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Ph: Riccardo Bottazzo - Biblioteca Pjetër Bogdani

La biblioteca dei libri che nessuno legge

Viaggio in Kosovo dove tutto è fragile

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Il cuore di Pristina è la grande biblioteca nazionale. La più grande di tutto il Kosovo. L’edificio realizzato in epoca sovietica dall’architetto croato Andrija Mutnjaković, uno dei massimi esponenti di quello stile chiamato “Brutalismo”, in realtà è molto funzionale allo studio e alla conservazione dei libri. La struttura architettonica richiama alla mente le celle di un alveare, incastonate una sull’altra senza seguire simmetrie. Senza dubbio, è l’edificio più iconico di tutta Pristina, come la torre Eiffel per Parigi o il Tower Bridge per Londra. La biblioteca è, o meglio era, anche il cuore culturale del Kosovo con il suo ricco catalogo di oltre 800 mila volumi. Era. Oggi quegli 800 mila libri non li legge più nessuno. La biblioteca è frequentata solo da rari studenti che si trovano per studiare insieme nei grandi saloni semi deserti, ma i libri se li sono portati da casa.

Gli 800 volumi sono infatti tutti in lingua serba. Ma dopo la guerra Pristina ha cambiato lingua. Ed anche la biblioteca ha cambiato nome: la Narodna Biblioteka Kosova, in serbo romanizzato, è diventata la Biblioteka Kombëtare e Kosovës dedicata a Pjetër Bogdani, arcivescovo cattolico e scrittore di lingua albanese.

I libri sono rimasti rinchiusi dentro Pristina, ma i serbi hanno cambiato aria e hanno abbandonato la città. «Oggi in tutta Pristina ci sono solo 8 serbi» mi spiega Živojin Rakočević, scrittore e presidente dell’Ordine dei Giornalisti serbi. Lui con la sua famiglia, si è trasferito armi e bagagli a Gračanica, una cittadina vicina a Pristina che è diventata una enclave serba di circa settemila abitanti in un Kosovo dove si parla esclusivamente l’albanese. «Io frequentavo assiduamente la biblioteca per scrivere e studiare. Oggi non ci vado più. Non ne ho il coraggio. Ho paura che i libri mi chiedano: Ma cosa è successo là fuori, amico Živojin? Perché nessuno viene più a leggerci?».

Gračanica è uno sventolio di bandiere serbe. Nei locali, le televisioni sono sintonizzate perennemente sui canali della propaganda di Belgrado e tramettono in continuazione filmati di folle festanti che inneggiano al presidente Aleksandar Vučić, trionfatore dell’ultima campagna elettorale. Dall’altra parte della barricata, dietro i cordoni di sicurezza della forze militari internazionali del KFOR – il contingente Nato di peacekeeper presente in Kosovo dal 1999 – sventolano le aquile nere su fondo rosso dell’Albania. Dall’una e dall’altra parte, murales inneggiano ai vari eroi, o criminali di guerra, albanesi o serbi. Se la guerra è finita, in questa regione dei Balcani la pace deve ancora arrivare. Lo stesso Kosovo, più che uno Stato è una finzione. Per vedere sventolare la bandiera blu con al centro il profilo del Paese in giallo, bisogna recarsi davanti alla sede del Governo. Ma è una bandiera senza una storia dietro. Il Kosovo addirittura, non è neppure riconosciuto da alcuni Stati dell’Unione Europea come la Spagna.

«Per noi serbi la vita è dura – continua Rakočević -. Non siamo ufficialmente perseguitati ma è chiaro che l’intento del Governo è quello di farci sloggiare. Io faccio il giornalista e le conferenze stampa qui sono solo in albanese, una lingua che non comprendo. Non c’è volontà di costruire uno Stato multietnico o quantomeno rispettoso delle minoranze. Anche i rapporti tra serbi e albanesi sono inesistenti. Ci sono, è vero, programmi finanziati dall’Unione Europea o da associazioni internazionali mirati alla reciproca comprensione, ma nessuno li prende sul serio. Mi piacerebbe che il Kosovo diventasse una sorta di Sud Tirolo, dove italiani e tedeschi convivono pacificamente assieme. Ma anche le scuole qui sono separate. La sanità è separata. Anche l’immatricolazione delle auto, anche le targhe, sono diverse tra serbi e albanesi».

Živojin Rakočević ha fondato un centro culturale che è il cuore pulsante di Gračanica. La speranza, spiega, si alimenta soprattutto attraverso l’arte. Qui organizza spettacoli teatrali, corsi di ceramica e di pittura per le scuole, esposizione artistiche. Mi invita a fare il giro dell’edificio. Ed è una bella sorpresa! Un grande murale ritrae Massimo Cacciari al tempo in cui il filosofo era sindaco di Venezia e la città lagunare era gemellata con Sarajevo ed impegnata in iniziative di pace nei martoriati Balcani. A lato del volto di Massimo Cacciari si legge una frase, in italiano e una serbo, che gli viene attribuita: “A Dečani ci sono bellezze assolute, un’arte che arriva fino a Venezia e alla nostra storia. Lo capiremo o no che, su questi affreschi, sono in ballo le nostre radici europei? Se l’occidente lascia distruggere un posto come Dečani, è come se accettasse di far saltare San Marco a Venezia!”.

Ph: Riccardo Bottazzo

Gli affreschi e le bellezze assolute citati da Cacciari, le troviamo nel monastero di Visoki Dečani, nel nord del Paese. Per raggiungere l’eremo bisogna seguire una strada costellata di bandiere albanesi, statue e murales che inneggiano all’UÇK, il movimento di liberazione kosovaro il cui leader, Hashim Thaçi, è stato presidente del Kosovo sino al novembre 2020, quando si è dimesso per essere finito sotto processo all’Aia come criminale di guerra.

Il monastero ortodosso è sorvegliato giorno e notte dai militari del KFOR. Bisogna fare gimcana tra garitte con i mitra spianati, dossi artificiali, impianti di video sorveglianza, checkpoint di soldati che ti chiedono i documenti e lo scopo del tuo viaggio. In fondo alla valle, si vedono i contorni della base Nato gestita dai soldati italiani.

La chiesa dove finalmente entro è di una bellezza sconvolgente ed offre ai rarissimi visitatori centinaia di coloratissimi affreschi bizantini perfettamente conservati. Un vero miracolo, se si pensa che Visoki Dečani è sempre stato, sin dalla sua fondazione, nella prima metà del XVI secolo, al centro di feroci combattimenti. Bulgari, ottomani, austriaci, albanesi, tedeschi, ungheresi, italiani si sono alternati nei secoli come difensori o saccheggiatori del monastero. Una tradizione di sangue e violenza che non si è ancora conclusa. Per ultimi, gli scontri che lo scorso 24 settembre, hanno visto contrapporsi un gruppo armati di serbi e l’esercito kosovari. Alla fine dell’attacco, 5 persone sono state uccise e il Kosovo è stato ad un passo dal precipitare nell’ennesimo conflitto.

Visoki Dečani non è solo un patrimonio Unesco dell’umanità e il più grande monastero ortodosso di tutti i Balcani. Il monastero ha una grande valenza politica e religiosa per i serbi che lo reputano la sacra fonte della loro fede ortodossa. Il che lo rende un bersaglio inevitabile per i nazionalisti albanesi. Non dimentichiamoci che, tra i crimini di guerra contestati all’ex presidente Hashim Thaçi, c’è quello di aver bruciato una trentina di chiese ortodosse.

L’abate che guida Visoki Dečani, Sava Janjić, non concede facilmente interviste ai giornalisti ma fa una eccezione per gli italiani. Decisione alla quale non è secondario il fatto che a difendere il suo monastero siano soprattutto le truppe Nato italiane. Sava Janjić, durante la guerra, si è adoperato a rischio della vita per salvare indifferentemente serbi e albanesi. E’ stato uno dei primi a denunciare le atrocità commesse dalle milizie paramilitari serbe e dall’esercito Jugoslavo guidato dal presidente Slobodan Milošević, pure lui finito a processo e successivamente condannato dal tribunale dell’Aia per crimini.

La posizione indipendente dell’abate Janjić, lontana da qualsiasi fremito nazionalista, gli è costata la nomea di “traditore” da parte dei nazionalisti serbi che lo ritengono indegno di coprire il ruolo di guida spirituale di un luogo sacro alla patria come il monastero di Dečani che racchiude l’identità culturale e religiosa del popolo serbo.

Dall’altra parte della barricata, neppure i nazionalisti albanesi lo amano e non gli risparmiano le accuse di essere una sorta di portavoce in terra kosovara del Governo di Belgrado e del suo presidente Aleksandar Vučić. Accuse che Janjić respinge pure se non risparmia pesanti critiche al primo ministro kosovaro, Albin Kurti, leader del partito nazionalista di sinistra Vetëvendosje!.

«Da quando è salito al potere Kurti – spiega Sava Janji – la situazione dei serbi è molto peggiorata. Il suo governo non rispetta né la costituzione che chiede il rispetto delle minoranze, né le decisioni dei tribunali. Il distacco tra serbi e albanesi è cresciuto. Una volta nel mio monastero venivano a pregare anche molti albanesi, oggi non viene più nessuno».

Il destino dei monaci di Visoki Dečani non è poi molto diverso da quello dei libri della biblioteca di Pristina.

Riccardo Bottazzo

Sono un giornalista professionista.
La mia formazione scientifica mi ha portato a occuparmi di ambiente e, da qui, a questioni sociali che alle devastazioni dei territori sono intrinsecamente legate. Ho pubblicato una decina di libri tra i quali “Le isole dei sogni impossibili”, edito da Il Frangente, sulle micronazioni dei mari, e “Disarmati”, edito da Altreconomia, che racconta le vice de dei Paesi che hanno rinunciato alle forze armate. Attualmente collaboro a varie testate cartacee e online come Il Manifesto, Global Project, FrontiereNews e altro.
Per Melting Pot curo la  rubrica Voci dal Sud.