Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza
PH: Maldusa, (Lampedusa, 18.09.2023)

Il progetto Maldusa come connettore tra le realtà informali

Un dialogo con Deanna Dadusc

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«Il tutto è più della somma delle parti»

Palermo, ottobre 2023 – In Sicilia, terra di sbarchi, di sfruttamento lavorativo e di naufragi, la narrazione mainstream – gli arrivi a bordo di imbarcazioni traghettate da trafficanti violenti, la dimensione emergenziale del sistema hotspot, le illusorie strategie di deterrenza al movimento delle persone – genera un contraltare altrettanto forte di realtà solidali con le persone in movimento.

Il loro impegno per mare e sulla terraferma è supportato dalla consapevolezza, più volte comprovata dalle analisi, che non si ferma il mare con le mani”, che chi vorrà continuerà a muoversi dai propri paesi nonostante i muri e le politiche dei respingimenti, che l’irregolarità delle persone è fabbricata dal sistema per dare legittimità giuridica e fattuale della violenza e della discriminazione.

Il progetto Maldusa è nato negli ultimi due anni dalle realtà No Border che operano in Italia, Europa e Tunisia, con realtà autorganizzate di persone con un percorso migratorio (incluse Alarm Phone, Mediterranea, i Ragazzi Baye Fall), per valorizzare la presenza di queste realtà solidali, sull’isola e nel resto dell’Europa, e per creare reti in collaborazione strutturate tra di esse.

Abbiamo avuto l’occasione di dialogare con Deanna Dadusc, attivista No Border che ha visto nascere il progetto.

Lampedusa, 18.09.’23 – Persone sedute davanti il cancello dell’hotspot per garantirsi un posto nel prossimo trasferimento
Ogni giorno voi di Maldusa vi scontrate con i limiti strutturali e le contraddizioni del sistema delle frontiere. In che modo sostenete le persone in movimento?

Nel 2021 a Palermo c’è stata una riunione di realtà No Border. Ci siamo chiestə di cosa la lotta al fianco delle persone in movimento avesse più bisogno. Innanzitutto eravamo d’accordo sul bisogno di una base a Lampedusa, perché non avevamo una contro-narrazione su quanto succede a Lampedusa. Alcune di noi in questo primo nucleo di persone facevano parte di Alarm Phone, e in questa realtà ci siamo trovatə quotidianamente a parlare al telefono con persone che vedevano Lampedusa dalla barca da cui ci chiamavano e subito dopo perdevamo improvvisamente il contatto…  in quei casi, non avevamo modo di sapere se quelle persone fossero effettivamente arrivate a Lampedusa, perché oltretutto la guardia costiera non rilascia alcun tipo di informazione in merito.

La guardia costiera non può rilasciare informazioni o si rifiuta di farlo?

All’inizio la guardia costiera in alcune occasioni ha cercato di collaborare con noi, ma probabilmente in seguito la base operativa centrale da Roma deve aver posto dei limiti. Da quel momento, quando tentavamo un contatto con la guardia costiera di Lampedusa, siamo sempre statə rinviatə alla sede di Roma, che regolarmente ci rispondeva di non poter rilasciare informazioni.

Quindi per noi era importante avere un occhio critico su Lampedusa per capire anche quali fossero le politiche sull’isola. Tutte le isole di frontiera sono dei microcosmi: ci sono la guardia di frontiera, UNHCR, collettivi e organizzazioni solidali, ciascuno con le proprie dinamiche. In questo panorama noi eravamo completamente estranee, e ci è sembrato fondamentale inserirci in maniera critica in queste relazioni costruendo una base là, da cui tessere relazioni più profonde con gli operatori chiave che si occupano di ricerca e soccorso.

Accanto a questo, c’era l’obiettivo di avere una nave veloce. Dal punto di vista delle operazioni di ricerca e soccorso, il Mediterraneo è un mare difficile. Di fronte a queste inadempienze, intervengono le ONG. Ma spesso le navi delle ONG sono molto lente. Le maggiori difficoltà si verificano in acque contestate come quelle tra Malta e l’Italia, che in casi simili si rimbalzano a vicenda la competenza dell’intervento, le imbarcazioni restano alla deriva e naufragano.

Quindi abbiamo pensato all’idea di avere una nave veloce che a chiamata potesse partire da Lampedusa e arrivare rapidamente sui luoghi delle segnalazioni, non tanto per fare i soccorsi, quanto per utilizzare la postazione sulla nave per fare pressione sulle autorità affinché intervengano, oltre che per monitorare quello che altrimenti sarebbe un buco nero di informazioni sul mare attorno all’Italia.

Persone sudanesi, siriane e tunisine che rivendicavano la loro volontà di lasciare Lampedusa
Perché l’idea di un ponte tra Palermo e Lampedusa?

Un altro tema importantissimo per noi era andare oltre le operazioni di pura ricerca e soccorso. Spesso le ONG solidali che si occupano di soccorso in mare sentono di avere assolto al loro compito una volta che le persone raggiungono la terraferma; noi volevamo avere uno sguardo più ampio sulla rotta e continuare il lavoro in alleanza con le persone in movimento anche dopo lo sbarco: dare supporto a terra, monitorare la situazione dei centri di rimpatrio, estendere la rete di supporto delle persone in accoglienza o in transito, eccetera. E poi volevamo “debianchizzare” le nostre modalità organizzative e le nostre pratiche di lotta coinvolgendo quanto più possibile delle comunità che le frontiere le hanno attraversate e che restano continuamente in relazione con la frontiera anche quando si sono stabilite su un certo territorio.

Alle associazioni amiche con base a Palermo aderiscono molte persone con percorso migratorio, auto-organizzate e con una prospettiva molto forte sul tema dell’autonomia e della resistenza delle persone in movimento. È stato quindi naturale pensare di avere una base a Palermo per rendere le persone migranti protagoniste del progetto. Quando Maldusa è nata, queste realtà erano già presenti nel nostro gruppo e ci hanno supportato nell’elaborazione del progetto.

Per Maldusa, Palermo costituisce una cassa di risonanza di ciò che succede a Lampedusa, ma anche un centro culturale e di elaborazione di lotte trasversali. E poi è una città di transito, non solo di persone migranti. Molte associazioni e persone sostano a Palermo prima di proseguire per Lampedusa: è una località su cui convergono tante realtà diverse, ma tutte legate alla ricerca e soccorso in mare.

In che modo andate oltre il lavoro di ricerca e soccorso?

Quello che cerchiamo di fare è creare dei ponti tra il nord e il sud del Mediterraneo, rafforzare il legame e la collaborazione tra realtà che già esistono. Facciamo un esempio: quando eravamo in cerca di persone disperse segnalate dai loro cari, dovevamo affidarci ai contatti tra singoli da un capo all’altro dell’Italia; gran parte di questo lavoro dipendeva dalla conoscenza puntuale che potevamo sfruttare, un giornalista, un attivista, un amico di amici.

Tra queste realtà di supporto occorreva creare una rete strutturata e solida, che si estendesse sull’intero territorio italiano e anche oltre. L’obiettivo di Maldusa non era sostituirsi alle realtà esistenti, ma mettere in comunicazione queste realtà, di illuminare delle “underground railroads”.

L’immaginario delle underground railroads, legato alle reti informali delle persone afroamericane schiavizzate durante l’abolizionismo, è fondamentale per cogliere il lavoro di Maldusa. È alla luce di questo immaginario che Palermo e Lampedusa vengono definite delle “station”: sono basi, ma il lavoro che Maldusa prova a fare è rafforzare strutture e canali che favoriscono la libertà di movimento in tutta Europa.

Stazione di Maldusa Palermo
Accanto al problema delle politiche di frontiera respingenti c’è quindi un problema molto più banale di mancanza di collegamenti tra le realtà che supportano il diritto di movimento e di autodeterminazione delle persone. La rete transfrontaliera che Maldusa cerca di rafforzare può abbattere determinate frontiere semplicemente mettendo in rete delle realtà che già esistono?

Un altro discorso importante per Maldusa è che l’infrastruttura di violenza, di respingimento e di repressione presente sui confini è strettamente legata ai dispositivi umanitari dell’accoglienza. Per come è costruito, anche il sistema istituzionale dell’accoglienza è un’infrastruttura repressiva, disumanizzante, basata su criteri di vulnerabilità aleatori e spesso causa di ulteriori vulnerabilità.

Lo sforzo di Maldusa è di costruire delle alternative non soltanto a quelle istituzioni esplicitamente violente perché responsabili di respingimenti, detenzioni e omissioni di soccorso, ma anche a quelle forme di umanitarismo istituzionale che finiscono per riprodurre nei confronti delle persone migranti le stesse forme di controllo e di repressione: vuoi entrare in un campo gestito dalla Croce Rossa alla frontiera di Ventimiglia? Devi mostrare i documenti alla polizia.

Con questi dispositivi vengono messe in atto delle precise modalità di gestione della cosiddetta “emergenza umanitaria” che vanno contro i nostri principi di libertà di movimento e di autodeterminazione delle persone migranti – noi ci dissociamo anche dalla definizione stessa della questione in termini di “emergenza”. La nostra idea è di rafforzare quelle reti informali senza dover interfacciarci necessariamente con le realtà istituzionali dell’accoglienza.

Se l’Hotspot è un centro chiuso tocca chiamarlo prigione
Nell’elaborazione di pratiche di lotta e di infrastrutture per la libertà di movimento avete bisogno della prospettiva delle persone stesse che subiscono la frontiera. Perché?

I percorsi da Lampedusa alla Francia o dalla Grecia alla Slovenia non li hanno creati né le ONG, né la Croce Rossa, né le realtà no-border. Sono opera delle persone stesse che viaggiano, e che nel loro viaggiare hanno pian piano costruito questa rete di mutuo aiuto, secondo le proprie necessità e le capacità di comunicazione tra di loro. Certo, i gruppi solidali sono importanti, ma i punti di snodo, i canali, gli incroci lungo le rotte li hanno creati i migranti stessi in realtà autorganizzate, magari senza gli slogan No Border, ma riproducendo le stesse pratiche dellə attivistə e dellə solidali. E più fortemente criminalizzati.

Si parla molto di ONG criminalizzate, ma in realtà le persone che finiscono in carcere con l’accusa di traffico di esseri umani sono le persone migranti che facilitano il viaggio e che forniscono dei servizi, a volte anche a pagamento, e che per questo vengono definite “trafficanti”, ma che in realtà non hanno niente della violenza che di solito viene associata alla parola “traffico”. Operano quella che noi definiamo “facilitazione”, in senso positivo, del movimento delle persone.

Stiamo lavorando molto su questo tema anche con Captain Support, un network in supporto delle persone condannate per essersi messe alla guida delle imbarcazioni che attraversano il Mediterraneo. Queste persone spesso sono migranti loro stesse, condannate solo per essersi trovate – per un motivo o per l’altro – alla guida dell’imbarcazione.

Stiamo cercando di espandere il nostro lavoro anche alle frontiere di terra, in supporto di drivers che guidano le auto nel deserto o nelle montagne, sia prima che dopo l’attraversamento del mare. Abbiamo bisogno della prospettiva delle persone migranti per sfidare delle logiche razziste presenti anche all’interno delle nostre infrastrutture e perfino dei nostri movimenti.

Rossella Marvulli

Ho conseguito un master in comunicazione della scienza. Sono stata a lungo attivista e operatrice nelle realtà migratorie triestine. Su Melting Pot scrivo soprattutto di tecnologie biometriche di controllo delle migrazioni sui confini europei.