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Bangladesh – Status di rifugiato al richiedente vittima di tratta per sfruttamento lavorativo e schiavitù da debito, a rischio di re-trafficking

Tribunale di Roma, decreto del 28 luglio 2023

Foto tratta da Radix

Il tribunale di Roma riconosce lo status di rifugiato ad un cittadino bengalese per appartenenza al gruppo sociale delle vittime di tratta a scopo di sfruttamento lavorativo e alla categoria dei cosiddetti schiavi da debito, cioè coloro che hanno contratto un debito che è impossibile da ripagare.

Si tratta di un caso in cui ci sono molti degli indicatori tipici della tratta a scopo di sfruttamento lavorativo dei cittadini del Bangladesh: provenienza da un contesto sociale di origine molto povero, primogenito di una famiglia numerosa nella quale inizia a lavorare già minorenne per sostenere economicamente il nucleo familiare a causa dei problemi di salute del padre impossibilitato a svolgere attività lavorativa, contrazione di debiti per pagare le cure del genitore e poi per affrontare il viaggio, le modalità di svolgimento del viaggio con un percorso gestito e controllato da terzi con i quali la persona richiedente rimane in contatto e che gli forniscono opportunità di lavoro da Dhaka a Dubai e poi in diverse zone della Libia, sequestro del passaporto in Libia, l’abuso di una posizione di vulnerabilità, le condizioni di grave sfruttamento lavorativo in agricoltura in Libia con torture fisiche e psicologiche, continue pressioni della famiglia a causa delle minacce subite a loro volta dai creditori, condizioni di sfruttamento lavorativo in Italia (sebbene sul territorio nazionale lo sfruttamento non risulti collegato al giro di trafficanti originario).

Nel caso specifico poi i debiti sono stati contratti dal padre e non personalmente dal ricorrente, che infatti non è in grado di riferire con coerenza ed esattezza l’ammontare e il tasso di interesse, elemento questo che secondo la Commissione Territoriale era stato sufficiente ad escludere la protezione internazionale e che invece la giudice valorizza quale ulteriore indicatore di sfruttamento anche in ragione del fatto che, a prescindere dalla persona che ha contratto il debito, il ricorrente ha subito personalmente le conseguenze concrete e il peso psicologico di tale situazione debitoria tanto da finire coinvolto in un fenomeno di tratta a scopo di sfruttamento lavorativo, sia in Libia, che in Italia, anche al fine di evitare ritorsioni nei confronti della famiglia in Bangladesh.

Nel caso in esame è stata fondamentale la relazione dell’ente antitratta a cui avevamo segnalato la persona nelle more del giudizio, tanto che il ricorrente non è stato neppure ascoltato in udienza dalla giudice che ha ritenuto gli indicatori emersi in CT e poi con l’ente antitratta come sufficienti (probabilmente anche al fine di evitare una rivittimizzazione). 

E’ molto interessante che nella pronuncia si faccia riferimento agli indicatori di questo specifico fenomeno di tratta tra i quali si ricomprende la stessa situazione debitoria – seppur non formalmente ma sostanzialmente riconducibile al ricorrente – e a tutte le fonti che denunciano tale fenomeno nel contesto proprio del Bangladesh.

In merito al pericolo attuale si fa riferimento al rischio di re-trafficking e della schiavitù da debito, considerata la situazione di indigenza economica della famiglia in Bangladesh e la sua situazione di vulnerabilità connessa al fatto di non aver estinto i debiti familiari contratti nel Paese di origine, ma anche al rischio in quanto vittima di tratta di subire ostracismo, discriminazione o comportamenti punitivi da parte della famiglia o della comunità locale o, in alcuni casi, delle autorità, in caso di ritorno in patria: “In taluni casi, tali forme discriminatorie o punitive possono raggiungere il livello di persecuzione, in particolare se aggravati dal trauma subito dall’esperienza di tratta; tuttavia, anche se l’ostracismo o la punizione non dovessero raggiungere tale livello, tale rifiuto e isolamento da parte delle reti di sostegno sociale può comunque aumentare il rischio di essere nuovamente trafficati o di essere esposti a ritorsioni. Sotto questo ultimo aspetto, considerando il profilo specifico del ricorrente rispetto alla modalità di contrazione del debito, alla partecipazione ai prestiti da parte del padre e all’attuale situazione di tensione con i creditori, deve ritenersi fondato il timore che la comunità sociale di riferimento nel Paese di origine sia a conoscenza della situazione debitoria irrisolta della famiglia del richiedente, esponendo quindi lo stesso e i familiari ai citati rischi di ritorsione, rappresaglie, isolamento ed esclusione sociale.”.

Infine il Tribunale riconosce lo status di rifugiato per appartenenza ad un particolare gruppo sociale “rappresentato da quello delle vittime di tratta a scopo di sfruttamento lavorativo, in cui l’elemento di immutevolezza è dato dall’incapacità di uscire dalla propria situazione di costrizione lavorativa a causa degli ingenti debiti contratti nel Paese di origine e della situazione di grave indigenza economica familiare, nonché dalle esperienze vissute durante la tratta e dalle vicende di sfruttamento lavorativo subite in Libia e in Italia. Ferma l’appartenenza al detto gruppo sociale, esiste, come sopra esposto, il fondato timore che il ricorrente, in caso di rientro in Bangladesh, possa incorrere in forme di persecuzione sostanziate dal rischio di re-trafficking, unitamente alle possibili ritorsioni o discriminazioni a cui andrebbe incontro per il prestito da rimborsare, considerato inoltre che non risulta ad oggi garantita la volontà e la capacità effettiva del suo Paese di provenienza di proteggere le potenziali vittime di tratta e re-traffiking […] con il conseguente riconoscimento della più elevata forma di protezione“.

Si ringrazia l’avv.ta Federica Remiddi per la segnalazione e il commento. Il caso è stato seguito insieme all’avv. Salvatore Fachile.


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