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Segregazioni razziali moderne nel mondo del lavoro italiano

Dare la colpa alle vittime migranti è uno dei tanti modi per deresponsabilizzare chi governa

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Il 16 febbraio, nel quartiere di Novoli, a Firenze, in un cantiere per la costruzione di un supermercato Esselunga crolla una trave di cemento su un gruppo di operai. Cinque di loro – Mohamed El Farhane, Mohamed Toukabri, Taoufik Haidar, Bouzekri Rachimi e Luigi Coclite – hanno perso la vita in quella che si configura come l’ennesima strage in ambito lavorativo. Che la maggior parte delle vittime sia soprattutto di cittadinanza tunisina e marocchina non è sorprendente: non ci troviamo di fronte a un “effetto collaterale”, ma alla realtà di un sistema piramidale – in un contesto sociale in cui da inizio 2024 si è già arrivati a oltre 140 morti sul lavoro – fortemente basato su segregazione occupazionale e razziale.

La narrazione mediatica

In seguito al crollo, è stata subito aperta un’inchiesta sulle criticità del cantiere, mentre i sindacati e gli operai dei cantieri edili hanno indetto uno sciopero per protestare contro l’insicurezza sul lavoro. Nel frattempo, nel dibattito pubblico, giornalistico e politico da talk show, i riflettori sono stati puntati contro lo status di irregolarità di alcuni operai stranieri che sono rimasti vittime del crollo. In particolare, la testata giornalistica La Verità ha pubblicato un articolo in prima pagina dal titoloLe morti sul lavoro sono colpa dell’immigrazione selvaggia”. E ancora, il giornalista Iacometti, di Libero, ha affermato, riferendosi sempre agli operai stranieri, che “se erano irregolari il farli stare clandestinamente nella nostra terra ha provocato questo”. 

Non stiamo solamente assistendo a un becero caso di vitcim-blaming, ossia l’azione di incolpare la vittima di un qualcosa di cui non ha ovviamente alcuna responsabilità, ma all’ennesima strumentalizzazione politica e discriminatoria delle migrazioni, e in particolar modo, delle persone straniere razzializzate presenti in Italia. D’altronde, questa narrazione fa parte di un mantra che dura da anni, in cui la persona straniera in Italia, a maggior ragione se non bianca, oscilla in una dicotomia che va dalla criminalizzazione alla reificazione in senso “utilitaristico”. Criminalizzazione da un lato, poiché le frasi “l’immigrazione selvaggia” e il “farli restare clandestinamente”, come scritto su La Verità e come detto da Iacometti, rientrano in piena regola nell’associazione “immigrato = delinquente” – in questo caso in virtù del fatto che probabilmente non avevano i documenti adeguati, portatori di criminalità e sciagure, la rottura dell’equilibrio del tessuto sociale italiano. Utilitaristico perché, in questo paradossale dibattito sull’immigrazione, in ogni caso, i lavoratori e le lavoratrici migranti sono coloro che “servono” all’economia italiana proprio come forza lavoro nei settori di cui per anni si è parlato come ambiti in cui “gli italiani non vogliono lavorare più” (dall’edilizia, al facchinaggio. Dal lavoro di cura e pulizie a quello agricolo). 

Come spiegano Marcello Maneri, sociologo dell’Università di Milano-Bicocca e Ferruccio Pastore del Forum Internazionale ed Europeo delle Ricerche sull’Immigrazione (Fieri) su Domani: dare la colpa alle vittime, alle vittime migranti, in particolare, non è uno dei tanti modi per deresponsabilizzare chi governa, “producendo indifferenza per i soggetti subalterni e allontanando in questo modo possibili accuse di inazione”.

Quindi, se da un lato le persone immigrate “servono”, al contempo devono essere espulse dal paese; viene chiesto loro di integrarsi a forza e al contempo viene giustificata una loro esclusione sociale; viene imposto loro di adeguarsi e accontentarsi di determinati settori lavorativi, senza garantire diritti basilari, in un limbo fatto fin troppo spesso di irregolarità e sfruttamento.

“Essenziali” ma esclusi

Mohamed El Ferhane, Taoufik Haidar, e Bouzekri Rachimi, originari del Marocco, e Mohamed Toukabri, della Tunisia, erano perlopiù lavoratori pendolari provenienti delle province di Bergamo e Brescia. Il fratello di Mohamed Toukabri – partito dalla Tunisia a 19 anni – Sahran, ha riferito alla testata giornalistica Fanpage che ogni giorno partiva da Bergamo per andare a Firenze a lavorare. Un lavoro duro in cui non guadagnava molto e in cui metà dei soldi non venivano ricevuti regolarmente, “glieli davano in nero“, ha affermato Sahran. Di conseguenza, secondo quanto affermato dal fratello, solo metà del compenso sarebbe stato devoluto regolarmente.

La storia di Mohamed Toukabri non è isolata, in realtà si tratta dell’orribile normalità che caratterizza gran parte del mondo  del lavoro delle persone immigrate in Italia. Secondo l’ultimo rapporto Idos 2023, di fatto l’Italia continua a occupare massivamente le persone straniere in attività perlopiù manuali e a bassa qualificazione, da cui derivano retribuzioni inferiori. Il mondo del lavoro delle persone straniere in Italia è fortemente caratterizzato da una rigida divisione del lavoro per cittadinanza e genere, con più di un terzo delle lavoratrici straniere (34%) impiegate nei servizi domestici o di cura alle famiglie (rispetto al 2,4% delle donne italiane) e il 42,2% degli uomini occupato nell’industria e nelle costruzioni (rispetto al 35,6% degli uomini italiani). Inoltre, i cittadini e le cittadine non comunitarie dipendenti da aziende del settore privato, si legge nel rapporto, percepiscono, secondo l’Inps, il 31,2% in meno della media nella stessa categoria (15.707 euro annui rispetto a 22.822). 

In tutto questo, nonostante i lavoratori e le lavoratrici stranieri siano effettivamente una “risorsa” per le casse dello Stato (con un guadagno per l’erario pubblico di 6,5 miliardi di euro, come riporta Idos), sono tuttavia coloro che maggiormente subiscono sia segregazione occupazionale, precarietà, povertà e che vengono sistematicamente esclusi ed escluse dall’accesso al welfare (ad esempio, si legge nel rapporto Idos, solo 215 mila persone straniere sono riuscite ad accedere al Reddito di Cittadinanza, per via del requisito stringente dei 10 anni di residenza continuativa per accedervi). In più, riporta il nuovo rapporto Ismu 2023 la quota di lavoratori e lavoratrici straniere laureati occupati in una professione di bassa o media qualifica è pari al 60,2% nel caso dei cittadini non UE e al 42,5% nel caso degli UE, a fronte del 19,3% stimato per gli italiani. Pesa quindi anche il mancato riconoscimento dei titoli acquisiti all’estero.

Un apparato legislativo strutturalmente razzista

In questi giorni abbiamo scoperto di tutto e di piùspiega Ibrahima Niane, Segretario Generale di Fillea Cgil Brescia, “chi prende i subappalti con ribassi così alti […] o mette materiale scadente o non paga le maestranze o non sono regolari perché la matematica non è un’opinione. In un cantiere di queste dimensioni lavorano tante  aziende rendendo difficile la mappatura degli operai impegnati”. E ancora: “puoi fare mille leggi, però se non vengono applicate e non ci sono neanche i controlli le leggi non servono a nulla”.

Questo quindi è il tritacarne in cui si trova la maggior parte degli operai stranieri in Italia, nel settore edile e non solo. Tuttavia bisogna tener presente che questa commistione di criminalizzazione, segregazione e “capitalismo razziale” 1 basato sullo sfruttamento di manodopera di persone immigrate, senza alcuna tutela, è parte integrante di un sistema legislativo che ne permette l’esistenza. Si pensi alla stessa legge Bossi-Fini che ha di fatto non solo eliminato il permesso per ricerca lavoro – impedendo quindi alle persone migranti di venire in Italia regolarmente – ma ha anche irregolarizzato l’immigrazione stessa, rendendo lo status delle persone straniere in Italia, specialmente coloro provenienti dai Paesi del Sud del mondo, sempre più precario e ricattabile. Si pensi al c.d. Decreto Flussi, attualmente l’unico dispositivo che, almeno teoricamente, dovrebbe garantire – secondo determinate quote – l’accesso al mondo del lavoro per le persone migranti che arrivano in Italia (si tratta perlopiù di stagionali e/o subordinati). Secondo gli ultimi dati della campagna Ero Straniero, nel 2022 solo il 30% di chi ha fatto ingresso in Italia è stato assunto e ha i documenti. Inoltre, “solo un terzo di lavoratrici e lavoratori che entrano in Italia riesce a stabilizzare la propria posizione lavorativa e avere i documenti, mentre la maggior parte, impiegata dalle aziende col solo nulla osta, una volta terminato tale impiego, è destinata a scivolare in una una condizione di irregolarità e quindi di estrema ricattabilità e precarietà”.

Gli operai deceduti nel cantiere dell’Esselunga quindi non sono un’anomalia, ma parte integrante di un sistema escludente, criminalizzante ma che al contempo “necessita” di forza lavoro sfruttabile e ricattabile.

Tanto alla fine la colpa è sempre “degli immigrati”, quel che è accaduto è “solo una disgrazia” e la responsabilità dello Stato in tutto questo rimane inesistente.

  1. Cedric Robinson, “Black marxism. The making of the black radical tradition”, The University of North Carolina Press, Chapel Hill 2000. Il termine “capitalismo razziale” fu coniato per indicare un sistema fortemente basato sul connubio tra schiavitù e sfruttamento e la “razza”. Vedi anche “What Did Cedric Robinson Mean by Racial Capitalism?”, Robin D. G. Kelley, Boston Review.

Oiza Q. Obasuyi

Sono attualmente contributor di CILD (Coalizione Italiana Libertà e Diritti Civili) per il progetto Open Migration. Dottoressa in Relazioni Internazionali (Università degli Studi di Macerata), i miei articoli sono apparsi in diverse testate online come The Vision, Internazionale, Jacobin Italia. Mi occupo di migrazioni, diritti umani e razzismo sistemico.