Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza
PH: Silvia Di Meo (Sulla spiaggia di Sfax)

Razzismo e dominazione degli Stati mediterranei

Il razzismo in Tunisia, lungi dall'essere un fatto culturale, è la conseguenza delle politiche di frontiera

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La violenza contro le persone nere irregolari in Tunisia rispecchia una mania di dominazione e un vile gioco di forza di un piccolo Stato in crisi. Ma è anche il risultato di una narrativa populista e di un approccio crudele del governo degli indesiderabili, tipici di tutti gli Stati mediterranei.

Aprile, stazione dei taxi di Sfax: le persone di pelle nera attendono ore per trovare un posto. I tassisti hanno ricevuto multe o indicazioni dalla polizia per impedire il movimento di queste persone

Nel 1982 il famoso intellettuale tunisino Albert Memmi scriveva un saggio dal titolo Il Razzismo 1, in cui si trova la sua famosa definizione del fenomeno che dà il titolo al libro: «la valorizzazione, generalizzata e definitiva, delle differenze, reali o immaginarie, al profitto dell’accusatore e al detrimento della vittima, per giustificare un’aggressione». Ai tempi di Memmi, nato a Tunisi da madre di origini ebraico-berbere e padre di origini tunisino-italiane, la Tunisia era protettorato francese e la sua popolazione era molto più eterogenea di oggi, includendo francesi, italiani, maltesi e una presenza ebraica antica di duemila anni. Negli anni cinquanta, il razzismo dei coloni francesi nei confronti la maggioranza della popolazione arabo-musulmana giustificava l’occupazione del paese. Oggi, cento anni dopo la nascita di Memmi, il razzismo della maggioranza arabo-musulmana nei confronti delle minoranze e delle persone straniere nere, giustifica la loro repressione. Fondandosi su una narrativa nazionalista altamente omogeneizzante, il razzismo in Tunisia, come nel resto del nord africa, è una realtà difficilmente sradicabile perché onnipresente nella politica e nella cultura, e perché fa leva su problemi reali.

Il razzismo anti-nero in Tunisia, sebbene sia una realtà presente da anni 2, è esploso negli ultimi mesi a partire dal discorso del presidente Kaïs Saïed il 21 febbraio contro le persone subsahariane irregolari. La Tunisia è stata sconvolta da violenza di matrice razzista senza precedenti.

In un atto di rappresaglia dopo l’omicidio di un tunisino da parte di un subsahariano, orde di uomini armati di coltelli e bastoni hanno attaccato le case di famiglie innocenti. Questa violenza è stata preceduta, legittimata e seguita da repressione statale organizzata nei confronti delle persone nere senza documenti: nelle ultime due settimane, si contano centinaia di arresti e deportazioni alla frontiera, nel mezzo del deserto 3. Molti, in Tunisia, sono costernati dal comportamento dei loro concittadini e dalla brutalità del loro Stato. E molti vorrebbero essere solidali, offrire un alloggio e un’assistenza alle persone sfrattate e deportate, ma ogni tentativo di solidarietà è impedito, bloccato o sventato da una polizia onnipresente e capillare.

E in uno stato di non-diritto come quello Tunisino, dove la legge si negozia con l’arbitrarietà degli agenti di polizia (), tra le vittime più sfortunate ci sono proprio quelli che i nostri politici chiamano i migranti, che fuggono da guerre, persecuzione e povertà e che il governo italiano continua a rilegare in nord africa, finanziando la guardia costiera tunisina perché ne impedisca, a tutti i costi, la partenza. Sono quelle stesse persone che, arrivate in Europa, diventano rifugiati: sudanesi, eritrei, etiopi, nigeriani, o che diventano irregolari rinchiusi nei CPR, rinviati al loro paese, rilegati nella miseria. Migranti, rifugiati o irregolari, la differenza non è grande se hai la pelle nera in Tunisia, dal momento che la violenza – di Stato – si abbatte senza distinzione. Infatti, tra le persone portate nel deserto negli ultimi giorni ci sarebbero anche studenti e persone con validi documenti di soggiorno, oltre a rifugiati e richiedenti asilo. E nell’Unione Europea vogliamo ancora credere che si possano creare delle piattaforme di sbarco 4 in nord africa per decidere chi è un rifugiato vero, che può venire da noi, e chi un migrante economico, che se ne deve stare là? E intanto, a centinaia per strada, picchiati o abbandonati nel deserto.

Alla radice degli avvenimenti recenti ci siamo proprio con le nostre politiche economiche e militari e le nostre frontiere. Di base, le persone non lascerebbero il loro paese se le loro prospettive di vita non fossero minacciate da carestia, guerre e povertà. E a sostenere la continuazione dei conflitti in Mali, in Niger, in Libia o in Ucraina, o la povertà in Chad, Tunisia o Costa d’Avorio, ci sono gli eserciti e le politiche estrattive neocoloniali Francesi, Italiane, Inglesi, Tedesche, Americane, alle quali si aggiungono quelle delle nuove grandi potenze, come Cina e Turchia. Al loro arrivo in Tunisia, la chiusura delle frontiere Mediterranee è un muro che impedisce a queste persone sfollate e in ricerca della vita di andarsene. Nell’impossibilità di tornare indietro, rimangono bloccate in un paese povero, un piccolo Stato in crisi economica, privo di risorse imponenti, con poche industrie e un turismo in discesa, e un passato recente sconvolto dalla rivoluzione. Comunque un paese che deve fare i conti con i suoi vicini arroganti e potenti: Italia, Francia, Germania, Olanda, Unione Europea. Vicini che vogliono a tutti i costi fermare quelle persone in transito, e che pagano milioni alla Tunisia per farlo 5. E se non ci fossero le frontiere, i confini militarizzati, queste persone sarebbero già in Italia: problema risolto.

Oggi la Tunisia non ne può più di svolgere questo ruolo infame e costoso. Nel mezzo di una crisi economica schiacciante e deprimente, un’inflazione enorme e una disoccupazione dilagante, l’arrivo di migliaia di persone che si installano nelle principali città tunisine incrina ancora di più la capacità dello Stato di provvedere alla sua popolazione. Anche perché questo Stato non ha mai dato prova di volerlo fare. La rabbia monta in un popolo affamato e frustrato, vedendo gli “Africani” – così paradossalmente vengono chiamati i neri subsahariani qui – stabilirsi nelle loro città. Un popolo impoverito, senza prospettive future, recluso in un paese che lo calpesta e lo tritura con le sue forze di polizia, un paese in cui tutto – lavorare dignitosamente, aprire un’attività, studiare, ricevere cure mediche di qualità – è difficile, negato, impedito. Un popolo schiacciato dalle frontiere, un popolo che ha una sola speranza: andare via. Una speranza negata dalla difficoltà di accedere un visto e criminalizzata dalle politiche Euro-Tunisine di contrasto all’immigrazione irregolare. Un popolo che ricorda bene i tempi pre-rivoluzione, in cui per lo meno c’era solo un ladro. Oggi, tutti sono ladri (intervista con un tassista a Sfax). L’anarchia è generalizzata, la sfiducia impera, la collera monta.

Questo popolo non ne può più da anni. Non ne può più della corruzione del partito islamista, el Nahda. Non ne più di vendere il sale alla Francia per una miseria, secondo una convenzione che risale al periodo coloniale 6. E così, quando nel 2019 Kais Saied, onesto professore di legge, fece la sua piazza pulita 7, ampie fette di questo popolo ne furono contente. Ma con il passare degli anni, senza una politica economica forte per risollevare il paese, il professore sta perdendo la sua popolarità. E così oggi, questo dittatore incompetente – si dice che almeno l’altro fosse intelligente – si sta aggrappando con tutte le sue forze a quel poco che ha per far valere la sua sovranità. Prima ha dato in pasto alle folle i parlamentari corrotti, poi gli islamisti; poi si è inventato dei complotti contro lo Stato, dei giornalisti-spie e delle organizzazioni finanziate dall’Europa per far crollare il paese. Oggi, la sua ultima carta è anche la più in voga. Il metodo più veloce, semplice e indolore per tornare nelle grazie del suo popolo è quello di portare avanti una lotta spietata contro i neri senza documenti. Questa lotta serve alla politica esterna e alla politica interna: da una parte, a guadagnare credibilità (e ad attirare attenzione e quindi fondi) con i partner Europei nella lotta all’immigrazione irregolare, dall’altra, a rinforzare la legittimità del governo. Questo, eliminando chi non rientra nella definizione di identità nazionale.

Potere razzista, potere populista

La Tunisia, che non ha uno stato di welfare, dove non c’è una protezione economica e sociale delle persone, dove il potere è concentrato nelle mani degli oligarchi della classe dirigente, è la “democrazia dello scontento”. Tutti si lamentano, nessuno ha fiducia nello Stato. Tanti ricordano i tempi di Ben Ali, dove almeno c’era lui, un uomo forte che faceva valere la sua posizione. Oggi, l’uomo forte Kais Saied sta cercando di crearsi un’egemonia, in senso Gramsciano (vedi per questo concetto Gherib Baccar, 2017), ovvero una legittimazione popolare, indiscussa, del suo potere, della sua autorità, basata sulla repressione delle persone indesiderabili, i neri irregolari.

Primo obiettivo del razzismo di Saied: fare il gioco forte con l’Europa. Non è certo la prima volta che i corpi delle persone migranti vengano utilizzati come arma di politica internazionale: vedi la Turchia nel 2016 nei negoziati con l’Europa, l’Italia e la Grecia nell’ultimo decennio nel contrattare con gli altri stati Europei. Anzi, possiamo identificare degli approcci anti-migrante comuni a tutta la politica mediterranea. Combattere le persone irregolari in tutti i modi – respingimenti alla frontiera, riammissione nel paese d’origine, detenzione, marginalizzazione – rappresentano la variabile comune alla politica regionale nel mar Mediterraneo e nelle zone limitrofe, dall’Europa del nord fino all’Africa subsahariana. Attraverso questa lotta spietata gli Stati forgiano una parte della loro sovranità, dal momento che il tema della migrazione è ormai il dibattito centrale in molti paesi europei. Governare i movimenti umani si tratta quindi di un modo di essere e di operare dello stato mediterraneo, una forma di statualità mediterranea basata sul nazionalismo populista e sul razzismo. Questi, eredi del passato coloniale e fratelli di tutte le occupazioni attorno a questo mare, dagli stabilimenti illegali israeliani nelle terre dei palestinesi, all’occupazione del Sahara Occidentale da parte del governo marocchino.

Razzismo e populismo sono infatti le carte con cui si gioca questa partita spietata. Così le potenze coloniali europee in passato cercavano di giustificare il loro dominio e di legittimare la loro occupazione con argomenti scientifici e razionali. Scrittori europei – soprattutto francesi e inglesi – a partire dal 18esimo secolo, come Voltaire, Goethe, Chateaubriand, Renan, hanno contribuito alla creazione di un “sapere orientalista” (Said, 1978) che caratterizzava gli arabi musulmani come arretrati e quindi legittimava l’intervento occidentale. Il razzismo, ovvero la valorizzazione delle differenze, reali o immaginarie (Memmi, 1982), è lo strumento adatto per supportare questo tipo di discorso. Secondo la definizione di Memmi, il razzismo è uno strumento di aggressione che utilizza le differenze tra gli uomini: «Poco importa la via, la finalità del razzismo è la dominazione. [..] Come al biliardo, dove miriamo a una palla per metterne in buca un’altra, si fanno accuse per diversi pretesti, ma sempre per rifiutare, saccheggiare, opprimere. […] Il razzismo illustra e simboleggia l’oppressione». Razzismo sono quindi il disprezzo e il senso di superiorità del colonialista che giustificò l’invasione della Tunisia o dell’Algeria; così come l’antisemitismo che portò allo sterminio degli ebrei nella Seconda guerra mondiale; per arrivare ai recenti avvenimenti di Sfax, in cui orde di banditi armati di machete hanno attaccato famiglie di immigrati subsahariani. Come lo è anche stata l’azione efferata delle forze dell’ordine tunisine, nel portare forzatamente quelle stesse famiglie nel deserto, alla frontiera libica, senza acqua, né cibo. Dietro a tutti questi eventi c’è un desidero di dominio e di potere. «L’azione razzista non è mai disinteressata, anche se la natura del profitto non è immediatamente chiara». (Memmi, 1982).

Le immagini e i video degli eventi di Sfax, che hanno sconvolto il Mediterraneo come lo aveva fatto la strage di Melilla nel 2021, portano a riflettere ancora una volta sulle frontiere e sullo stato-nazione. Infatti, ciò che accomuna gli stati oggi, malgrado differenze enormi nelle loro specificità culturali, geografiche e politiche, è la narrativa fortemente identitaria e populista con la quale viene legittimato il potere del governo. Per questo, vengono chiamati stati-nazione: perché ogni stato crea e supporta un’identità nazionale, specifica e limitata, che differenzia chi fa parte dello Stato da chi non ne fa parte. Il perché di questa “nazionalità” degli stati, si spiega con la necessità di definire il potere dello Stato, il suo monopolio della violenza, come diceva Weber. L’identità nazionale serve anche a definire a chi fornire i servizi come la salute, la scuola e il lavoro, ovvero il welfare: più facile farlo con una divisione netta e chiara tra chi è incluso e chi ne è escluso. Serve infine, anche nei momenti di crisi, quando bisogna risparmiare, mobilitarsi, andare in guerra, perché è più facile convincere qualcuno a difendere una cosa vicina, cara e intima, piuttosto che un’entità distante, fredda e incolore. Questo carattere nazionalista dello Stato è anche il suo carattere razzista, come direbbe Etienne Balibar, perché gli stati-nazione sono, di definizione, degli stati-razzisti, in cui l’identità nazionale può essere usata per giustificare un’aggressione: di questo si tratta il razzismo di Stato.

Ma l’equazione funziona anche all’opposto: se è vero che l’identità nazionale serve la violenza dello stato, è anche vero l’opposto, che la violenza rinforza la nazione. Gli esempi della storia sono tanti: l’identità nazionale delle potenze Europee uscì rinforzata e rinnovata dopo le guerre mondiali; i conflitti interetnici spesso rinvigoriscono la percezione delle differenze tra popoli, come è accaduto in Bosnia, dove ancora ad oggi, dopo la guerra, lo Stato è diviso tra musulmani e cattolici. Chiediamoci quindi, se la Tunisia di Saïed non stia cercando di fare la guerra, a modo suo, contro i cittadini subsahariani presenti sul suo territorio, per consolidare la forza del suo governo, per rinforzare l’identità nazionale tunisina. Sicuramente la creazione di un capro espiatorio, di un “altro” da combattere, allontanare e uccidere, è un motivo di forza per la nazione, per l’individualità collettiva del cittadino che si riconosce nel suo Stato e lo vuole proteggere.

E infatti, il secondo obiettivo del razzismo di Saïed è quello di calmare le folle incollerite. I criminali che hanno commesso quegli atti brutali erano a loro volta delle vittime di un sistema ineguale, toccati fortemente dalla crisi. Questo non giustifica le aggressioni o l’odio razziale, ma spiega come una rabbia e una frustrazione possano dirigersi facilmente verso i più deboli, tanto più se questam violenza è sostenuta dallo Stato. Non è solo la nazione a uscirne rinvigorita dallo scontro con l’altro, ma anche il narcisismo dell’io collettivo della società. Ciò che ci fa interrogare è il senso della violenza, che viene sempre diretta verso i più derelitti e i più poveri. Dice Memmi: «il razzista va d’istinto contro l’oppresso: è più facile aggiungere sofferenza a chi già soffre». La violenza non si manifesta, come sarebbe forse più logico, verso i forti, i dominatori europei, le potenze coloniali. Il senso di questa violenza viene legittimato dal fatto che «gli Africani sono diversi, hanno una cultura diversa dalla nostra» (intervista con un tassista a Sfax), dimenticando per esempio le ovvie differenze culturali tra tunisini e italiani. Anzi: quanto sono belle e simpatiche e intelligenti le ragazze e i ragazzi italiani, nostri fratelli e sorelle! Una visione influenzata dalle prospettive di classe e dal desiderio d’Occidente (Wael Garnaoui, 2022). Le differenze, reali o immaginarie, sono create e ricreate nel discorso collettivo e nella percezione individuale delle persone. In un video girato su un social media, una donna tunisina dice a una persona nera: «Dovete andarvene nel vostro paese, qui siamo un paese povero, non c’è nulla per voi. Arrivate, e vivete in 50 in una casa, portando delle malattie. Non c’è posto per voi qui». È il razzismo dell’oppresso che parla, l’ignoranza del popolo affamato e manipolato dalle fake news e dalle informazioni fallaci dei mezzi di propaganda moderni.

Un bisogno impellente di anti-razzismo di Stato

Albert Memmi dice che «in ciascuno di noi c’è un razzista che si ignora. […] Il razzismo è una delle attitudini più condivise al mondo». Il razzismo è talmente onnipresente, nella cultura e nella società, nei media e nell’educazione, che è difficile, se non impossibile eliminarlo del tutto. Come dice Memmi: il razzismo è un fatto sociale. Ma se il razzismo contro i neri è la direzione “naturale” di dove confluisce la rabbia di un popolo affamato e frustrato dalle frontiere e dalla corruzione, il razzismo è anche un discorso che può essere utilizzato, manipolato o eliminato. Il fatto che bande di uomini armati avessero attaccato delle famiglie subsahariane non è, di per sé, se non che una manifestazione di una tensione sociale alimentata dalla crisi economica e da un substrato culturale nazionalista mono-identitario, esclusivo e chiuso alle minoranze. Questo substrato, onnipresente nella società tunisina, dall’educazione alla socializzazione, è legittimato dal discorso razzista di Saïed. Non è una cosa che si può eliminare da un giorno all’altro: necessita di un’educazione antirazzista per evitare che le vittime di una crisi economica e politica diventino i perpetuatori di un genocidio. Invece, lo Stato supporta e infiamma gli animi razzisti, perché gli fa comodo.

E’ necessaria quindi una virata antirazzista, non solo in Tunisia, ma anche nel Mediterraneo. Innanzitutto, leggi e le corti potrebbero subito eliminare – condannando i perpetuatori, a cominciare dai capi di Stato e i ministri dell’interno – il razzismo istituzionale degli Stati mediterranei, Tunisia inclusa. Questo razzismo vile e meschino, dovuto alla volontà di dominio all’interno di un contesto storico e regionale che fa della lotta contro le persone nere irregolari il motivo di espressione della sovranità, interna ed estera. Non si tratta solo di etica, ma anche di efficacia – la propaganda anti-nero di Kaïs Saïed è totalmente incompetente, per risolvere – direi aggirare – dei problemi reali reali: inflazione, mancanza dei beni di prima necessità, disoccupazione. Deportando delle persone innocenti nel deserto, Saïed non può ricevere altro che condanne, internazionalmente e internamente. Scrive Memmi: «Soluzione fallace, certo, compensazione vana, meschina e iniqua soprattutto, che compromette i valori e si sbaglia su sé stessa, distrugge la dignità dell’uno per assicurare illusoriamente quella dell’altro. Ma bisogna ammettere che è una specie di soluzione a dei problemi reali, un tranquillizzante contro delle questioni innegabili».

Aggiungiamo che lo Stato tunisino, come gli altri Stati mediterranei, non perseguita queste persone solo in quanto nere. In altre parole, seguendo Annah Arendt (1951), i perseguitati dallo Stato sono innanzitutto persone senza diritti politici, e quindi persone desumanizzate, a cui vengono negati i diritti umani. Il razzismo di Stato è dunque una repressione dei diritti politici che queste persone richiedono a gran forza: diritto alla cittadinanza, al lavoro, alla salute e alla scuola. Diritti che vengono concessi solo a chi possiede la cittadinanza, mentre chi ne è escluso – su base razziale in senso largo – non solo non può accedere al sistema di welfare, ma viene classificato come un “indesiderabile”. Se le destre nazionaliste italiane oggi si allontanano da comportamenti razzisti “classici” entrando nel politically correct ed evitando di discriminare apertamente sulla base del colore della pelle, rimangono comunque nella convinzione che non possedere documenti di viaggio o un visto di soggiorno e non essere eleggibili alla protezione internazionale squalifichino le persone dalla protezione statale, ovvero dai loro diritti politici. Si tratta di uno shift da destra etno-nazionalista a destra amministrativo-nazionalista, e segue l’andamento dei tempi. Ma la violenza rimane: gli indesiderabili devono essere rinchiusi, allontanati, eliminati, o al massimo trattati come le vittime di turno a cui offrire un minimo di carità (Agier, 2017).

Concludiamo quindi dicendo che il razzismo in Tunisia non è un fatto culturale, bensì un’evoluzione geografica, politica, storica e sociale. Oggi in Tunisia il governo mediterraneo degli indesiderabili si coniuga con un’espressione razzista del nazionalismo arabo-musulmano. Una regione, quella del Maghreb, storicamente “separata” dal resto dell’Africa da un enorme deserto. L’indipendenza, con le sue narrative nazionaliste necessarie per espellere gli occupanti e creare una nazione, ha creato il terreno fertile per una xenofobia diffusa. Oggi, i Tunisini, attratti dall’Europa, si sentono più al di qua, che al di là del Mediterraneo. Uno dopo l’altro, i dirigenti della Tunisia non hanno mai smesso di alimentare questo sentimento filo-Europeo e anti-Africano e di fare il gioco di un’Europa che parla a favore dei poveri, ma poi li calpesta sotto i suoi stivali.

Invece di cambiare la storia e farsi ricordare come un illuminato, Saïed decide di seguire i suoi predecessori. Sarebbe molto più onesto dire, come più volte alcuni deputati e attivisti in Tunisia hanno fatto, che la Tunisia non è un paese terzo sicuro, che non può più giocare il ruolo di guarda-frontiera e che non ci sono le possibilità di dare casa e lavoro ai rifugiati sul suo territorio. Che l’Europa, con tutti i suoi soldi, se li prenda, insomma! Ma Saïed questo non lo dirà mai.

Sarebbe allora necessario, almeno, promuovere una forma di antirazzismo umanitario nei confronti delle persone che si trovano bloccate nel paese. Sarebbe un discorso etico e nobile che l’Europa, con i suoi trattati suoi diritti umani, sarebbe costretta ad accettare. D’altra parte, durante la guerra d’Algeria (1967) e la guerra in Libia (2011), migliaia di famiglie hanno ospitato, cibato e aiutato migliaia di profughi dai paesi vicini. Moltissimi in Tunisia sono pronti a rifarlo, d’altronde l’ospitalità e aiutare il prossimo è parte enorme della cultura del paese. Ma Saïed decide di seguire il nostro cattivo esempio, di fare proprio come gli Europei, che di ospitalità se ne infischiano: accusiamo i neri dei problemi del paese, spargiamo notizie false e deportiamo centinaia di persone. Sembra proprio che abbia imparato bene da Macron, Meloni, Minniti, Salvini e molti altri. Diciamolo forte: le cose devono cambiare in Tunisia, ma perché cambino, devono prima cambiare a casa nostra. Fintanto che l’assistenza è solo per i nostri vicini di casa, non risolveremo le crisi globali e la violenza che scuotono il nostro mondo oggi. Dobbiamo permettere a queste persone, bloccate in nord africa, di farsi una vita, qui da noi. E dobbiamo sforzarci per dare una possibilità e un futuro a Tunisini, Nigeriani, Chadiani, Sudanesi… a casa loro. Le due cose vanno fatte, di pari passo. Ma per questo abbiamo bisogno, in Tunisia come in Italia, urgentemente, di un discorso antirazzista permeante, forte e oppositore, e di una sinistra che sappia farsi valere secondo i valori del cosmopolitismo vero e dell’umanesimo.

  1. Il razzismo. Paura dell’altro e diritti della differenza
  2. Etude: Crispation anti-migrants Subsahariens en Tunisie: Discours et violences, di Maram Tebini per il Forum Tunisien pour les Droits Economiques et Sociaux
  3. La Tunisia non è un paese sicuro per i migranti, di Annalisa Camilli – Internazionale (11 luglio 2023)
  4. Piattaforme di sbarco per i migranti, piano dell’Onu per aiutare l’Europa di Beda Romano – Il Sole 24ore (26 giugno 2018)
  5. Il Grande muro, la nuova frontiera dell’Europa, ActionAid e IrpiMedia
  6. En Tunisie, le sel reste le privilège des anciens colons français, Lilia Blaise – Mediapart (gennaio 2019)
  7. Kaïs Saïed, nuova dittatura in Tunisia? L’Altra Tunisia (maggio 2023)

Vincent Bianco

Arabista e ricercatore di scienze politiche e antropologia delle migrazioni nel mediterraneo.