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Antirazzismo e scuole. Vol. 2

Un libro Open Access a cura di Annalisa Frisina, Filomena Gaia Farina, Alessio Surian (Padova University Press, 2023)

Come affrontare lo studio del razzismo come sistema di potere in cui la violenza è ordinaria e costantemente invisibilizzata?

La pubblicazione condivide alcune proposte che provano a decostruire ideologie di matrice coloniale. Mentre il volume 1 era dedicato soprattutto alle scuole primarie, il volume 2 si rivolge principalmente a chi insegna nelle scuole secondarie, per creare e sperimentare percorsi didattici che possano contrastare diverse forme di razzismo.

Il libro pubblicato in Open Access con Padova University Press offre i risultati di un lavoro di ricerca-azione svoltosi in scuole secondarie del Veneto e mostra come utilizzare materiali di lavoro originali per coltivare una riflessività collettiva e impegnarsi insieme per una maggiore giustizia sociale.

Introduzione

Annalisa Frisina & Alessio Surian, Università di Padova 1

L’idea che dopo il 1945 il mondo sia stato diviso in una zona democratica pacifica comprendente i paesi ‘maggiormente sviluppati’ e una zona di instabilità e violenza altrove non è altro che una fantasia occidentale autoconsolatoria (D. Forgacs)

La violenza razzista non è altrove

Viviamo tempi di guerra a livello globale, rischiamo di assuefarci alla violenza.

Il razzismo è innanzitutto violenza ed è una questione di vita o di morte. L’antirazzismo può quindi essere considerato una lotta per la vita.

Quali vite contano? Quali vite si ritiene possano essere sacrificate? Quali morti debbono essere ricordate e quali vanno dimenticate?

E ancora: chi decide chi deve vivere e chi possa essere lasciato morire?

Storicamente, lo Stato gioca un ruolo importante nella riproduzione della violenza razziale.

Come persone interessate a contrastare il razzismo nelle istituzioni educative e nella società italiana, è importante allora interrogarci sui nessi violenza-potere-legittimazione.

Secondo lo storico David Forgacs (2021, 32-33), la violenza ha accompagnato la creazione degli stati e l’unità della nazione si è realizzata sempre in modi brutali. Forgacs ha ripercorso la storia d’Italia, studiando la violenza pubblica dall’unità ad oggi, nelle colonie e in Italia. Lo stato italiano ha usato in modo ricorrente la violenza (anche quella “illegale”) per riaffermare la propria legittimità in momenti di crisi. Per gli scopi di questo libro – riflettere sul razzismo come sistema di potere violento – menzioneremo solo tre periodi storici tra quelli analizzati da Forgacs.

Un primo periodo ricostruito da Forgacs (2021, 81-106) in cui emerge chiaramente la violenza razzista dello stato italiano è quello della “sporca guerra” (1911-1912) per la conquista della Libia. L’Italia voleva la sua parte nell’europeo scramble for Africa (la corsa per accaparrarsi le risorse del continente africano) e usò una violenza efferata (come, ad esempio, nel massacro di Tripoli dell’ottobre 1911, Labanca 2002). Naturalmente, questa violenza non entrò mai nella memoria pubblica degli italiani, mentre attraverso monumenti come quello “ai bersaglieri” della battaglia di SciaraSciat (1911) – che si trova a Roma a Porta Pia- il fascismo volle celebrare il “martirio” dei soldati italiani contro i “selvaggi” arabi.

Forgacs (2021, 156-167) analizza un secondo periodo in cui si è manifestata in modo eclatante la violenza razzista dello stato italiano: le stragi compiute in Etiopia tra il 1937 e il 1939. In particolare, il 19 febbraio del 1937 (nel calendario etiope Yekatit 12) venne ferito ad Addis Abeba Rodolfo Graziani, il “viceré d’Etiopia”, in una cerimonia in cui offriva “l’elemosina ai bisognosi”. Soldati italiani, carabinieri ed ascari (soldati indigeni reclutati nelle colonie italiane) fecero un eccidio “per ritorsione”, poiché tutti/e gli/le etiopi venivano considerati/e colpevoli, dunque meritevoli di morte violenta. Quanto accaduto è stato ricostruito in modo accurato da storici come Ian Campbell (2018) e Matteo Dominioni (2019). Oggi inizia lentamente ad entrare nella memoria pubblica italiana grazie al lavoro di scrittrici come Gabriella Ghermandi (2011) e grazie ad iniziative culturali della società civile 2.

Un terzo periodo studiato da Forgacs (2021, 302-320) ci interpella in modo diretto su questioni di estrema attualità. Esamina la violenza di coloro che definisce “giustizieri di razza” (focalizzandosi sugli anni 2011-2018) contro persone nere, migranti e Rom. Questa violenza razzista viene compiuta in nome della difesa della nazione immaginata come (una donna) bianca.

Forgacs sottolinea che la violenza omicida (come quella dell’attentato terrorista a Macerata nel 2018, Frisina e Pogliano 2020) avviene nel dilagare del “razzismo politico e mediatico”, è un suo prodotto. Tra le varie tipologie di comunicazione che alimentano la violenza razzista Forcags cita “blog e opuscoli fascisti, manifesti, battute e barzellette che circolano per via orale, Facebook, Twitter (potremmo aggiungere ad esempio anche video su Instagram, N.d.R.), ma anche fonti mediatiche tradizionali come stampa e televisione” (Forgacs 2021, 306) 3.

Come sottolinea Ruth Wodak (2015), il populismo dei partiti e movimenti di estrema destra è diventato una forza politica mainstream in molti paesi europei. È quindi più che mai indispensabile disarmarsi da un apparato ideologico razzista di matrice coloniale. Elsa Dorlin (2020) ha ricostruito una genealogia della violenza razzista per mostrare che la violenza dei bianchi contro le persone razzializzate come non bianche è costruita da secoli come “reattiva e difensiva”; in breve, essa si presenta come sempre legittima. I corpi degli ex-schiavi e degli ex-colonizzati spesso sono ancora oggi considerati come pericolosi e colpevoli, dunque sempre punibili in modo sommario.

La violenza razzista fa dunque parte integrante di un sistema di dominio secolare. Le aggressioni fisiche e quelle armate sono solo la punta di un iceberg.

A scuola diventa sempre più urgente riflettere sulle radici profonde della violenza razzista, mettendola in relazione alla storia dell’Europa e dell’Italia. Inoltre, diventa indispensabile creare percorsi conoscitivi che permettano di prestare maggiore attenzione alle esperienze delle persone razzializzate come non bianche, che non hanno mai smesso di lottare per poter sopravvivere alla violenza razzista.

Antirazzismo, nonviolenza e educazione

Cinquant’anni fa, Konrad Lorenz (1974:45-47) constatava amaramente come l’umanità a lui nota sapesse “così poco di sé stessa”, preda dell’“errore dell’utilitarismo (…): il confondere il fine con i mezzi”. L’etologo austriaco metteva in rilievo due effetti della modernità competitiva: la fretta e l’angoscia, la paura “di non essere o non essere più all’altezza di una situazione esistente”. Fretta e angoscia, rilevava Lorenz, privano l’umanità di qualità essenziali, prima fra tutte la riflessione, aspetto chiave per i processi di apprendimento. Negli stessi anni, il biologo e psicologo cileno Humberto Maturana esplorava come sensibilizzare i processi educativi alla dimensione affettiva e sollecitava ad affrontare le relazioni e le emozioni che accompagnano i comportamenti che spingono alla discriminazione, al risentimento, all’aggressività. Maturana, come Vygotskij (2022) cinquant’anni prima, sottolineava che le dinamiche della convivenza quotidiana sono il fattore chiave dell’educazione. È quindi dimensione indispensabile dei processi educativi la capacità di aprire spazi e condizioni per riflettere e chiederci se ci piace o non ci piace l’esperienza di convivenza degli spazi scolastici e sociali in genere. Questa capacità è in stretta relazione con un’idea di scuola in grado di favorire conformismo o, piuttosto, persone libere e creative (Mecacci, 2022:25).

Dal lato di chi educa, questa capacità sollecita la consapevolezza di quella che, da una prospettiva nonviolenta, il sociologo norvegese Johan Galtung (2000) chiama violenza “strutturale” in relazione al “triangolo” della violenza.

L’intento di Galtung è quello di mettere a disposizione di chi voglia affrontare e trasformare i conflitti un dispositivo per riconoscere le forme di violenza agite a diversi livelli: con gli atteggiamenti, i comportamenti, le politiche e che riguardano condizioni fisiche, emotive, espressioni verbali, posizioni istituzionali, condizioni strutturali e spirituali quando si sminuisce, si domina o si arriva a ferire o distruggere noi stessi e le altre persone.

Secondo Johan Galtung, la violenza nasce sempre quando le persone sono influenzate in modo tale che il loro sviluppo fisico e mentale si esprima al di sotto del loro effettivo potenziale. La violenza è quindi la ragione della differenza tra sviluppo potenziale e sviluppo effettivo.

Il dispositivo identificato da Galtung distingue tre tipi di violenza, fra loro interdipendenti: ogni forma di violenza può influenzare gli altri tipi di violenza.

Le tre tipologie di violenza riguardano la violenza diretta, strutturale, culturale / simbolica.

Per violenza diretta si intende quella che viene esercitata in prima persona(o attraverso dispositivi tecnologici) da una persona e che può essere di natura fisica o psicologica. Spesso, quando diciamo “violenza” ci riferiamo a queste forme di abuso: colpi e ferite fisiche e/o psicologiche, umiliazioni,
discriminazioni, bullismi, torture, omicidi.

Un ulteriore piano che vale la pena osservare è quello delle strutture sociali che generano una seconda tipologia di violenza, quella strutturale. Nei rapporti quotidiani, questa dimensione della violenza può anche non essere percepita e rimanere relativamente invisibile. Di fatto, riguarda tutte le norme, le strutture, gli ostacoli che impediscono ad una o più persone di realizzare i propri diritti e di soddisfare bisogni. Dal punto di vista dei rapporti interpersonali, può essere considerata una violenza indiretta; diversamente dalla violenza diretta, non ne è sempre evidente la causa. Il risultato è un condizionamento delle persone, l’impedire loro di poter realizzare sé stesse secondo il proprio potenziale. Questo è evidente in situazioni che costringono a vivere in condizioni di vita degradanti, di povertà, di apartheid, di leggi razziali, di specifiche disposizioni legali che inferiorizzano una parte della popolazione civile, in contesti che creano condizioni diseguali riguardo all’accesso alle risorse e ai servizi come l’istruzione e la sanità.

Entrambe queste tipologie di violenza rimandano e intersecano una terza tipologia che riguarda la loro (apparente) “legittimazione”: in questo caso parliamo di un’altra violenza “invisibile”, la violenza culturale
o simbolica. Questo livello della violenza riguarda le caratteristiche di un contesto socioculturale che, in base a pregiudizi, legittimano l’uso della violenza diretta o strutturale manifestandosi in atteggiamenti di razzismo, sessismo, abilismo, fascismo, ideologie antireligiose etc.

È tipica di questo livello la convinzione che non vi sia nessuno che possa esserne ritenuto responsabile. Parliamo, quindi, di un tipo di violenza normativa in grado di condizionare i sistemi che regolano le nostre vite e che, insieme alla violenza strutturale, produce rapporti di potere diseguali che riducono le risorse e le possibilità di vita di una parte della popolazione. Quando pensiamo alle forme di razzismo è utile prendere atto che i tre i tipi di violenza sono interdipendenti e che affrontarne uno richiede la capacità di affrontare e agire rispetto anche agli altri due.

Bibliografia

Campbell I. (2018). Il massacro di Addis Abeba. Rizzoli, Milano.

Dominioni M. (2019). Lo sfascio dell’impero. Gli italiani in Etiopia (1936-1941), Laterza, Bari-Roma.

Dorlin E. (2020). Difendersi. Una filosofia della violenza, Fandango Libri, Roma.

Forgacs D. (2021). Messaggi di sangue. La violenza nella storia d’Italia, Laterza, Bari-Roma.

Frisina A. & Giuliani G. (2016). De-razzializzare l’italianità. Postcolonialismo, prospettiva storico-culturale e analisi del discorso visuale, in A. Frisina (ed.), Metodi Visuali di ricerca sociale, Il Mulino, Bologna, pp. 53-83.

Frisina A., Pogliano A. (2020). Dalla parte del carnefice? I fatti di Macerata e la pervasività del discorso razzista nei media italiani, in Maneri M. e Quassoli F. (a cura di), Un attentato “quasi terroristico”. Macerata 2018, il razzismo e la sfera pubblica al tempo dei social media, Carocci, Roma pp. 95-114.

Galtung J. (2000). Pace con mezzi pacifici, Esperia, Milano.

Ghermandi G. (2011). Regina di fiori e di perle. Donzelli, Roma.

Labanca N. (2002). Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna.

Lorenz K. (1974). Gli otto peccati capitali della nostra civiltà. Adelphi, Milano.

Maturana H.R, D’Avila X. (2006). Emozioni e linguaggio in educazione e politica, Eleuthera, Milano.

Mecacci L. (2022). Prefazione, in Vygotskij L.S., La mente umana. Cinque saggi. Feltrinelli, Milano, pp. 7-33.

Vygotskij L.S. (2022). La mente umana. Cinque saggi, Feltrinelli, Milano.

Wodak R. (2015). The Politics of Fear. What Right-Wing Populist Discourses Mean, Sage, London.

  1. Annalisa Frisina ha scritto il paragrafo “La violenza razzista non è altrove”; Alessio Surian ha scritto “Antirazzismo, nonviolenza e educazione”.
  2. Yekatit 12 | Febbraio 19. Sette giorni di iniziative a Roma, per ricordare i crimini del colonialismo italiano – Giap, 13.02.2023.
  3. Sull’importanza della comunicazione visuale nel discorso razzista e sessista in Italia, si rimanda a Frisina e Giuliani (2016).