Sì con i bus.. cioè sotto ai bus”. Nello stesso squat c’è anche una famiglia, è in una delle “stanze” che i volontari dell’Ong hanno fabbricato con pareti di legno e una porta. Sono molto stanchi perché appena arrivati, si riposano per provare a ripartire la notte stessa.

Si parla spesso di uomini soli che fanno il game ma ci sono anche famiglie intere con bambini piccoli che avanzano con loro verso la tappa successiva. Chissà se nella loro mente è davvero un gioco, non credo. Siamo andate in due delle case più vicine al confine dove il passaggio dei bambini era evidente, c’erano quaderni con disegni, vestitini per bebè e sulle pareti scritte che raccontano dei bambini che sono passati di lì. Probabilmente i volontari che hanno conosciuto le loro storie hanno deciso di lasciarle sulle mura di quelle case, così che tutti possano leggerle. Perché la rotta è disumana ma se a doverla fare sono dei bambini lo è ancora di più.

«Qui una volta ha vissuto M. e la sua famiglia» dice la scritta al piano di sopra della casa «Era maggio 2021. Era sempre abbastanza freddo fuori. C’erano circa 50 persone fuori e dentro la casa. La famiglia ha provato ad attraversare… una volta, due, 15, 37, 56. Dall’inverno 2020. Hanno lasciato questo squat nel febbraio 2022».

Questa famiglia ha provato più di cinquanta volte ed è stata sempre respinta, i dadi non hanno girato a loro favore. Per altri invece va meglio e magari al primo tentativo riescono ad arrivare alla tappa successiva, quanto poi ci metteranno a superarne un’altra nessuno lo sa.

Un’altra scritta racconta la storia di una famiglia Afghana di sei persone: «C’erano molti bambini ed erano molto piccoli, correvano in giro con le loro ciabatte Crocs. Erano arrivati da Moria, campo profughi dell’isola di Lesbo in Grecia, in meno di due mesi. Si sono fermati qua poco. Al primo tentativo hanno lasciato la Bosnia. Nessuno ha capito come hanno fatto».

E ancora, sopra a una stufa mezza distrutta c’è un’altra scritta, il tempo la sta cancellando: «Una volta qui abitava D. Aveva nove anni e aspettava con impazienza il suo decimo compleanno. Aveva compiuto 4 anni in Grecia, 5 anni in Grecia, 6 anni in Grecia, 7 anni in Romania, 8 anni in Serbia, 9 anni in Bosnia, “dieci anni da qualche altra parte” aveva detto lei. Continua a colorare quaderni nell’angolo di questa stanza. Aveva imparato il tedesco da YouTube, faceva lo spelling dei nomi di ogni verdura, che scrive nel suo quaderno accompagnandoli da disegni colorati, è orgogliosa di quello della melanzana. Aveva il sorriso più luminoso. Sua mamma, in questa stufa, faceva il pane migliore». Poi poco sotto «ha festeggiato il suo decimo compleanno in Germania nell’agosto del 2022».

Fuori dalla casa c’è una poltrona, un raggio di sole le batte contro, è rivolta verso il confine, verso la Croazia. Mentre giriamo tra le case, il mio telefono si connette alla rete croata, il confine è molto vicino e io potrei attraversarlo in un attimo.

Con estrema lentezza mi fermo a guardare ogni oggetto che è stato lasciato: vestiti, scatole di cibo vuote, fogli e bicchieri. In una stanza il passaggio delle persone si sente più forte, dev’esserci stato qualcuno il giorno prima, ci sono piatti con ancora del cibo, cipolle fresche e la legna sembra essersi appena spenta, le coperte sono arruffate sui divani o sul pavimento. Probabilmente qualcuno si è riposato lì e poi nella notte o al mattino presto ha lasciato lo squat per provare ad attraversare.

Al ritorno rifletto molto sul significato degli oggetti, del perché mi si stagliano nella mente, del perché sento il bisogno di fotografarli e nella lettura di Bosnia: l’ultima frontiera mi ritrovo nelle parole della fotografa Emanuela Zampa che scrive: «Sono proprio le tracce, gli oggetti abbandonati lungo il cammino a raccontare del dolore e della violenza del game. Lattine di energy drink e cibo, pacchetti di sigarette vuoti, abiti, sacchi a pelo ormai inservibili, giacigli che hanno preso fuoco per qualche incidente. Fotografo decine di tracce e segni. Leggo la necessità umana di non essere dimenticati e la assecondo».

Il primo dell’anno si avvicina e così l’ingresso della Croazia nell’aria Schengen (il patto dell’Unione Europea che permette alla Croazia di adottare l’euro e della libera circolazione), non si sa cosa questo comporterà per le persone in movimento. Più controlli alle frontiere con la Bosnia? O meno polizia? Certo è che arrivati in Croazia dal primo gennaio sarà più facile arrivare in Slovenia e poi in Italia perché non ci saranno più i controlli alle frontiere. Data l’incertezza del cambiamento, molte persone hanno provato ad attraversare il confine bosniaco-croato prima del 31 dicembre e tutti i volontari o operatori che lavorano lungo la rotta balcanica ci dicono di passare da Rijeka (Fiume) in Croazia perché molte persone sono arrivate lì negli ultimi mesi. Precedentemente, la Croazia aveva introdotto il “Seven days paper”: se le persone migranti vengono fermate dalla polizia gli viene dato questo documento che intima di lasciare il territorio croato entro 7 giorni, permettendo quindi la circolazione verso la Slovenia.

La Croazia

Così arriviamo in Croazia e andiamo dirette alla stazione di Rijeka che è diventata punto di ritrovo per chi arriva, o meglio lo è il binario morto della stazione. Un grande edificio abbandonato blocca la visuale sul binario, ma dopo tre scalini mi affaccio su di esso. Distesi tra coperte e zaini ci saranno circa 200 persone, quasi tutti uomini. Mi guardo intorno velocemente, voglio solo farmi un’idea, chi sono io per stare qua a guardare? Ripenso alle persone con cui ho parlato in Bosnia due-tre giorni prima, qualcuno di loro potrebbe essere già qua se il game ha giocato a suo favore.

Inizia ad essere freddo e molti si avvolgono tra le coperte e si chiudono nelle giacche e nei cappucci. Riposeranno qua per qualche ora o qualche giorno e poi continueranno verso Trieste, così ci dice la suora che poco più avanti distribuisce pasti e vestiti in due container di plastica. La suora lavora con JRS, Jesuite Refugee Service, che da circa due mesi offre sostegno alle persone che arrivano a Fiume. Hanno allestito un container con le docce, distribuiscono pasti offerti dalla Caritas e vestiti e oggetti donati da privati che passano a portare cose, come la bambina con il padre che bussa per lasciare un sacco con delle scarpe e delle giacche.

Il 2 gennaio ci fermiamo ad aiutare a distribuire la colazione, un te con qualcosa da mangiare, qualcuno che parla meglio inglese si intrattiene con noi. Sono quasi tutti afghani, parlano pashtu, ci raccontano il loro viaggio. Molti sono partiti dall’Afganistan mesi o anni fa e sono passati dall’Iran e arrivati in Turchia poi Bulgaria, Serbia, Bosnia-Erzegovina, Croazia e ora li attendono la Slovenia e l’Italia. E poi? L’obiettivo non è certo stare in Italia, ma fermarsi a Trieste per un po’ e raggiungere la Francia o la Germania o un paese europeo dove hanno già contatti: un familiare o un amico. Ma la Croazia già pare un mezzo arrivo, non ci sono più frontiere, il peggio forse è passato.

Molti hanno bisogno di cure, perché hanno la scabbia o ferite ai piedi dovute al lungo cammino e alla scarsità di igiene. Alcuni sono molto giovani, un paio ci dicono di avere 15 anni, scherzano fra loro, si danno delle arie come tutti gli adolescenti, ridiamo con loro, cerchiamo di scherzare in inglese con uno dei ragazzi che traduce per tutti.

Poi, il nostro viaggio si conclude, saliamo in auto e ripenso al fatto che hanno solo quindici anni, che non hanno la spensieratezza che avevo io a 15 anni, che hanno lasciato tutto per intraprendere un viaggio più grande di loro alla ricerca di qualcosa di meglio, e che forse la spensieratezza non l’avevano nemmeno prima. Chissà se la troveranno.

  1. Laureata nel Master MIM (Migrazioni inter-mediterranee) dell’Università Ca’ Foscari di Venezia