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Fotografia tratta da "The Harvest", il film

Caporalato: condannato il “padrone” di Balbir Singh

Il bracciante sikh è stato ridotto in schiavitù nelle campagne pontine

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Cinque anni di reclusione e dodici mila euro di risarcimento economico è la pena comminata al titolare dell’azienda di Borgo Sabotino (LT), che per 6 anni ha sfruttato e maltrattato il bracciante indiano sikh.

Marco Omizzolo e Balbir Singh

«Bisogna fare presto perché questo rischia di morire. Non resiste più. Vive tra i maiali, dentro una roulotte. Il padrone lo picchia da anni. Dobbiamo salvarlo». Comincia così la storia di Balbir, bracciante di origine indiana, raccontata dal sociologo e ricercatore Eurispes Marco Omizzolo all’interno del volume “Per motivi di giustizia” (People, 2020).

Balbir Singh, bracciante indiano sikh della provincia di Latina, è arrivato in Italia nell’agosto 2004, con un volo aereo per turismo. «Sono giunto in Italia mediante un connazionale al quale avevo dato circa 6000 euro. Un debito che pensavo di ripagare con il mio lavoro. E così peraltro ho fatto nei primi anni in questo Paese», racconta Balbir a Omizzolo, che lo ha conosciuto grazie alla testimonianza di altri lavoratori sikh con cui quest’ultimo aveva cominciato ad organizzarsi collettivamente per chiedere il riconoscimento dei diritti sempre negati.

Dopo impieghi saltuari, nel 2009 Balbir cominciò a lavorare da un allevatore di mucche: sedici ore al giorno, sette giorni su sette, senza ferie, gli veniva corrisposto uno stipendio di circa 700 euro al mese. Dopo due anni, il titolare dell’allevamento decise di vendere l’azienda, e Balbir venne licenziato dal nuovo proprietario, che preferì a lui altri lavoratori italiani.

Il razzismo sistemico di questo Paese ci dimostra in ogni occasione che le persone migranti – e tra questi, in particolare gli irregolari – sono gli ultimi ingranaggi di una catena di sfruttamento e segregazione che permea in ogni aspetto della società. Il bracciante sikh venne allora assunto da un amico imprenditore del nuovo proprietario: sei anni d’inferno, in una roulotte precaria, senza luce né riscaldamento.

Cucinava su un fornello da campo esterno alla roulotte, scaldando una minestra, un pezzo di pane, o quello che riusciva a trovare durante il giorno. Non esisteva stipendio: «a volte il padrone mi dava cinquanta euro per un mese di lavoro. Ero ridotto alla fame e per mangiare qualcosa, non avendo soldi, rubavo gli avanzi del ristorante che il padrone gettava ai maiali o alle galline» 1.

Veniva minacciato dal “padrone” con una pistola, in una condizione di costante assoggettamento e paura. Grazie al lavoro della cooperativa InMigrazione congiunta con la Comunità sikh di Latina, Balbir decise di denunciare. Il 17 marzo 2017 il blitz dei carabinieri, che accertarono le situazioni alloggiative degradanti in cui visse per anni il bracciante sikh, primo migrante a cui le autorità italiane hanno concesso un permesso di soggiorno “per motivi di giustizia”.

Dopo un lungo iter processuale, lo scorso 31 gennaio il Tribunale di Latina ha condannato in primo grado il “padrone” Procolo di Bonito a cinque anni di reclusione con una provvisionale di 12 mila euro, e la pena sospesa di un anno per la figlia Romina Di Bonito. «Sulla base della legge anti caporalato del 2016ha spiegato l’avvocato Arturo Salerni ad Avvenireè stato accertato lo sfruttamento in condizioni lavorative e sanitarie indegne e l’omesso pagamento della retribuzione prevista dai contratti nazionali. Con l’aggravante di avere più lavoratori in queste condizioni di sfruttamento, anche se solo lui ha denunciato».

Cosa manca e cosa resta: vuoti politici e normativi

La portata storica di questa sentenza non è il punto di arrivo. L’attenzione sul fenomeno è circoscritta a vicende giudiziarie particolarmente notevoli. Secondo Marco Omizzolo, che su Avviso Pubblico fa il quadro della situazione, questa stessa attenzione «non si ritrova, invece, nel dibattito politico dove sarebbe fondamentale per compiere passi avanti nel contrasto anche da un punto di vista normativo». La stessa giunta del Comune di Latina ha deciso di non cambiare il regolamento comunale che le avrebbe consentito di costituirsi parte civile. Anche dopo la pronuncia della sentenza, non è stato diramato alcun comunicato stampa o nessuna presa di posizione pubblica, né a livello comunale, né regionale o nazionale. Serve dunque un’azione trasversale che incida sulla dimensione politica e culturale del fenomeno in ogni ambito e ad ogni livello.

L’ingiustizia, lo sfruttamento, l’oppressione, la violenza, che anche in questa storia – come in tante altre nelle campagne del nostro Paese – sono asfissianti, costituiscono quella che il pedagogo e teorico Paulo Freire ha definito “umanizzazione come vocazione negata2.

Un’oppressione insita nelle logiche di un capitalismo sfrenato, che umilia e sfinisce chi a queste logiche non si piega. Tentando persino di privare d’identità chi, in questa macchina, viene ridotto a mero ingranaggio dello sfruttamento: per questo, molti “padroni” italiani obbligano i braccianti sikh a togliersi il turbante e a radersi la barba.

È nell’aspirazione alla libertà, alla giustizia, alla lotta degli oppressi per il «recupero dell’umanità rubata» che Freire vede la via verso l’affermazione di un’umanizzazione che non rimane utopia, ma diventa affermazione di dignità.

  1. Testimonianza contenuta all’interno del volume “Per motivi di giustizia” del sociologo e ricercatore Eurispes Marco Omizzolo, edito People (2020)
  2. “La pedagogia degli oppressi”, Paulo Freire (1968)

Albertina Sanchioni

Mi sono laureata in Sicurezza Globale con una tesi sulle implicazioni sui diritti umani degli algoritmi relativi all’hate speech nei social network, con un focus sul caso del popolo Rohingya in Myanmar.
Volontaria dello sportello anti-tratta a Torino, frequento il Master in “Accoglienza e inclusione dei richiedenti asilo e rifugiati” all’Università Roma Tre.