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Accoglienza dei migranti in Belgio: l’indecente mancanza di responsabilità politica nel periodo della quarantena e anche oltre

Migrations Libres, giugno 2020

Nel momento in cui vengono messe in atto le misure di deconfinamento, vorremmo tornare, con questo articolo, sul modo in cui è stata gestita in questo periodo di crisi sanitaria e sociale la presa in carico delle persone migranti, in particolare per quanto riguarda le storie vissute su tre territori differenti.

In Belgio, la politica di asilo e immigrazione è una competenza federale, che spetta all’FPS degli affari interni ed è inclusa nel portafoglio ministeriale di Maggie De Block. È quindi il Parlamento federale a votare le leggi che riguardano l’accoglienza dei migranti sul nostro territorio ed è il Governo che decide la loro attuazione.

Nel frattempo, i comuni giocano un ruolo, giuridicamente parlando, nell’accoglienza delle persone migranti in quanto sono la prima amministrazione alla quale i migranti si rivolgono se vogliono intraprendere una procedura di regolarizzazione (o altro) e sono sempre i comuni a fungere da collegamento con l’Ufficio per gli stranieri notificando le decisioni prese da quest’ultimo 1.

Le autorità comunali si trovano in prima linea anche quando i migranti privi di documenti che risiedono sul loro territorio hanno bisogno di assistenza, soprattutto in tempi di crisi.

In un articolo pubblicato nel maggio 2020 dedicato alla gestione della questione migratoria in tempo di crisi, alla luce della pandemia del Covid-19, l’IRFAM (Istituto di Ricerca, Formazione e Azione sulle Migrazioni) mette in evidenza il ruolo giocato dagli enti locali:
Diversi sociologi (Rea A., Martiniello M., Mazzola A. et Meuleman B. (éds.) (2019), The Refugee Reception Crisis in Europe: Polarized Opininons and Mobilizations, Edizione dell’Università di Bruxelles.) hanno dimostrato che gli enti locali costituiscono i nuovi paradigmi per la gestione dei problemi migratori, ed è tanto più evidente in tempi di crisi sanitaria. Le autorità comunali rappresentano il livello di potere più vicino ai cittadini e, di conseguenza, sono coloro a cui questi ultimi si rivolgono direttamente per quanto riguarda le esigenze locali e per sostenere le loro iniziative di solidarietà nei confronti delle persone migranti. Come in altri regimi politici con una governance multilivello, l’autonomia delle autorità locali in Belgio rappresenta un’opportunità di sviluppo per queste iniziative (Rea et coll., 2019, 24). In questo modo, il ruolo dei comuni è fondamentale per rispondere alle richieste della società civile. Davanti alla crisi sanitaria, il governo regionale vallone ha costituito una task-force di emergenza sociale per far fronte alle conseguenze della crisi. Questa è stata introdotta da parte dei governatori delle province, in collaborazione con i comuni e gli attori del campo associativo o civico. Nonostante questa supervisione da parte dei poteri regionali e la necessità di rispondere a problemi simili, la gestione locale della crisi rivela tuttavia degli approcci diversificati 2.

In questo articolo ci proponiamo di soffermarci sul modo in cui si è svolta l’assistenza dei migranti durante il lockdown legato alla crisi del Covid-19 su tre territori comunali. Ci è sembrato importante mettere in relazione gli eventi senza abbreviazioni e aggiungere alcuni commenti e riflessioni chiarificatrici.

Liège

Quando è stato annunciato il lockdown, numerosi alloggi collettivi per migranti nella regione di Liegi hanno incontrato delle difficoltà. A Waremme, per esempio, il centro d’accoglienza diurna “Le Relais” è stato chiuso dalle autorità locali (vedi sotto su questo argomento), a été fermé par les autorités locales (lire ci-dessous à ce sujet), l’associazione senza scopo di lucro L’Odysée du monde ha dovuto negoziare la prosecuzione del suo progetto di alloggi collettivi e alla fine ha ottenuto l’autorizzazione, non senza qualche difficoltà.

Per quanto riguarda il nostro collettivo, abbiamo dovuto interrompere la sistemazione collettiva che organizziamo due volte al mese 3.

Non era infatti possibile rispettare le misure sanitarie imposte dal governo nel luogo in cui accogliamo normalmente gli ospiti.

Inoltre, le famiglie ospitanti, che durante l’anno organizzano una rete di accoglienza in casa attraverso la Plateforme hébergement citoyen di Liegi, hanno preso in carico un numero di migranti maggiore del solito per poterli ospitare durante il lockdown. Una situazione scomoda. C’era quindi il grande rischio che la rete si esaurisse e che molti dei suoi ospiti tornassero in strada.

Il Comune di Liegi, interpellato da alcuni volontari, ha indirizzato i migranti senza soluzioni abitative verso il sito del Parco Astrid a Coronmeuse, dove erano state allestite delle tende per i senzatetto.

Tuttavia, queste tende non erano sufficienti per accogliere tutte le persone bisognose di alloggio nel territorio di Liegi. Inoltre, ospitare nelle tende delle persone particolarmente vulnerabili, fisicamente e psicologicamente a causa del loro viaggio, quando la notte si gelava e l’accesso ai servizi igienici era tutt’altro che ottimale, ci sembra particolarmente sconcertante (questo vale sia per i senzatetto che per i migranti).

Le testimonianze audio e video dei volontari e degli occupanti raccolte a Parc Astrid dal JOC-Liegi (Jeunes Organisés et Combatifs), nell’ambito di un’indagine sulla solidarietà dei cittadini a Liegi, sono disponibili sul loro sito web 4. Citiamo qui quella di Philippe Mercenier, del Collectif wallon d’aide aux migrants, che fornisce aiuto (acqua, cibo, logistica), su base volontaria, ai senzatetto e ai migranti senza documenti a Parc Astrid (e altrove):

Fin dall’inizio, ho pensato che il parco Astrid non poteva essere una soluzione. Qui ci sono 75 persone senza documenti e senza casa. Ci sono voluti quindici giorni per reperire il rubinetto delle docce (…) Qui al parco Astrid, ci sono piccole tende orribili di pessima qualità. Impossibile restarci se non per dormire. La faccia per terra, senza una brandina. Per me bisognava requisire un albergo. Ma per loro non è possibile per loro. (…)
Dinanzi a questa situazione, a fine marzo, il collettivo Liège Ville hospitalière ha allertato le autorità comunali con un comunicato stampa intitolato « Liège: le tende sono insufficienti. C’è bisogno di soluzioni abitative “in muratura” per i mal alloggiati con e senza documenti» 5. Nel contempo, insieme alle associazioni Cisolré, alla Plateforme hébergement citoyen de Liège, all’Odyssée du Monde e al Comité de Soutien à La Voix des Sans-Papiers, abbiamo consegnato una lettera al sindaco Willy Demeyer.

Vi abbiamo scritto, tra le altre cose:
Attualmente diverse decine, anche centinaia di giovani migranti in transito sono ospitati e confinati giorno e notte, sia in piccole unità collettive e associative, dotate di servizi igienici e di cucina, sia in famiglie, che riescono ad ospitare 3, 4 o talvolta più giovani in modo continuativo, poiché è indispensabile il confinamento. Inoltre, molti altri migranti privi di documenti si trovano sia in alloggi precari sul territorio, sia, come sapete, nei due luoghi di occupazione de la Voix des Sans Papiers Voce (circa un centinaio di persone, bambini compresi), sia in famiglie che offrono loro ospitalità continuativa, o con amici, che li accolgono per qualche giorno e che spesso sono a loro volta privi di documenti… Il loro numero continua ad aumentare a causa del rilascio alla spicciolata di diverse centinaia di loro dai centri di trattenimento, tra i quali quello di Vottem; siamo naturalmente lieti di questi rilasci, ma constatiamo che non è stata offerta loro alcuna soluzione per un alloggio e un confinamento sicuri e umani. Attualmente, molti problemi si presentano quindi sia per coloro che forniscono alloggi individuali o associativi, sia per i migranti che vengono accolti da loro che per i gruppi auto-organizzati di migranti privi di documenti.
Abbiamo fatto diverse richieste alla città perché potesse attuare soluzioni reali, nel rispetto della dignità umana e tenendo conto delle peculiarità dei migranti:
• La requisizione di camere d’albergo per ospitare famiglie monoparentali e giovani ragazze sole e migranti sintomatici;
• La requisizione di posti (alberghi, alloggi, l’Ostello Simenon, palazzetti dello sport, collegi, strutture scolastiche attualmente vuote e dotate di servizi igienici, locali di movimenti giovanili e/o squadre di calcio – se adeguatamente attrezzati) per ospitare migranti senza soluzioni abitative.

La Città non ha risposto affatto a queste richieste. L’unica cosa fatta dalle autorità è stata la requisizione di camere d’albergo per le donne vittime di violenza. Tutte le altre indicazioni sono state respinte dalle autorità comunali.

A nome del collettivo Liegi Ville hospitalière, abbiamo poi bussato alla porta di altre autorità politiche e ottenuto, non senza difficoltà, un finanziamento pubblico. Questo doveva permetterci di offrire una soluzione per l’alloggio, l’assistenza e il vitto giornaliero a una quindicina di persone durante il periodo di confinamento (la nostra richiesta iniziale era di ottenere l’apertura di uno o più alloggi che potessero ospitare un totale di trenta persone, con una supervisione professionale che sarebbe stata integrata da volontari).

Tuttavia, non sono state messe a nostra disposizione né infrastrutture né risorse umane. Dopo un periodo di ricerca, abbiamo contattato un promotore privato che ha accettato di farci occupare gratuitamente tre case nel comune di Saint-Nicolas, vicino all’ex clinica Espérance 6. È lì che, sempre sotto l’egida del “collettivo Liegi Ville Hospitalière“, abbiamo lanciato un progetto di accoglienza per una quindicina di sfollati (uomini, donne, bambini), in collaborazione con la Voix des sans-papiers di Liegi e la Piattaforma per l’edilizia popolare di Liegi. A metà aprile gli occupanti si sono trasferiti nelle case, che non sono miste. Il progetto è ancora in corso.

Questo alloggio solidale è interamente gestito, quotidianamente, da volontari e dagli stessi occupanti. Il coordinamento generale, la gestione finanziaria, il controllo dei fondi autogestiti per le spese correnti, i problemi tecnici, il monitoraggio medico e sanitario, sono tutte funzioni svolte dai volontari delle associazioni che hanno avviato il progetto. Inoltre, i pasti caldi sono forniti da altri volontari 7.

Durante la fase più intensa del confinamento, il nostro collettivo ha continuato a ricevere nuove richieste esterne per accogliere i migranti che si trovavano per strada o che alloggiavano in luoghi dove non potevano rispettare le misure di sicurezza. Queste richieste sono arrivate in particolare da enti pubblici: gli assistenti sociali dei CPAS [Centri pubblici di azione sociale, ndt] di Liegi e Seraing ci hanno contattato in diverse occasioni.

Mentre oggi siamo lieti di essere riusciti a costruire una dinamica efficace per affrontare un’emergenza umanitaria, siamo indignati per il modo in cui la crisi è stata (e continua ad essere) gestita dalle autorità pubbliche:
• La soluzione proposta dal Comune di Liegi – montare frettolosamente delle tende su un sito poco attrezzato, mentre di notte si gelava – è in contrasto con il rispetto della dignità umana e rende molto difficile il rispetto delle misure sanitarie (mantenimento della distanza fisica, lavarsi le mani frequentemente con il sapone, lavare la maschera con acqua calda, ecc.)
• Le autorità si sono deliberatamente rifiutate di intervenire: nessuna infrastruttura pubblica ha potuto essere messa a nostra disposizione (mentre il Comune e la Provincia sono proprietari di molti luoghi che avrebbero potuto ospitare un progetto di accoglienza), nessuna autorità ha accettato di firmare il contratto di occupazione che ci lega al proprietario delle case di Saint-Nicolas (la firma è stata fatta dal CAL e dalle Femmes Prévoyantes Socialistes, membri di Liegi Ville Hospitalière), l’autorità che ci ha concesso il finanziamento ci ha chiesto di mantenere il riserbo su questo sostegno (le ragioni di questa discrezione rimangono poco chiare). Alla fine, sono stati solo i volontari ad occuparsi della realizzazione del progetto e del suo coordinamento quotidiano.
• I poteri pubblici sono stati incapacit di rispondere alle richieste provenienti dalle loro stesse istituzioni (i CPAS)
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Waremme

Nel 2018, un gruppo di volontari ha allestito l’area di accoglienza “Le Relais“, nei locali della Maison de la Laïcité a Waremme 8.

Questo posto era aperto alcune ore al giorno, la sera, e interamente gestito da cittadini impegnati, per offrire pasti caldi, servizi igienici, letti, ai migranti (la maggior parte di loro cerca di raggiungere l’Inghilterra a bordo di camion che attraversano l’area autostradale di Bettincourt). Inoltre, alcuni migranti avevano allestito un accampamento, con tende, nel boschetto accanto alla Maison de la laïcité.

Quando è stato annunciato il lockdown, le autorità comunali hanno deciso di chiudere il “Relais” poiché il sito non poteva rispettare le misure sanitarie in vigore, senza proporre però alcuna soluzione alternativa.

È così che diverse famiglie, abituate ad aprire le loro case ai migranti di passaggio, hanno accolto nelle loro case la maggior parte degli sfollati. Nonostante questi atti di solidarietà, 18 giovani sono rimasti senza soluzioni abitative.

I cittadini hanno poi diffuso le informazioni sui social network per trovare delle soluzioni. Il canale televisivo locale RTC si è recato a Waremme per fare un reportage sulla situazione di questi migranti senza alloggio. Il giorno successivo, le autorità municipali si sono offerte di mettere a disposizione dei volontari un ex campo di calcio, situato sul sito dell’Haute-Wegge, per organizzare un alloggio temporaneo per il periodo del lockdown.

Il Comune ha formulato diversi requisiti: la presenza di volontari sul posto 24 ore su 24, oltre al divieto totale, per le 18 persone ospitate, di lasciare il perimetro del sito. Si noti che il luogo non disponeva di una connessione a Internet. Gli occupanti, che non hanno una carta telefonica belga, sono stati poi tagliati fuori da tutti i collegamenti esterni, non hanno avuto accesso alle informazioni sulla crisi attuale, né contatti con i loro familiari e amici.

Ai volontari è stato anche chiesto di smantellare il campo che gli sfollati avevano allestito nel bosco vicino alla Maison de la laïcité. Allo stesso tempo, il comune ha deciso di chiudere l’accesso ai punti d’acqua e ai servizi igienici situati sotto le tribune dello stadio di calcio.

Di fronte alla situazione di emergenza, i volontari e i migranti non hanno avuto altra scelta che accettare queste condizioni. Hanno pulito i locali, le stanze sono state allestite negli spogliatoi. Nel gruppo di volontari è stata organizzata una rotazione delle “guardie“, sono state stabilite regole operative tra i volontari e le persone ospitate per garantire che il confinamento avvenisse il più agevolmente possibile.
Tuttavia, a metà aprile, le autorità comunali hanno deciso di chiudere questo alloggio temporaneo, dopo aver dichiarato che ci sono stati “incidenti rilevati e segnalati” e hanno incaricato la piattaforma di soccorso Hesbaye Terre d’accueil di trovare una soluzione per ospitare le otto persone ospitate.

Marion, volontaria del “Relais“, faceva parte dell’equipe incaricata dell’alloggio temporaneo a Haute-Wegge: “Loro (i rappresentanti comunali) hanno chiuso il posto dove eravamo e hanno chiesto alla piattaforma Hesbaye di sostituirci. Tutto questo senza essere venuti a vedere e soprattutto senza aver parlato con i 18 ragazzi che sono stati ospitati da noi. Nessuno ha chiesto la loro opinione, nessuno ha chiesto loro se andava bene, nessuno ha chiesto loro se le regole rigide a cui erano esposti andavano bene, e nessuno ha chiesto loro se volevano rimanere a Waremme o andarsene“.

L’alloggio temporaneo di Haute-Wegge ha quindi chiuso. Quattro degli occupanti avevano, nel frattempo, lasciato il posto (erano usciti di notti per tentare di raggiungere l’Inghilterra e sono stati trasferiti per non violare le regole del lockdown). Altri quattro occupanti hanno accettato di essere trasferiti dalla piattaforma Hesbaye Terre d’accueil in una sistemazione temporanea (per qualche giorno, ma non è stato detto nulla ancora sul dopo) situata fuori dal comune di Waremme. Due occupanti sono partiti per trovare un alloggio da soli. Gli otto ragazzi rimanenti hanno rifiutato di lasciare la città e i volontari con i quali avevano stretto un rapporto di fiducia. Si sono trasferiti nel campo allestito nel boschetto accanto alla Maison de la laïcité. Il giorno dopo la chiusura del sito di Haute-Wegge, i volontari hanno creato l’associazione Freedom & Solidarity per continuare ad aiutare i migranti in difficoltà ogni sera (fine settimana inclusi), mettendo in piedi delle missioni di aiuto (distribuzione di pasti, cibo, sacchi a pelo, vestiti e assistenza).
Il comune, da parte sua, ha esercitato una forte pressione sugli otto giovani affinché abbandonassero il loro campo e la città. Questa pressione è continuata in particolare grazie ai rinforzi della polizia.

L’associazione Freedom & Solidarity ha finalmente trovato un edificio fuori Waremme dove i giovani possono essere messi in sicurezza tutti insieme. Questo edificio ospita attualmente (24 ore su 24) una quindicina di migranti.

Abbiamo interrogato le autorità di Waremme sul modo in cui hanno gestito la situazione, e ci hanno detto che si sono assunti la responsabilità e hanno fornito una risposta umana. Tuttavia, ci sono alcune cose che ci preoccupano.
1. Quando le autorità hanno chiuso il “Relais“, non hanno proposto alcuna soluzione ai migranti, che erano stati privati dell’accesso a un edificio in muratura e ai servizi igienici. Per giustificarsi, le autorità ci hanno spiegato che prima dello scoppio della crisi di Covid-19, era già stato annunciato che il Relais avrebbe chiuso i battenti il 31 maggio. E dato che non era stato trovato un terreno comune tra il comune di Waremme e i volontari per un nuovo progetto di accoglienza 9, le autorità hanno ritenuto che il problema non fosse più “sua responsabilità” perché la mancanza di accordo era da imputare ai volontari. Solo in una secondo momento le autorità hanno reagito, il giorno dopo la trasmissione di un servizio del canale televisivo locale RTC.

2. Il comune ha imposto delle regole di lockdown molto strette nell’alloggio temporaneo organizzato sul sito di Haute Wegge. Innanzitutto, la presenza 24 ore su 24 dei volontari, che hanno dovuto garantire la gestione dell’alloggio sul sito di Haute Wegge. In secondo luogo, agli occupanti non è stato permesso di uscire dal perimetro del sito. Non avevano nemmeno il permesso di camminare nei pressi del sito o in città, anche se rispettavano le misure sanitarie imposte (indossare una maschera, mantenere una distanza fisica, camminare con al massimo due persone, ecc.). Le autorità di Waremme hanno risposto che queste regole seguivano le misure di isolamento imposte dal governo federale. Tuttavia, in nessuna fase del lockdown, quest’ultimo ha vietato ai cittadini di fare una passeggiata per prendere un po’ d’aria fresca. Le autorità del Waremman ci hanno anche spiegato che il sito dell’Haute-Wegge offriva un ambiente abbastanza ampio e hanno ritenuto che le persone ospitate non avessero bisogno di uscire da lì. Queste regole ci sembrano liberticide. Tanto più che non c’era una connessione a internet sul posto. Le autorità hanno quindi imposto ai migranti delle regole di lockdown più severe rispetto al resto della popolazione Waremman, distinguendo così i due gruppi.

Inoltre, cosa significa la presenza di volontari 24 ore su 24 richiesta del comune? Non era questo un desiderio di tenere sotto sorveglianza gli occupanti? I migranti sono subcittadini che possono vedersi privati dei loro diritti fondamentali solo perché sono sfollati?

3. Le ragioni della chiusura dell’alloggio temporaneo non sono mai state chiarite. In una lettera indirizzata al presidente della Maison de la laïcité, le autorità comunali hanno scrivevano: “In seguito a vari incidenti che sono stati rilevati e segnalati, ci è sembrato imperativo fare un punto sull’accoglienza realizzata. Al termine di una videoconferenza organizzata con i diversi attori e in seguito a numerosi colloqui e osservazioni, è emerso che le condizioni di accoglienza non potevano garantire gli obiettivi sanitari prefissati né rispondere stabilmente alle esigenze dei residenti e dei volontari“.

Le autorità hanno deciso di chiudere l’alloggio temporaneo senza recarsi sul posto, gestito in modo permanente dai volontari, per vedere le carenze segnalate loro da terzi. I volontari non sono mai stati consultati, interrogati o avvertiti in anticipo. Alla fine, la natura di queste “condizioni di accoglienza“, che “non potevano garantire gli obiettivi sanitari prefissati“, non è mai stata spiegata chiaramente.

Gli otto uomini sfollati si ritrovano davanti a questo dilemma : accettare di essere trasferiti in un altro comune oppure lasciare il comune con i propri mezzi.

Come ultima spiaggia, la soluzione proposta dal comune è stata quella di affidare ad un’altra piattaforma cittadina la ricerca di una soluzione abitativa su un altro territorio comunale. Siamo sorpresi che la Città di Waremme, firmataria della Carta Ville hospitalière (all’interno della quale uno dei cinque impegni presi è la fornitura di edifici vuoti a persone il cui diritto all’alloggio non è rispettato), non sia riuscita a trovare una soluzione abitativa sul proprio territorio. Le autorità municipali ci hanno detto che il luogo per il lockdown non aveva alcuna importanza e che era “in circostanze eccezionali, una misura eccezionale“.

Tuttavia, se si fossero potute adottare misure eccezionali, riteniamo che avrebbero dovuto essere indirizzate verso la ricerca di un posto per i migranti:
• Nel momento in cui il lockdown è stato annunciato
• Nella città di Waremme, dove i migranti avevano le loro abitudini e una rete solidale a cui appoggiarsi
• Dove avrebbero potuto stare in isolamento senza che fosse richiesta la presenza permanente dei volontari.
Infine, denunciamo le minacce e le pressioni poliziesche esercitate dalle autorità per costringere i migranti a lasciare il territorio di Waremme.

Questa pressione è stata esercitata per la prima volta durante la chiusura dell’alloggio sul sito di Haute-Wegge. Infatti, nella e-mail che accompagnava la lettera di cui al punto 3, il responsabile dell’ufficio della Direzione Generale del Comune scriveva: “Trattandosi di proprietà privata, da questo momento in poi è vietata qualsiasi presenza in loco. Eventuali abusi saranno rilevati dalle forze dell’ordine, che non mancheranno di far rispettare l’ordine pubblico con una lettura rigorosa del decreto ministeriale sulle misure di lotta al coronavirus (ad esempio, la logica dell’isolamento e la rigorosa limitazione degli spostamenti)“.

La pressione della polizia è stata poi esercitata direttamente sui giovani, che erano tornati a vivere nel loro accampamento: un assessore si è recato sul posto in diverse occasioni, alla presenza delle forze dell’ordine e dei veicoli della polizia.

Di fronte a questa pressione, i giovani sono fuggiti dal campo per paura di essere arrestati. Tra questi otto giovani c’era S., arrivato a Waremme a marzo. Racconta il confronto con l’assessore e la polizia:
Lunedì, lui (l’assessore in questione) ci ha detto di lasciare Waremme. Gli abbiamo detto che avevamo paura del Coronavirus, che non volevamo lasciare la città. Ci ha detto: “Verrò domani, parlerò con te“. L’abbiamo aspettato. È venuto la seconda volta martedì alle 12:00, con tre poliziotti. Ha detto: “Questa è l’ultima volta. Se restate qui, domani verremo ad arrestarvi“. Avevamo paura della polizia perché ci avrebbero arrestato, così siamo partiti per andare a Liegi. Sono venuti da noi (all’accampamento), che conoscono bene, sono venuti con tre auto della polizia, per arrestarci. Non ci hanno trovato. Ma hanno preso tutte le nostre cose”.

Quando li abbiamo interpellate, le autorità comunali ci hanno assicurato che non c’era mai stata una questione di privazione della libertà. Tuttavia, la presenza di agenti di polizia e le ripetute visite dell’assessore hanno costituito una minaccia. Se non avessero obbedito, i giovani sarebbero stati inadempienti alle misure speciali decise dal governo federale a causa della crisi del Coronavirus, su cui le autorità di Waremme si sono basate per giustificare le loro azioni. Con il rischio di essere private della libertà per queste persone sfollate e prive di documenti.
 

Neufchâteau / Léglise

Lo scorso febbraio, nella provincia del Lussemburgo, una cinquantina di cittadini impegnati hanno creato il collettivo Escal per portare aiuto urgente ai migranti (qui soprannominati “amigrant-es”) presenti nei territori dei comuni di Neufchâteau e Léglise.

Cominciamo con un rapido sguardo indietro per capire la storia del progetto collettivo Lescal. Circa un anno fa, alcuni cittadini di Neufchâteau e Léglise hanno notato la crescente presenza di migranti nei loro comuni, attraversati dall’autostrada E411, che molti migranti prendono per trovare un camion su cui salire per raggiungere l’Inghilterra.

Questi cittadini si sono poi organizzati per portare acqua, cibo e vestiti ai migranti che avevano allestito un accampamento di fortuna nella foresta o sotto i ponti autostradali, dai quali venivano regolarmente allontanati dalla polizia.

In pieno inverno, dato che la polizia aveva nuovamente smantellato un campo, costringendo gli sfollati a rifugiarsi sotto un ponte, i volontari si sono mobilitati, hanno formato dei collettivi e si sono messi alla ricerca di soluzioni per aiutare questi migranti. Inizialmente, il collettivo ha trovato una soluzione di alloggio temporaneo nel fienile di un privato. I volontari hanno montato una tenda e a turno hanno portato pasti caldi, vestiti, coperte, assistenza legale, cure mediche, ecc. Ancora una volta, la polizia è intervenuta, evacuando il posto 10.

Contemporaneamente, i membri del collettivo hanno intrapreso numerose azioni e un’intensa attività di lobbying sulle autorità politiche per ottenere una sistemazione.

A febbraio, il comune di Neufchâteau ha accettato di mettere a disposizione del collettivo un vecchio asilo nido, situato a Longlier. Questo luogo ha permesso l’accoglienza diurna di una quindicina di migranti, che hanno potuto beneficiare di letti, di una connessione internet, di servizi igienici e di una cucina. Il luogo è stato interamente gestito dai volontari del collettivo, che hanno operato con donazioni in natura o in denaro raccolti in particolare presso delle imprese locali.

Ma, poco prima dell’annuncio del lockdown, il collettivo è stato costretto a chiudere il locale. Gli occupanti e i volontari hanno avuto meno di 12 ore per evacuare i locali. L’origine di questa decisione – provinciale o comunale? – non è ancora chiaro.
I membri dell’Escal si sono immediatamente coordinati per trovare una soluzione per continuare ad accogliere gli sfollati durante il lockdown. Dopo due settimane di appelli (telefonate, e-mail, incontri ovunque), il collettivo ha ottenuto dal sindaco di Léglise la messa a disposizione di una sala polisportiva. Attualmente vi sono ospitati 12 sfollati. Questa è una soluzione temporanea. Da notare che il collettivo ha ottenuto anche una sovvenzione dalla Fondazione Roi Baudouin attraverso la rete di associazioni di cittadini attivi sui temi dell’asilo e della migrazione.

I volontari sono felici di aver potuto dare rifugio a questi migranti. Tuttavia, alcune domande e riflessioni meritano di essere sollevate.

1. Quando il centro di accoglienza di Longlier ha chiuso, il comune di Neufchâteau (che si è dichiarato “comune ospitale“) non ha proposto alcuna soluzione. La zona di polizia della regione ha sconsigliato alle autorità di fornire alloggio ai migranti.
Di fronte a questa inerzia e opposizione, i volontari hanno svolto un pesante compito di interpellanza e di sensibilizzazione (numerosi compiti amministrativi, contatti continui con diversi livelli di potere, ricerca di un luogo per l’accoglienza, di finanziamenti, ecc.) Questo è stato molto difficile per i volontari.

Inoltre, con le misure di lockdown, le donazioni (in contanti e in natura) raccolte attraverso le imprese locali sono drasticamente diminuite. I volontari hanno dovuto organizzarsi da soli per trovare il cibo e mettere le mani al loro portafoglio.
2. Il palazzetto dello sport è soggetto a severe regole di lockdown. Gli occupanti non sono autorizzati a lasciare il posto (un palazzetto dello sport e un cortile interno).

Solo una squadra di sette volontari è autorizzata ad entrare in contatto con gli occupanti per portare loro i pasti (la sala polisportiva non ha una cucina), fare il bucato, fornire assistenza, ecc. Da un lato, queste misure sollevano degli interrogativi sull’emarginazione dei migranti e sulla limitazione della loro libertà di movimento. D’altra parte, il collettivo ha segnalato segni di esaurimento tra i membri incaricati di questa pesante gestione quotidiana, appesantiti dal fatto che alcuni hanno ripreso il loro lavoro con l’introduzione delle misure di deconfinamento. I volontari senza lavoro sono persone “a rischio” perché hanno più di 65 anni e quindi mettono in pericolo la loro salute.

3. Le forze dell’ordine sono intervenute più volte per smantellare i campi ed evacuare gli alloggi allestiti dalla collettività. Inoltre, prima della crisi, alcuni volontari che fornivano assistenza (cibo, vestiti, tende, ecc.) ai migranti sono stati convocati alla stazione di polizia per rispondere ad accuse di tratta di esseri umani. “Abbiamo l’impressione di essere nell’illegalità, di essere dei criminali, è molto spiacevole. Durante il passaggio tra i due locali (l’ex asilo nido e il palazzetto dello sport), il cibo veniva portato ai migranti nel bosco. Alcuni dei volontari ci andavano in bicicletta perché avevano paura di essere controllati dalla polizia“.

4. Il collettivo deve, oltretutto, preoccuparsi di ciò che accadrà agli sfollati che stanno trascorrendo la quarantena nel palazzetto dello sport quando questo riprenderà la sua attività. In effetti, il collettivo non ha alcuna garanzia di recuperare i locali di Longlier. C’è quindi un’emergenza. La battaglia potrebbe essere ancora lunga. “Abbiamo fatto molta strada”, ricorda il collettivo che, poco prima dello scoppio della crisi, era finalmente riuscito a stabilire una dinamica stabile. “Abbiamo la difficile sensazione di essere in uno stato di perpetuo riavvio. Siamo chiaramente in una situazione di affanno all’interno del nostro collettivo“.
E il futuro?

Conclusioni

Questi tre esempi, così come altre situazioni che non abbiamo trattato in questo articolo, evidenziano importanti disfunzioni nella gestione politica dell’accoglienza dei migranti in Belgio. Di seguito proponiamo una sintesi di questi problemi.
Mancanza di dialogo tra lo Stato federale e le autorità comunali
Sembra che i diversi livelli di potere agiscano senza consultarsi a vicenda e si rimpallano le responsabilità l’uno con l’altro.
Il ministro Maggie De Block e la sua amministrazione hanno preso alcune importanti decisioni:
• da gennaio, i centri aperti non sono più autorizzati ad accogliere i richiedenti asilo che sono stati tolti dalla procedura Dublino 11 (salvo in caso di esito positivo del ricorso), né la gran parte di coloro che presentano una seconda domanda di asilo, in particolare dopo essere stati tolti dalla procedura Dublino (misura adottata prima – e quindi non collegata – alla crisi Covid-19)
• l’Ufficio Stranieri ha sospeso la registrazione delle domande di asilo durante la crisi.
• 300 persone detenute in centri di trattenimento sono state rilasciate all’inizio del lockdown con un’ordinanza di espulsione

Queste decisioni, che hanno avuto come conseguenza l’aumento del numero di migranti senza alloggio, non sono state seguite da misure di accompagnamento.
In generale, il governo belga non ha fatto assolutamente nulla per fornire assistenza ai migranti. Gli enti locali si sono quindi ritrovati in prima linea nel gestire la presenza dei migranti sul loro territorio in pieno lockdown.

Da parte loro, le autorità comunali si nascondono dietro le leggi federali e le misure eccezionali votate dal governo belga per giustificare gli interventi di polizia volti a scacciare i migranti dai loro territori. I Comuni trasferiscono alle autorità federali anche la responsabilità della cura dei migranti. Il caso di Tournai, dove il sindaco ha fatto appello al governo federale affinché si occupasse dei migranti presenti sul suo territorio, è un perfetto esempio di questa mancanza di concertazione 12.

Il nostro ruolo non è quello di agire come arbitri, né di definire un modello che assegni competenze specifiche a ciascuna autorità pubblica. Tuttavia, denunciamo questa mancanza di una politica concertata, l’inerzia del governo belga e delle autorità comunali.

Inoltre, siamo contrari alla politica utilitaristica del governo belga nei confronti dei migranti 13.

Riteniamo inoltre che i comuni dispongano di un’autonomia operativa nello sviluppo delle loro politiche di accoglienza dei migranti, in termini di infrastrutture e risorse umane, di comportamenti verso i migranti privi di documenti e di decisioni da prendere. Questi dispongono di un ampio margine di manovra per stabilire una linea politica che, da un lato, avrà un’influenza diretta sulla vita quotidiana delle persone che risiedono sul loro territorio (rifiutando di cacciare i migranti stabilitisi sul loro territorio, fornendo strutture di accoglienza, risorse umani e finanziarie per gestire tali strutture, etc.) e, dall’altro, potrebbe esercitare pressioni sul governo federale affinché prenda decisioni umane ed eque sull’accoglienza.

Mozione “Città Ospitale”: quale rilevanza?

Nel proseguimento di questa riflessione, ci interroghiamo sull’importanza della firma della Carta della “Città Ospitale” agli occhi delle autorità comunali.

Come abbiamo appena sottolineato, le città e i comuni negano la loro responsabilità, come se non avessero alcun margine di manovra, mentre hanno sottoscritto una carta che di fatto comporta un margine di manovra. Di conseguenza, abbiamo visto che i tre comuni citati in questo articolo (tutti e tre hanno firmato la Carta della Città Ospetale) sono andati contro le priorità e gli impegni su cui si basa la Carta 14
• «Migliorare l’accoglienza e il soggiorno dei migranti nel rispetto dei diritti umani» : alloggi nelle tende a Liegi, migranti con il divieto di uscita a Waremme e Léglise
• «Nel nostro Comune, tutti gli edifici vuoti sono degli alloggi»: nessun edificio è stato offerto a Liegi, nonostante gli appelli dei cittadini, e nessuna alternativa è stata proposta a Waremme dopo la chiusura dell’alloggio temporaneo nel campo da calcio.
• «Nel nostro Comune, la polizia non prende di mira le persone senza documenti»: smantellamento dei campi e convocazione dei volontari che vanno a fornire aiuti ai migranti a Léglise e Neufchâteau, minacce di espulsione a Waremme.

Va detto che le autorità locali non rispettano né lo spirito, né il testo della Carta che hanno sottoscritto. Le motivazioni per aderire alla Carta non sarebbero da ricercare forse nel bisogno delle autorità di dare un’immagine caritatevole di sé, nella volontà di giocare sugli effetti della pubblicità e/o nella necessità di liberarsi dalla pressione esercitata dai cittadini?

L’ istituzionalizzazione del lavoro dei volontari

Dinanzi a questa deresponsabilizzazione della politica, sono i cittadini che prendono l’iniziativa e si preoccupano della presa in carico dei migranti.
Spetta quindi ai volontari un lungo ed estenuante lavoro di interpellanza con i funzionari eletti e di ricerca con i privati per ottenere mezzi, autorizzazioni, infrastrutture.

D’altra parte, sono sempre i volontari e le associazioni di cittadini che, se ottengono qualcosa (un posto, finanziamenti, cibo, ecc.), ne devono assicurare la gestione. Con la concessione di sovvenzioni, senza alcun coinvolgimento o lavoro di follow-up, come nel caso del progetto di alloggio a Saint-Nicolas, le autorità pubbliche si aspettano che i volontari svolgano il lavoro al posto loro.

L’IRFAM, nello studio citato all’inizio di questo articolo, sottolinea l’importanza e la gravosità del volontariato:
“Nella provincia del Lussemburgo, per esempio, vari comuni di Léglise, Habay, Athus e Arlon hanno eccezionalmente messo a disposizione locali o centri sportivi per il lockdown dei migranti senza fissa dimora e/o senza documenti. Anche se i comuni sono responsabili della fornitura delle infrastrutture, la loro gestione rimane competenza dei collettivi cittadini. Questo tipo di messa a disposizione è il risultato delle richieste di associazioni e cittadini, generalmente raggruppate in coordinamento e con il sostegno del Coordination Luxembourgeoise Asile-Migration (COLUXAM), che riunisce una ventina di associazioni, o del CNCD-11.11.11, che gestisce la campagna Comuni ospitali. Inoltre, le iniziative di interpellanza rappresentano un carico di lavoro di per sé, che consiste nell’individuare i problemi, proporre soluzioni, coordinare i diversi gruppi di volontari, scrivere lettere, comunicare pubblicamente e negoziare con i responsabili delle decisioni».

(…) Una commissione sovracomunale della Vallonia Piccardia, specifica per la questione dei migranti in transito, ha infine deciso di privilegiare l’apertura di più aree di accoglienza, distribuite su diversi comuni della provincia, piuttosto che aprire un’area di accoglienza centralizzata con una maggiore capacità. La supervisione di questi luoghi è anche realizzata attraverso una collaborazione tra la Piattaforma per l’Interculturalità di Tournai, Picardie Laïque e la rete locale della Piattaforma dei Cittadini. Da parte sua, la Regione di Bruxelles ha finanziato la messa a disposizione di un hotel con una capacità di 120 posti per l’ospitalità ed il lockdown di migranti privi di documenti, delegando la gestione alla Piattaforma dei cittadini (Kihl L. (2020), “Coronavirus: un hotel di Bruxelles per il lockdown dei migranti in strada”, Le Soir, 20 marzo 2020).

Questi esempi hanno dimostrato che la disponibilità dei comuni a farsi coinvolgere nel problema varia, così come le soluzioni auspicate. All’apertura delle strutture di accoglienza, la loro gestione è delegata a collettivi o associazioni di cittadini. Le condizioni eccezionali della crisi sanitaria evidenziano in particolare i metodi di gestione dell’accoglienza e di sostegno ai migranti, compresa la governance multiattoriale.

Questa modalità di gestione comporta relazioni multiple e complesse tra soggetti interessati o organizzazioni di natura profondamente diversa. Questa molteplicità di attori può essere attribuita in particolare alla sovrapposizione della natura formale e informale delle richieste reciproche tra la società civile e i servizi pubblici. E’ anche giustificata dall’urgenza delle situazioni che si acuisce in tempo di crisi. In pratica, non sorprende che i servizi pubblici municipali, come i CPAS, si rivolgano a collettivi di cittadini o a reti di alloggi privati per gestire l’accoglienza di persone senza documenti e senza fissa dimora. In questa governance multi-attoriale, la società civile, rappresentata da collettivi e associazioni auto-organizzate, svolge un ruolo fondamentale e riunisce un insieme di attori chiave per la loro competenza nel settore.

Il coinvolgimento dei cittadini in azioni concrete di solidarietà risponde a diverse motivazioni umanitarie, basate su posizioni politiche esplicite o implicite. Queste corrispondono, nel loro insieme, all’espressione di una cittadinanza attiva, solidale e inclusiva. Questo impegno permette la protezione di migliaia di persone che sono di fatto parte della popolazione, ma che sono escluse dalla cittadinanza. (…) 15

Ecco quindi il paradigma: le autorità, ben consapevoli della questione migratoria, non sono in grado di fornire delle risposte adeguate. Così i cittadini, di fronte all’emergenza umanitaria, cercano di porre rimedio. Tanto che le autorità si affidano alle associazioni di volontariato per gestire la crisi. Questo va oltre la questione dell’accoglienza dei migranti: abbiamo visto e vediamo ancora oggi ovunque la spinta alla solidarietà, come la realizzazione di maschere gratuite, la donazione di alimenti e prodotti per l’igiene in risposta alle richieste delle autorità pubbliche.

Questi esempi sono attraversati dalla stessa logica neoliberale, che tende poco a poco ad istituzionalizzare il lavoro volontario che dovrebbe sostituire l’intervento delle autorità pubbliche.

Viviamo quindi in un’epoca in cui le classi dirigenti hanno raggiunto un tale livello di indecenza che, troppo impegnate a salvare lo squilibrio dominanti/dominanti che struttura l’intera società, lasciano al popolo il compito di farsi carico delle competenze che gli spettano.

I migranti sono trattati come sottocittadini che vengono emarginati.
Negli esempi messi in evidenza in questo articolo, notiamo che le autorità hanno scelto di ospitare i migranti in tenda quando di notte faceva freddo, o hanno imposto loro regole di vita più severe rispetto al resto della popolazione.

Da un lato, il migrante è trattato come un subcittadino che non ha diritto a un trattamento rispettoso della dignità umana. D’altra parte, è percepito, più che mai, come uno straniero che deve essere escluso (sia confinandolo in uno spazio chiuso, sia portandolo fuori dai confini del suo territorio). Non c’è mai stata tanta distanza tra un “noi” e un “loro“, che sono esclusi dalla società e, per il momento, dalla prevista immunità collettiva che si vorrebbe ottenere.

Alla fine, quello che emerge dalla crisi di Covid-19, e che evidenziamo in questo articolo, non è strettamente legato a questa crisi, ma è qualcosa di strutturale. Il che ci porta a chiederci: e ora, quando le misure di deconfinamento vengono attuate ovunque, cosa facciamo?

A Liegi, il Collegio Municipale ha revocato il Piano d’emergenza domenica 31 maggio. Questo significa lo smantellamento dell’accampamento nel Parco Astrid. Gli occupanti non hanno ricevuto alcuna informazione chiara dai servizi della città, ma si preparano a dover lasciare il posto questa sera. I box doccia sono già stati rimossi. Gli altri servizi (servizi igienici, distribuzione di tè/caffè) termineranno lunedì 1 giugno.
Imed vive a Liegi da undici anni, non ha documenti. È stato uno dei primi a trasferirsi al Parco Astrid quando è stato introdotto il lockdown.

“Ero nei rifugi notturni, è stato il CPAS di Liegi a mandarci qui. Sono stato nel campo per due mesi e mezzo.
Forse loro [i responsabili comunali] toglieranno le tende stasera. Ci sono già persone che se ne sono andate, ce ne sono altre che non hanno scelta, non sanno dove altro andare, quindi sono ancora lì. I funzionari ci hanno detto che potevamo rimanere, ma senza avere accesso ad altri servizi: senza docce, senza servizi igienici, senza caffè al mattino, senza niente. Non siamo nemmeno sicuri se possiamo rimanere o meno. Ho trovato un posto per la mia tenda da qualche altra parte, ma non sono sicuro che mi sarà permesso spostarla…
Il rifugio notturno è aperto, credo. Ma non c’è mai abbastanza posto per tutti, nemmeno per i belgi 16.

Il rifugio funzionerà come al solito, credo: bisogna fare la fila per entrare alle 20 e alle 7.45 tutti devono essere andati via. Dovremo passare l’intera giornata all’aperto. Non c’è un bar aperto, niente di niente, staremo in un parco, staremo in giro tutta la giornata, non lo so.

Non si sa dove dobbiamo andare. Abbiamo chiesto fin dall’inizio di avere un responsabile qui, qualcuno che ci spieghi bene le cose… Non è mai stato fatto.»

Circa 50 persone vivono ancora nel parco, di cui una ventina di persone senza documenti.

Per quanto riguarda il progetto di accoglienza che il nostro collettivo sta portando avanti, attraverso il collettivo Liège Ville hospitalière, nelle case di Saint Nicolas e che si concluderà al più tardi con l’accordo di occupazione delle case, cioè il prossimo 31 luglio, o anche prima se non riceveremo più un sostegno finanziario da fonti pubbliche perchè limitato al periodo di lockdown. Per quanto riguarda Waremme, gli sfollati non potranno essere assistiti a tempo indeterminato dai volontari che hanno trovato loro un rifugio temporaneo. A Léglise, il collettivo Escal non sa se sarà in grado di recuperare la sua area di accoglienza quando gli occupanti del palazzetto dello sport dovranno evacuare.

Dappertutto, migliaia di migranti sono già tornati per le strade o lo faranno presto. Alcuni hanno perso il lavoro e sono ancora più vulnerabili.

E ora cosa che si fa? Potremmo sentire una risposta diversa da: “Se non hanno il pane, lasciate che i volontari diano loro delle brioche da mangiare!“?
Pronto, politica?

  1. CIRÉ, Les compétences des communes en matière d’accueil des étrangers, 2018.
  2. Joachim Debelder e Altay Manço, « Pandémie : mobilisations citoyennes et modes de gestion locale de la question migratoire », Analisi dell’IRFAM n°1, 2020.
  3. Due volte al mese, a Liegi, accogliamo decine di migranti in maniera totalmente volontaria e senza alcun sostegno finanziario pubblico, per proteggerli dalla fame, dal freddo, dalla solitudine, dagli arresti violenti e arbitrari e per aiutarli ad avere accesso alle cure e all’assistenza legale.
  4. JOC, Dans la ville solidaire qui s’auto-organise, maggio 2020.
  5. Liège Ville Hospitalière, Liège : les tentes sont insuffisantes. Il faut des solutions d’hébergements « en dur » pour les mal-logés avec et sans papiers, 25 marzo 2020.
  6. Abbiamo saputo, attraverso la stampa, che la Società Bluestone Invest ed il suo proprietario Paul Van Butsele avevano acquistato avaient racheté le strutture delle cliniche St Vincent de Paul (Rocourt), l’Espérance (Montegnée) e St Joseph (Liegi). Un edificio era stato messo parzialmente a disposizione di Fedasil che vi aveva recentemente aperto un centro per richiedenti asilo, un altro doveva essere affittato alla Croce Rossa per uno scopo simile. Era previsto che un terzo edificio fosse riservato agli ospedali di Liegi per confinare e isolare le persone che si stavano riprendendo dal coronavirus, ma che erano ancora contagiose.
  7. La Croce Rossa di Fraipont, la Brasserie de la Gare des Guillemins e la Caffetteria collettiva Kali.
  8. Il Relais era un progetto de la Maison de la Laïcité di Waremme, sostenuto dal CAL (Centro d’azione laica) della Provincia di Liegi. Quest’ultimo ha messo a disposizione dei volontari i locali, si è occupato delle bollette energetiche e ha contribuito al progetto anche attraverso donazioni. Il progetto ha avuto anche il sostegno delle Femmes Prévoyantes Socialistes che hanno messo a disposizione una persona per un orario di lavoro di 4 ore settimanali.
  9. Una delle ragioni di questa mancanza di accordo è che, mentre il Comune ha proposto di mettere a disposizione un locale per l’accoglienza dei migranti, ha lasciato la gestione di questo locale ai volontari che dovevano assicurare una presenza 24 ore su 24. Era qualcosa che questi non potevano offrire. Altri motivi: il Comune voleva che la questione del ritorno volontario fosse proposta automaticamente ai migranti e, con l’obiettivo dichiarato di prevenire la tratta di esseri umani, è stato anche previsto di istituire un sistema per rintracciare i migranti al fine di raccogliere informazioni sul loro viaggio e sulle persone con cui erano stati in contatto.
  10. Un reportage è stato realizzato da TVLux
  11. Un “Dublinante” si riferisce, nel linguaggio comune, a un richiedente asilo che è soggetto a una procedura ai sensi del Regolamento 604/2013/UE del 26 giugno 2013, noto come Regolamento Dublino, e quindi a un trasferimento in un altro Paese europeo (parte del cosiddetto Regolamento Dublino) perché lo Stato belga ha ritenuto di non essere competente per l’esame della sua domanda di asilo.
  12. Delfosse M. (2020), « Paul-Olivier Delannois, sindaco di Tournai : “ Necessità urgente che il governo federale trovi una soluzione al problema dei migranti” », La Dernière Heure, 26 marzo 2020.
  13. Ciò significa che la migrazione è legittima solo se l’arrivo di persone sul territorio porta denaro. Questa logica, in uso da 75 anni in Belgio, si è recentemente evoluta. Dal 2015, l’utilitarismo si applica al settore dell’asilo. In altre parole, in Belgio il diritto alla protezione internazionale è stato subordinato alla redditività economica. Durante la crisi dell’accoglienza dei rifugiati, sia i datori di lavoro belgi che la comunità bancaria tedesca hanno dichiarato che c’era un profitto da trarre dall’accoglienza di persone legittimate ad essere riconosciute come rifugiati. Durante la crisi del Covid-19, per far fronte alla carenza di manodopera, il governo belga ha semplicemente abolito il termine di quattro mesi per l’accesso dei richiedenti asilo al mercato del lavoro. La misura è stata uno shock, vista la mancanza di misure sociali. Deve essere denunciata. Ma non sorprende, perché è pienamente coerente con la logica utilitaristica che ha sostenuto le politiche migratorie belghe a partire dalla seconda guerra mondiale. I Centri di integrazione regionale valloni hanno tracciato un parallelo con gli accordi conclusi con diversi governi fino agli anni ’60 per portare lavoratori italiani nelle miniere valloni, poi lavoratori marocchini e turchi per rilanciare il settore industriale belga. A quanto pare, quindi, una pandemia non basta allo Stato belga per cambiare il suo modo di operare, ma al contrario ne approfitta per rafforzare le sue politiche vergognose. L’unica azione intrapresa non è nell’interesse delle persone, ma nell’interesse dell’economia. Non si tratta di assicurare diritti fondamentali, ma di sfruttamento capitalistico. Con il suo silenzio, con la sua inazione, lo Stato sta rinnovando la violenza istituzionale che già in tempi normali infligge alle persone senza documenti. Quello che viene detto è che anche nelle circostanze eccezionali in cui viviamo, voi non avrete nulla: niente tetto, niente risorse, niente documenti.
  14. https://www.communehospitaliere.be/-cinq-priorites-commune-hospitaliere-
  15. Joachim Debelder e Altay Manço, « Pandémie : mobilisations citoyennes et modes de gestion locale de la question migratoire », Analisi dell’IRFAM n°1, 2020.
  16. Secondo la città di Liegi, la capacità dell’alloggio notturno di Liegi diminuirà a causa delle misure di distanziamento fisico. La Difesa nazionale metterà a disposizione i locali del Rifugio della Caserne St-Laurent per aumentare la capacità ricettiva. Tuttavia, questo rimarrà, come tutto l’anno, insufficiente.