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Io capitano e l’altro lato dei fenomeni migratori

Come il film vincitore del Leone d’Argento può far aprire gli occhi su ciò che tende a restare invisibile

La locandina del film

Di Laura Pauletto

Seydou, un ragazzo senegalese di sedici anni, decide, assieme al cugino Moussa, di lasciare Dakar ed emigrare verso l’Europa. I due giovani non partono perché costretti da difficoltà estreme nel contesto in cui vivono, bensì perché sognano di potersi realizzare, diventare musicisti famosi e contribuire così a mantenere le loro famiglie d’origine. Quando una sera Seydou confessa alla madre la sua intenzione di partire, lei cerca di dissuaderlo con molta fermezza. Restando male nel vederla così preoccupata, Seydou le rivela che era solo uno scherzo.

I due cugini però partono ugualmente di nascosto. Il viaggio è composto da molte tappe durante le quali incontrano spietati trafficanti che non danno alcun valore alle vite che percorrono il tragitto. C’è chi cade dal furgone che attraversa il deserto e viene lasciato indietro a morire sotto il sole cocente. C’è chi resta a terra perché è stremato e non ce la fa più a camminare. Le forze dell’ordine chiedono più soldi per lasciar passare le persone che sanno possedere documenti falsi. E poi si arriva in Libia, dove nei centri di detenzione si viene brutalmente torturato. Fino all’imbarco e poi alla traversata del Mediterraneo, che sembra interminabile.

Io capitano, diretto da Matteo Garrone, che ha vinto il Leone d’Argento alla 80° Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia per la regia e il Premio Marcello Mastroianni all’attore protagonista, Seydou Sarr, racconta il viaggio che migliaia di persone provenienti da vari paesi africani compiono, rischiando la vita, per arrivare alle frontiere dell’Europa. Un aspetto centrale del film è che la storia viene raccontata dal punto di vista dei protagonisti, ovvero Seydou (Seydou Sarr) e Moussa (Moustapha Fall) e delle altre persone che compiono quel viaggio, come spiega lo stesso Garrone 1. È attraverso le loro parole, in wolof e in francese, che seguiamo il racconto assistendo a ciò che loro e i loro compagni di viaggio vivono. È inevitabile essere dalla loro parte, sperare che riescano ad arrivare alla prossima tappa, pensare “non fermarti a guardare indietro, vai avanti” quando in alcuni momenti esitano nell’osservare chi rimane indietro, perché è questo l’unico modo: non fermarsi, ma andare sempre avanti, per sopravvivere.

Nel film non viene mai mostrato ciò che avviene in Italia. La storia è interamente ambientata in Africa, a partire dal Senegal, attraverso il deserto, fino alla Libia e infine nel mar Mediterraneo. E qui si può cogliere un altro elemento chiave del film: si rende visibile ciò che normalmente giornali, telegiornali, social e altri mezzi di informazione non mostrano. Al posto di ulteriori immagini da Lampedusa o da altri hotspot o strutture di accoglienza, a cui la gente ormai è abituata al punto da rischiare un’assuefazione generale, si dà visibilità a ciò che in Europa si tende a non sapere e a non (voler) vedere. E questo diventa ancora più rilevante visto che il film è uscito nelle sale italiane da poco, proprio in un periodo durante il quale a Lampedusa la situazione è estremamente complessa a seguito delle migliaia di persone presenti nell’hotspot.

I protagonisti del film e le altre persone migranti non vengono mai rappresentate in maniera infantilizzante o disumanizzante. Seydou e Moussa sono dei giovani come tanti, con i loro sogni, le loro aspirazioni. Loro, che indossano delle maglie da calciatori e scrivono canzoni, desiderano diventare famosi e “firmare gli autografi ai bianchi”, senza dare importanza, prima di partire, ai pericoli di quel viaggio. Il pensiero delle loro famiglie, in particolare della madre di Seydou, è sempre presente. Il ragazzo si ferma a soccorrere una donna stremata nel deserto, accetta perfino di essere lui a guidare la barca dalle coste libiche fino alla Sicilia, diventando improvvisamente un adulto con un’enorme responsabilità. La resilienza, l’istinto di sopravvivenza, la determinazione per arrivare a destinazione e quindi l’umanità dei protagonisti vengono mostrate nel film in maniera limpida e intensa, facendoci fare il tifo per Seydou e chi viaggia con lui.

I corpi sono un elemento centrale nel film. I corpi delle persone che migrano vengono feriti, abbandonati nel deserto, ispezionati per verificare se nascondono del denaro, torturati, uccisi. Seguendo il pensiero della filosofa Judith Butler (Butler 2004; Butler 2009), sono corpi e quindi vite che vengono considerate meno “sopportabili” e “vivibili” di altre, che vengono rese precarie, vulnerabili e vengono discriminate perché percepite come pericolose, nemiche. I corpi delle persone che attraversano i confini degli Stati africani per arrivare in Europa mettono in discussione le leggi e la politica che regolano i fenomeni migratori e di conseguenza i rapporti tra Stati e tra popolazioni. Proprio i corpi, neri, feriti, stremati, abusati, che però riescono a muoversi e transitare tra vari Paesi, hanno il potere di destabilizzare le relazioni tra Stati e un certo modo di affrontare la questione migratoria. E proprio mostrando questi corpi in viaggio, Io capitano permette di riflettere su cosa significhi non avere il permesso di fare legalmente ciò che per un’altra parte del mondo, quella occidentale, quella dei bianchi, è consentito, cioè spostarsi per andare in cerca di una vita migliore.

Io capitano è un film che coinvolge, commuove, genera rabbia, dà speranza, fa riflettere, ci apre gli occhi. Il film unisce il racconto quasi documentaristico di ciò che comporta intraprendere questo viaggio, inclusi i soprusi, le violenze, la morte, con elementi di spiritualità che aiutano soprattutto Seydou ad andare avanti – come la figura dell’angelo, messaggero che riporta Seydou da sua madre – lasciando spazio alla bellezza e alla speranza. È un film che rappresenta un altro lato dei fenomeni migratori, utilizzando un altro punto di vista. Ed è soprattutto per questo che andrebbe visto. Perché, come scoprirà la madre di Seydou, non è solo uno scherzo.

Fonti citate

  • Butler, J. (2004). Precarious life: the powers of mourning and violence, London, Verso.
  • Butler, J. (2009). Frames of war: when is life grievable?, London, Verso.
  1. Ad esempio, si vedano gli estratti dell’intervista a questo link https://www.capital.it/articoli/film-matteo-garrone-intervista-venezia-2023-io-capitano/ (ultimo accesso 17/09/2023)