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tratto da penalecontemporaneo.it

Ancora sull’impatto della direttiva comunitaria 2008/115/CE sui reati di cui all’artt. 14 co. 5-ter e 5-quater d.lgs. 286/1998

a cura di Filippo Focardi, Sostituto Procuratore della Repubblica di Firenze

1. Il rapporto tra direttive comunitarie e la legislazione interna.
La adesione all’UE impone agli Stati membri di adeguare le proprie legislazioni al diritto comunitario e, con particolare riferimento alle Direttive, ad adeguare i rispettivi ordinamenti interni entro il termine di scadenza per il recepimento.

Tuttavia, come detto, il recepimento non è atto discrezionale, ma un preciso obbligo dello Stato aderente alla UE.

Tale obbligo rientra tra le limitazioni di sovranità accettate dall’Italia con l’adesione all’Unione Europea, sicché non solo il Trattato Istitutivo, ma anche tutte le fonti normative emanate dagli organi comunitari, hanno valore giuridico, e di legge costituzionale, nel nostro ordinamento in virtù degli artt. 10 e 11 Cost.

Ne discende che le Direttive, per il semplice fatto di essere state emesse ed a maggior ragione una volta scaduto il termine di recepimento, hanno comunque ex se una certa quale efficacia giuridica.

Inoltre, le Direttive Comunitarie per le quali sia scaduto il termine di recepimento hanno anche una ulteriore e più penetrante efficacia nell’ordinamento interno, qualora siano self-executing, e cioè alle seguenti condizioni:

– che il termine di recepimento sia scaduto;

– che abbiano un contenuto precettivo chiaro, preciso e incondizionato.

In relazione a fonti normative aventi tale caratteristica, infatti, l’adeguamento dello Stato membro consisterebbe in una attività meramente formale: ma poiché le Direttive hanno già valore giuridico, l’inadempimento dello Stato è mero inadempimento e non può essere eccepito rispetto a quanti intendano far valere un diritto in esse riconosciuto (con la precisazione che mentre la direttiva recepita fa nascere anche diritti dei cittadini verso i cittadini – o efficacia orizzontale – la direttiva non recepita ma self executing fa nascere solo diritti dei cittadini nei confronti delle istituzioni degli Stati membri – efficacia verticale).

In sostanza, gli organi dello Stato membro (non solo il Giudice, ma anche qualsiasi pubblico funzionario) hanno il dovere di applicare, in luogo della norma interna, la norma comunitaria, che va dunque a riempire un vuoto o addirittura a sostituire la norma interna: se la P.A. non applica la norma comunitaria, il suo atto o la sua inerzia sono illegittime (erronea applicazione di norma vigente a tutti gli effetti nel nostro ordinamento), e il Giudice può porvi rimedio applicando la norma “giusta” e, se del caso, disapplicando l’atto amministrativo fondato sulla norma “sbagliata”.

Laddove invece le Direttive Comunitarie non abbiano la caratteristica per la immediata esecutività, i relativi precetti non possono avere efficacia immediata e diretta, atteso che lo Stato membro è tenuto non ad una attività meramente formale di recepimento, ma a dare un assetto di merito agli interessi dalle medesime considerati. Non operando la sostituzione automatica tra le norme, il pubblico funzionario, dunque, deve applicare la norma interna pur illegittima, fin quando questa non sia rimossa (se del caso mediante incidente di illegittimità costituzionale, come vedremo subito appresso). In tal caso il Giudice non può disapplicare l’atto, poiché fino alla rimozione della fonte normativa in base alla quale è stato emanato esso è da considerarsi legittimo.

Tuttavia l’inadempimento dello Stato membro è pur sempre un comportamento tenuto in violazione degli Obblighi pattiziamente assunti.
La conseguenza è che il contrasto tra il Diritto Interno e la norma Comunitaria, quale contrasto tra norme di rango diverso, può e deve essere rimosso mediante l’Incidente di Illegittimità Costituzionale, atteso che per effetto della scadenza del termine di recepimento la legislazione interna è ormai in contrasto con la legislazione comunitaria a cui è assegnato rango costituzionale.

In particolare, una norma penale interna può essere rimossa solo con un intervento positivo da parte del legislatore, per cui in nessun caso una norma Comunitaria può essere self-executing in relazione alla abrogazione di un reato. Resta se del caso da valutare la legittimità costituzionale della norma incriminatrice interna, ove in contrasto con il Diritto Comunitario.

2. La normativa interna in materia di espulsioni
 
Gli artt. 14 comma 5-ter e 5-quater D.Lgs. 286/1998 sono norme di mera disobbedienza, che tendono a rafforzare con la sanzione penale la violazione di obblighi di natura amministrativa.

Il sistema interno delle espulsioni amministrative (art. 13 D.Lgs. 286/1998) si fonda, principalmente ed in via diretta, sulla espulsione coattiva.

Laddove questa non sia possibile, è consentita:

– una forma di detenzione temporanea, di natura anch’essa amministrativa, con termine massimo predeterminato dal legislatore, finalizzata alla espulsione;

– la sostituzione della esecuzione coattiva con un ordine, impartito allo straniero, di lasciare il territorio nazionale nel termine di cinque giorni.

La violazione di tale ordine è sanzionata penalmente, con pena detentiva, e dunque in tal caso la limitazione della libertà personale è fine a se stessa, come tutte le sanzioni penali; purtuttavia, ciò è solo parzialmente vero, atteso che:

– la detenzione è collegata alla violazione dell’ordine di allontanamento, e cioè al mancato allontanamento volontario;

– è possibile sostituire la sanzione detentiva (nel limite di due anni, anche come residuo di pena) con la espulsione, e cioè lo Stato rinuncia alla pretesa punitiva laddove lo straniero lasci il Paese.

Visto da altro punto, di vista, assai rilevante per la questione in oggetto, l’ordine di allontanamento può essere:

– in sostituzione dell’accompagnamento presso il CIE: in questo caso, dunque, nessuna detenzione amministrativa ha subito in vista della espulsione lo straniero;

– all’esito del periodo massimo di permanenza nel CIE, e dunque dopo la scadenza del termine massimo di detenzione amministrativa senza che si sia potuto procedere alla espulsione.

3. La disciplina prevista dalla Direttiva Comunitaria
La Direttiva ha, come chiaramente emergente dal Preambolo, il duplice scopo da un lato di armonizzare le legislazioni nazionali in punto di espulsione, creando così un sistema omogeneo e soprattutto efficace, ma dall’altro quello di indicare ben precisi paletti alla limitazione della libertà personale nei confronti del clandestino.

In altri termini, la Direttiva stabilisce, in maniera chiara, che il giusto interesse alla effettiva espulsione di stranieri irregolari trova un limite (che può essere riassunto nel concetto di “proporzionalità) nel rispetto della libertà personale dell’espellendo, che può dunque essere limitata ma solo fino ad un ben preciso segno.

Ciò, anche in caso di comportamento imputabile allo straniero: la norma, cioè, parte dal presupposto che le limitazioni massime della libertà personale riguardano il soggetto che ostacola l’allontanamento (stabilendo quindi una serie di strumenti affinché colui che invece non intende osteggiare l’esecuzione della espulsione non soffra limitazione alcuna della propria libertà personale).

In tale ottica, al provvedimento di espulsione, deve di regola seguire un invito a lasciare volontariamente il territorio (art. 7), in un termine congruo che:

– di regola è compreso tra 7 e 30 giorni;

– che può tuttavia essere accompagnato da misure limitative della libertà personale diverse dalla detenzione;

– che può anche, in determinate circostanze, essere abbreviato;

– che può addirittura essere escluso, sicché lo Stato membro passa direttamente alla procedura di allontanamento forzato.

Solo alla scadenza del termine, ovvero nel caso in cui non venga dato alcun termine, è possibile procedere all’accompagnamento e cioè all’esecuzione forzata della espulsione (art. 8).

Nel caso in cui lo straniero ostacoli ed eviti la preparazione del rimpatrio, e/o vi sia pericolo di fuga, è possibile giungere alla limitazione della libertà personale mediante una detenzione amministrativa (art. 15).

In proposito si nota dunque:

– che tale detenzione è, di fatto, una sanzione che colpisce colui il quale mostra di volersi sottrarre all’ordine di espulsione;

– che tale limitazione, proprio perché con funzione di scopo, non può mai durare oltre la “prospettiva ragionevole di allontanamento”, e cioè una volta che si sia verificato che non è materialmente possibile eseguire coattivamente la espulsione, cessa per ciò solo il titolo della detenzione;

– a scanso di equivoci, e in ossequio al principio di proporzionalità, viene comunque indicato un termine massimo oltre il quale la prospettiva di effettivo allontanamento non è più “ragionevole” (il che vuol dire, però, che di regola il termine di detenzione potrebbe e dovrebbe essere inferiore).

Dunque la normativa comunitaria, ormai vincolante anche per il nostro ordinamento, segna i ben precisi limiti entro i quali può essere limitata, a qualunque titolo, la libertà personale di colui la cui unica colpa è il non voler o non poter essere espulso.

4. Notazioni in punto di diretta applicabilità della direttiva.
Nessun dubbio che dal 24.12.10 la disciplina interna è in contrasto con quella comunitaria, atteso che il procedimento di espulsione previsto dal D.Lgs. 286/98 è totalmente difforme da quello delineato in ambito sovranazionale (se non per alcuni occasionali punti di contatto). Solo per citare i più evidenti:

– prevede come regola la espulsione coattiva: anche le ipotesi di ordine di allontanamento, si inseriscono in un momento successivo ed eventuale rispetto all’accompagnamento alla frontiera;

– prevede una sanzione penale con pena detentiva per l’inadempimento dell’ordine di allontanamento, con pena massima fino a cinque anni, laddove la disciplina comunitaria prevede che le conseguenze della mancata collaborazione siano l’allontanamento coattivo e, eventualmente, la detenzione amministrativa per il tempo strettamente necessario all’allontanamento e comunque non superiore a 18 mesi.

Vi è da segnalare che la Circolare del Ministero dell’Interno – Dipartimento della Pubblica Sicurezza – prot. 400/B/2010 prefigura una astratta compatibilità tra normativa interna e normativa comunitaria, lasciando dunque a Prefetture e Questure il compito di adeguare la prima alla seconda mediante l’adempimento di un onere motivazionale.

Tale inquadramento non considera la strutturale incompatibilità tra le due normative, atteso che il D.Lgs. 286/1998 impone ai Questori di adottare in via primaria l’allontanamento coattivo e la detenzione amministrativa, e dunque di fatto:

– onera le Questure di motivare adeguatamente per dimostrare che <>, quasi che il Questore fosse legittimato a creare dal nulla provvedimenti allo stato normativamente inesistenti quali l’obbligo di presentarsi periodicamente alla autorità ovvero di costituire una garanzia finanziaria adeguata, o di dimorare in un certo luogo (art. 7 co. 3);

– onera le Questure di motivare l’ordine di allontanamento entro 5 giorni quale esito di una valutazione di situazioni eccezionali, quando in realtà il termine è previsto come ordinario dalla legge;

– onera le Questure di motivare l’ordine di allontanamento entro 5 giorni quale esito di una valutazione di situazioni eccezionali, quando in realtà i Questori non hanno la possibilità di adottare tale ordine se non perché è impossibile il trattenimento in CIE.

Ribadito dunque che la normativa interna, al di là degli sforzi profusi dagli organi territoriali, è in insanabile contrasto con la Direttiva, e che dunque l’Italia è inadempiente all’obbligo di recepimento, resta da valutare quali conseguenze comporti tale inadempimento.

4.1. Gli ordini di allontanamento emessi dopo il 25.12.10.
Gli ordini emessi dopo la scadenza del termine di recepimento, e dunque dopo che l’Italia è vincolata ad applicare la disciplina prevista in ambito europeo, sono da considerarsi in contrasto con essa.

Tuttavia la normativa in questione non può considerarsi self-executing, sotto gli aspetti che qua rilevano.

Quanto alla disposizione dell’art. 7, questa nel suo complesso non prevede una disciplina puntuale ed incondizionata, in quanto prevede come doveroso l’intervento dello Stato per dare concretezza al sistema di pesi e contrappesi.

In tal senso sono inequivoche le dizioni:

– “gli stati membri possono prevedere nella legislazione nazionale che tale periodo sia concesso unicamente su richiesta”;

– “l’esistenza di altri legami familiari e sociali”;

– “per la durata del periodo per la partenza possono essere imposti obblighi diretti ad evitare il pericolo di fuga”.

Analogamente, per quanto concerne la emissione degli ordini di allontanamento dopo la fase di detenzione amministrativa, poiché in tal caso l’effetto è quello di sanzionare il mero inadempimento volontario con la privazione della libertà personale ipoteticamente ma assai concretamente superiore ai termini diretti ed indiretti della normativa, in quanto:

– applicata dopo che è ormai emersa la ragionevole impossibilità di ottenere, anche forzosamente, l’allontanamento dello straniero irregolare;

– applicabile ben oltre il termine di 18 mesi (considerando la pena edittale per il reato, e considerata oltretutto la reiterabilità degli ordini di allontanamento).

Tuttavia, anche in tal caso non si può sostenere la natura self-executing delle disposizioni in questione, atteso che la abrogazione di una fattispecie penale è atto insostituibile dell’ordinamento interno.

In altri termini, fermo restando che la disciplina interna è in insanabile contrasto con quella comunitaria, non è possibile la diretta esecutività nel nostro ordinamento di tale disposizione, e cioè la sostituzione automatica delle norme interne con quelle comunitarie.

Ne consegue, che l’ordine del Questore, pur emanato dopo il 24.12.10, con pedissequo reato, è emanato sulla base di una legge interna da considerarsi in pieno vigore in Italia, e che può essere rimossa soltanto mediante incidente di illegittimità costituzionale.
Conseguentemente, neppure il Giudice penale può, nella cognizione incidentale, rilevare la illegittimità dell’ordine di allontanamento, poiché tale ordine è pienamente conforme al diritto interno che, ove in contrasto con l’ordinamento sovranazionale, può essere rimosso solo dalla Corte Costituzionale.

4.2. Gli ordini di allontanamento emessi fino al 25.12.10.
Gli ordini di allontanamento emessi fino al termine di recepimento sono da considerarsi legittimamente emessi, atteso che all’epoca non vi era in vigore alcuna normativa contrastante con quella interna.

Purtuttavia, occorre considerare che al momento di sanzionare l’inadempimento emerge comunque un momento di contrasto con l’ordinamento extracomunitario.

La Direttiva, nella parte del preambolo, pone molto marcatamente l’accento sul principio di proporzionalità (punti n. 13 e n. 16), in base al quale pur essendo l’allontanamento dell’irregolare uno scopo da perseguire perché meritevole di tutela nell’ordinamento sia nazionale che europeo, non è giuridicamente ammissibile una ipotesi di detenzione sine die finalizzata a rendere effettivo tale scopo (insomma, un po’ come la galera per debiti: vero è che pagare i propri debiti è un comportamento doveroso, ma non ogni sanzione può essere utilizzata per obbligare all’adempimento).

Quindi la direttiva evidenzia fortemente che la detenzione è considerata uno strumento giuridico legittimo solo se (art. 15):

a) collegata ad un comportamento volontario dello straniero;

b) strettamente limitata allo scopo;

c) con un termine massimo di 18 mesi.

In altri termini, la Legislazione comunitaria prevede la compressione del diritto fondamentale alla libertà personale in virtù del principio sovraindividuale alla regolazione dei flussi migratori: ma, come ogni bilanciamento di interessi, stabilisce un ben preciso limite di proporzione tra scopo e mezzi.

Oltre tali limiti, si ha un contrasto tra la normativa e la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (art. 49), atteso che un fine pur meritevole di tutela viene raggiunto a scapito della intollerabile violazione della Libertà Personale.

E’ pur vero che, in linea di principio, ciascuno Stato ha la facoltà di rafforzare con la sanzione penale l’adempimento degli obblighi nascenti dal rispetto delle norme anche comunitarie, ma nel caso di specie occorre considerare:

1) la totale sovrapposizione tra presupposti della fattispecie penale interna e presupposto della detenzione presa in considerazione dalla Direttiva, sanzionandosi niente di più e di diverso che la mancata collaborazione dello straniero alla propria espulsione: la Direttiva prevede espressamente che la limitazione della libertà personale è lecita laddove lo straniero abbia adottato comportamenti tendenti ad ostacolare il proprio allontanamento, e cioè consente di sanzionare la mancata collaborazione dell’espulso con una forma di detenzione;

2) la Direttiva – come del resto è la regola – non impone e neppure semplicemente indica il titolo formale della limitazione della libertà personale (detenzione amministrativa piuttosto che sanzione penale), lasciando anche in ciò la doverosa libertà dei singoli Stati, pragmaticamente occupandosi dell’effetto ultimo che grava sullo straniero irregolare che non vuole allontanarsi;

3) e tuttavia tale detenzione, ampiamente giustificata dal comportamento dello straniero, è soggetta al principio di proporzionalità;

4) la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea prevede che anche in relazione ai fatti criminosi “le pene non devono essere sproporzionate rispetto al reato” (art. 49), e la Direttiva appunto traccia i limiti della proporzionalità in relazione a tali vicende;

5) la Direttiva sancisce anche espressamente che gli Stati non possono riservare allo straniero da allontanare un trattamento deteriore rispetto a quello da essa previsto dalla Direttiva (ma eventualmente un trattamento più favorevole: art. 4)

Ne consegue che la legislazione interna italiana prevede, pur in relazione all’inadempimento di ordini legittimamente emessi, una privazione della libertà personale da considerarsi sproporzionata, in quanto:

– prevede una sanzione che non è finalizzata alla mera espulsione, e che – anche applicandosi alcune norme relative alla espulsione come sanzione sostitutiva o come causa di estinzione della pena – potrebbe portare ad una detenzione fine a sé stessa ed inidonea a raggiungere lo scopo che legittima la limitazione della libertà personale;

– prevede una limitazione della libertà personale che, anche in sé considerata, va ben oltre i limiti indicati dalla direttiva;

– prevede una limitazione della libertà personale che addirittura può trovare applicazione (con un titolo solo formalmente diverso) dopo – e dunque oltre – i termini massimi di detenzione amministrativa;

– prevede, mediante il meccanismo della reiterazione degli ordini di allontanamento, la comprensione tendenzialmente illimitata della libertà personale del soggetto.

Questo effetto si verifica non al momento della emissione dell’ordine di allontanamento, ma al momento in cui il Giudice penale deve irrogare la sanzione: è in tale momento dunque che va verificata la non rispondenza della normativa interna alla normativa comunitaria.
Tale profilo ha identica rilevanza indipendentemente dal tempo in cui si perfezionò la violazione della norma penale: e cioè anche colui che da anni si sia reso inadempiente all’ordine di allontanamento ha oggi diritto a che la sua detenzione avvenga nei limiti del quadro delineato dalla Direttiva.

Anche sotto tale aspetto però la Direttiva non può considerarsi self-executing, e cioè non può portare alla totale e immediata abrogazione di una sanzione, atteso che lo Stato ha la facoltà di decidere con quali strumenti applicare la detenzione collegata alla effettività dell’allontanamento, secondo un sistema di pesi e contrappesi che risulti nel complesso rispondente alla cornice della Direttiva.

Anche in tal caso, dunque, il Giudice penale, al momento in cui dovrebbe – applicando il diritto interno – irrogare una sanzione non corrispondente ai dettami della direttiva, ha il dovere di sollevare Questione di Legittimità Costituzionale per contrasto con la normativa sovranazionale (e cioè non solo con la Direttiva, ma anche con la Carta Fontamentale dei Diritti dell’Unione Europea).

Né può argomentarsi la impermeabilità dell’art. 14 D.Lgs. 286/1998 alla Direttiva, in base all’art. 2 lett. b) : e ciò in quanto la sanzione penale, così come attualmente prevista, è del tutto scissa dalla espulsione in via giudiziaria, che è oggetto di istituti del tutto differenti (ad es: espulsione come misura di sicurezza, o come sanzione sostitutiva).

4.3. Il giustificato motivo.
Pertanto, le fattispecie penali di cui all’art. 14 comma 5-ter e 5-quater D.Lgs. 286/1998 sono da considerarsi in contrasto con la normativa comunitaria tanto nel caso di ordini di allontanamento emessi dopo il 24.12.05, quanto per gli ordini di allontanamento emessi in data antecedente allo scadere del termine di recepimento.

In entrambi i casi, tuttavia, il Giudice penale non ha il potere di disapplicare l’atto amministrativo “ordine di allontanamento”, ma ha il dovere di evidenziare il contrasto tra la norma interna e la norma pattizia mediante Questione di Illegittimità Costituzionale.

Resta tuttavia la valvola di sfogo prevista dal “giustificato motivo”, elemento negativo tipico delle fattispecie di cui agli artt. 14 commi 5-ter e 5-quater, che anche recentemente la Corte Costituzionale ha indicato quale pilastro per la legittimità del sistema.

Ciò in massima misura se si considera:

– la retroattività ex tunc della declaratoria di incostituzionalità;

– l’efficacia erga omnes della declaratoria di incostituzionalità;

– la natura incidentale dell’incidente di illegittimità costituzionale, che cioè può essere sollevato solo allorché vi sia un giudizio.

La natura incidentale del procedimento impedisce che lo straniero possa rilevare la questione se non al momento stesso in cui egli è di fronte ad un Giudice: sicché egli ha un giustificato motivo per permanere in Italia in vista della fase di contenzioso giurisdizionale.

In tale ottica, l’oggettivo contrasto tra la norma interna e la norma sovranazionale di rango costituzionale, integra un giustificato motivo quantomai oggettivo per la permanenza in Italia: e cioè avere la possibilità di eccepire l’illegittimità della normativa interna italiana, o comunque attendere che la normativa in base alla quale l’ordine violato è stato emesso venga dichiarata incostituzionale e rimossa dall’ordinamento, con conseguente caducazione anche del proprio ordine di allontanamento.

5. Conclusione
La scadenza del termine di recepimento della direttiva 2008/115/CE comporta che, per gli ordini di allontanamento emessi dal Questore in data successiva al 25.12.2010, nonché in caso di violazione di ordini di allontanamento emessi anche prima del 24.12.10, lo straniero ha sempre un giustificato motivo di permanenza in Italia, e cioè attendere che nel giudizio principale (amministrativo) o incidentale (penale) venga sottoposto a vaglio di costituzionalità:

a) la legittimità dell’ordine di allontanamento presupposto del reato;

b) la limitazione della libertà personale conseguente all’inadempimento.

Trattandosi di circostanza di fatto e diritto che prescinde dall’accertamento di elementi attinenti alla specifica posizione, l’arresto può considerarsi non legittimamente eseguito.

Laddove si ritenesse che la disposizione sull’arresto obbligatorio in flagranza impedisca che la Polizia Giudiziaria possa operare tale valutazione, ovvero nel caso in cui la Polizia Giudiziaria ritenga comunque di procedere all’arresto, andrà disposta la immediata liberazione dell’arrestato e, nel corso del giudizio di convalida a piede libero, sollevata eccezione di illegittimità costituzionale.