1. Secondo notizie diffuse dai notiziari RAI di martedì 23 marzo la magistratura, piuttosto che occuparsi dell’omissione di soccorso “subita” dai naufraghi abbandonati per sei giorni nelle acque internazionali del Canale di Sicilia, starebbe indagando sulle prime telefonate di richiesta di soccorso, riferite dai mezzi di informazione, secondo le quali a bordo del barcone si sarebbero trovati alcuni cadaveri. Cadaveri che non sono stati trovati al momento dell’intervento di salvataggio. Come peraltro è sempre avvenuto in passato, quando i migranti sono stati costretti a gettare in mare i corpi dei loro compagni che non erano riusciti a sopravvivere.
Fin dai primi giorni, i mezzi di informazione non hanno riferito tanto le condizioni tragiche dei naufraghi soccorsi in mare dopo il solito balletto di competenze tra Italia e Malta, né hanno ricollegato lo stato di gravidanza delle donne alle violenze sistematiche che queste subiscono in Libia , ma hanno orientato l’attenzione dell’opinione pubblica sulla circostanza che a bordo non si sarebbero trovati cadaveri.
Come se le azioni di salvataggio in mare fossero doverose solo in presenza di cadaveri a bordo dei barconi della speranza. Altrimenti, forse, chissà quale pericoloso precedente, in contrasto con la politica italiana dei respingimenti collettivi in mare, avrebbero potuto costituire quelle 60 persone, sopravvissute a stento dopo sei giorni di abbandono a mare, che i mezzi militari italiani sono stati costretti a portare in diversi porti siciliani, forse per farli notare il meno possibile, prima incrinatura forse dopo il “successo storico” della chiusura della rotta dalla Libia.
Dai primi interrogatori dei naufraghi emergerebbe addirittura che a bordo del barcone i cadaveri non ci sarebbero mai stati. Tanto sembra bastare per criminalizzare chi è stato costretto a fuggire dalla Libia, probabilmente sotto il controllo della stessa polizia libica, che in questi mesi non sa cosa fare dei numerosi profughi somali bloccati i quel paese. Dopo gli accordi operativi di respingimento collettivo con Malta e con l’Italia, le trattative sulle procedure di trasferimento protetto in Europa (resettlement) di coloro che possono essere riconosciuti come rifugiati, finora appena qualche decina, sono bloccate e malgrado i cospicui finanziamenti italiani e comunitari non è possibile effettuare espulsioni verso la Somalia, per la mancanza di una autorità centrale che identifichi i migranti e fornisca i mezzi per il trasporto ed i documenti di viaggio.
Mentre si dubita di quanto riferito dai naufraghi salvati a sud di Lampedusa, che avrebero riferito dei cadaveri “ per accelerare le operazioni di soccorso”, dopo sei giorni trascorsi in mare, e si dubita persino di coloro che hanno raccolto le prime richieste di soccorso, si continuano a coprire le menzogne diffuse ancora una volta sulle circostanze dell’azione di salvataggio e sulle regole del diritto internazionale del mare. Anche se il barcone si trovava da giorni nella zona SAR (ricerca e salvataggio di competenza di Malta) non si può certo dire che le acque territoriali maltesi arrivino fino a 23 miglia di Lampedusa, e tocca alle autorità militari che intervengono per prime in acque internazionali, come in questo caso quelle italiane, seppure sotto il coordinamento maltese, condurre i naufraghi in un porto sicuro (place of safety). I dissidi con Malta potranno continuare all’infinito, ed intanto le persone continueranno a morire fino a quando anche Malta non ratificherà, come ha fatto da tempo l’Italia, gli ultimi emendamenti alle Convenzioni SAR sul soccorso in mare.
Si indaga adesso sulle dichiarazioni dei naufraghi subito dopo il loro sbarco, mentre passano per buone le dichiarazioni dei governi che deformano quanto previsto dal diritto internazionale in ordine alle competenze di salvataggio.
Non sono bastate evidentemente le sentenze del tribunale di Agrigento nel caso della nave tedesca Cap Anamur e poi, seppure parzialmente, nel caso dei pescatori tunisini che nel 2007 avevano salvato altri naufraghi. In entrambi i casi sono state accertate dal tribunale le montature che le autorità di polizia avevano imbastito per criminalizzare gli interventi umanitari, ed è ancora da definire a Palermo il processo di appello contro i due comandanti dei pescherecci tunisini che per salvare la vita dei naufraghi avrebbero “disobbedito” ad un repentino mutamento degli ordini impartiti ( a gesti) dalle autorità italiane. Ordini modificati all’ultimo momento su direttiva del ministero dell’interno.
2. La magistratura è sottoposta in questo campo a pressioni sempre più forti da parte delle autorità politiche. Lo scorso anno un articolo del Giornale, prontamente ripreso da un comunicato dell’Ufficio Stampa e comunicazione del Ministero dell’interno, riproponeva un grossolano attacco ai magistrati che stavano indagando sui respingimenti collettivi verso la Libia, accusando espressamente il procuratore capo di Siracusa di indagare i militari della Guardia di finanza, soltanto “per aver fatto il proprio dovere”, ”riaccompagnando” verso un porto libico un barcone carico di “migranti” (anche noi usiamo un linguaggio da Caritas, come viene definito questo termine nello stesso articolo), un mezzo in procinto di affondare che era stato intercettato e bloccato lo scorso agosto nelle acque internazionali del Canale di Sicilia.
Nel tentativo di screditare l’indagine della Procura di Siracusa che indagava sulle modalità con le quali i militari italiani avrebbero effettuato il trasferimento dei migranti in un porto libico, si giungeva ad affermare che i magistrati avrebbero effettuato addirittura una indagine ipotizzando il reato di violenza, aggravata dalla circostanza di essere stata commessa da un pubblico ufficiale, solo perché i militari imbarcati a bordo della motovedetta “Denaro” avrebbero applicato la legge e dato esecuzione agli accordi esistenti con la Libia.
Secondo l’articolista del Giornale, “la riconsegna, come tecnicamente si chiama è avvenuta tra il 30 ed il 31 agosto del 2008”. E qui sta il primo grossolano errore perché nessun accordo tra Italia e Libia, almeno quelli noti ed approvati dal Parlamento, fa riferimento alla “riconsegna” di migranti da parte dei militari italiani alle autorità libiche, a meno che il giornalista non fosse stato a conoscenza di accordi operativi, ancora segreti, negoziati a Tripoli dal ministro Maroni il 4 febbraio del 2009, proprio all’indomani dell’approvazione da parte del Parlamento del Trattato di amicizia italo-libico, sottoscritto nell’agosto del 2008 da Berlusconi con Gheddafi.
Lo stesso termine “riconsegna” ricorda le “extraordinary renditions” con le quali molti sospetti terroristi sono stati condotti a Guantanamo o in altri luoghi di tortura. Oggi le riconsegne “ordinarie” si utilizzano per respingere collettivamente i migranti in fuga dalla Libia, anche quando si tratta di richiedenti asilo, di donne, di minori. Ma anche se gli accordi segreti conclusi da Maroni con i libici arrivassero a prevedere una “riconsegna” diretta dei miganti dalle autorità italiane a quelle libiche, questa “ordinary rendition” resterebbe comunque priva di basi giuridiche, sia alla luce del diritto interno, che alla stregua del diritto internazionale e comunitario.
La Libia non ha mai firmato la Convenzione di Ginevra che protegge i rifugiati, non riconosce il diritto di asilo, pratica trattamenti inumani e degradanti ai danni dei migranti irregolari, consente abusi sistematici sulle donne, ed è luogo dove comandano forze di polizia corrotte e violente, adesso sembrerebbe con il supporto operativo dei nostri ufficiali di collegamento, incaricati, in base agli accordi, di compiti di formazione e di raccordo operativo.
Non si tratta di posizioni ideologiche o di semplici illazioni giornalistiche, ma questi dati emergono dai risultati di documentate indagini condotte tra mille difficoltà da diverse agenzie che tutelano i diritti umani come Human Rights Watch, che nel suo ultimo rapporto del 2009 sulla Libia ha descritto un quadro allucinante di violenze e di collusioni.
I protocolli allegati alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, ed adesso anche la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea vietano peraltro i respingimenti collettivi, come quelli realizzati sistematicamente la scorsa estate dai mezzi della Marina e della Guardia di finanza. Recentemente la Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha chiesto chiarimenti al’Italia sui respingimenti collettivi effettuati dalla nostra Marina militare verso la Libia il 7 maggio di quest’anno, per i quali è pendente un ricorso, e dopo un esposto dell’ASGI e di altre associazioni, anche la Commissione Europea sta valutando il comportamento delle forze di polizia impegnate nel pattugliamento congiunto ( in collaborazione con le autorità maltesi e libiche) del Canale di Sicilia. Una misura che, se ha ridotto drasticamente gli arrivi a Lampedusa e nel resto della Sicilia, ha avuto come conseguenza un consistente aumento in termini percentuali delle vittime a mare, il dilagare delle detenzioni arbitrarie in Libia, ed un ulteriore incremento delle deportazioni che la Libia, con i finanziamenti europei e comunitari, ha potuto eseguire verso i paesi di origine nei quali molti migranti hanno trovato altro carcere ed altre torture. E si trattava, nella maggior parte dei casi, di persone che se fossero giunte in territorio italiano avrebbero potuto presentare una istanza di asilo o di protezione internazionale.
Le pratiche di respingimento sommario da parte della polizia, al di là della ambigua formulazione dell’art. 10 del T.U. sull’immigrazione del 1998, che pure ammette l’ingresso nel territorio nazionale per ragioni di soccorso, violano – come si vedrà meglio più avanti – diverse disposizioni della Convenzione di New York sui diritti dell’infanzia del 1989, delle Direttive comunitarie in materia di accoglienza (2003/9/CE), di qualifiche (2004/83/CE) e di procedure di asilo( 2005/85/CE) relative ai richiedenti protezione internazionale, il Regolamento delle frontiere Schengen del 2006, oltre che le disposizioni interne di attuazione. In tutti questi atti assume rilievo centrale la tutela dei diritti fondamentali delle persone ed il riconoscimento del diritto di chiedere asilo o altra forma di protezione internazionale.
Appare dunque fondata dunque la valutazione del procuratore capo di Siracusa secondo il quale «il comandante doveva riportare gli immigrati in un porto italiano dove c’è la apposita commissione che valuta chi ha diritto e chi ha diritto a chiedere asilo». Vorremmo solo sapere adesso che fine ha fatto quell’indagine,o se si è chiusa con l’ennesima archiviazione. Evidentemente nel governo non si ritiene necessario applicare la normativa comunitaria in materia di asilo e di controllo delle frontiere esterne, e anche le Convenzioni internazionali vengono valutate come un “grimaldello” per scardinare la normativa e gli accordi operativi in materia di contrasto dell’immigrazione irregolare, al punto che il sottosegretario all’interno Mantovano, sempre lo scorso anno, rincarava la dose affermando che: “c’è una parte della magistratura che interpreta il suo ruolo come alternativo rispetto alla politica del governo in materia d’immigrazione: siamo all’attivo boicottaggio di una legge votata dal Parlamento”.
Lo scontro tra il governo ed una parte della magistratura sembra dunque riproporsi anche in questo campo.
Dà soprattutto fastidio a questo governo, ed ai suoi giornalisti supporter, che una parte dei giudici non seguano le ricostruzioni contenute nelle informative di polizia, e osino addirittura mettere sotto inchiesta i comportamenti seguiti dalle stesse forze di polizia nelle attività di contrasto dell’immigrazione irregolare. Sembrano ben visti, invece, quei giudici che si limitano a svolgere in modo burocratico la loro attività, limitandosi a trascrivere quanto proposto nei verbali di polizia, magari senza neppure garantire che i destinatari dei provvedimenti abbiano garantito il diritto alla comprensione linguistica anche nel corso dei primi interrogatori.
3. L’esternalizzazione dei controlli di frontiera, che assume adesso una dimensione effettiva dopo gli accordi ed i protocolli operativi stipulati dall’Italia con la Libia, la Tunisia e l’Algeria, la chiusura di tutte le vie di accesso per i potenziali richiedenti asilo con i respingimenti collettivi in mare ed alle frontiere marittime, come nei porti di Venezia, Ancona, Bari e Brindisi e le retate operate con “pattuglie miste” delle polizie presenti nei paesi di transito, come la Libia e la Grecia, ai danni dei migranti irregolari, spesso donne e minori, o altri potenziali richiedenti asilo, stanno aggravando gli effetti devastanti delle politiche proibizioniste adottate da tutti i paesi europei nei confronti dei migranti in fuga dalle guerre, dai conflitti interni e dalla devastazione economica ed ambientale dei loro paesi.
Le responsabilità di questo imbarbarimento delle regole, nella “guerra all’immigrazione illegale” che coinvolge adesso anche i potenziali richiedenti asilo, sono molteplici e vengono da lontano, a partire dalle scelte proibizioniste dei paesi che negano ai migranti qualsiasi possibilità di accesso legale, dalla creazione dell’agenzia per il controllo delle frontiere esterne europee FRONTEX nel 2004, dalla incapacità dell’Europa di darsi una politica comune dell’asilo, malgrado la produzione alluvionale di Direttive e Regolamenti, limitandosi a legittimare la cd. “cooperazione operativa” tra i vari paesi, una cooperazione operativa che copre gli abusi della polizie di frontiera e rende impossibile fare valere i più elementari diritti di difesa.
A livello mediatico, anche in questi ultimi giorni si va crando un pericoloso senso comune contrario agli immigrati e persino ai richiedenti asilo, trattati come questuanti che ricorrono a sotterfugi per garantirsi un ingresso nel territorio italiano, anche a costo di parlare di cadaveri che forse non sono mai esistiti. . Bastano pochi termini fumosi in una intervista televisiva o in un comunicato ministeriale ripreso acriticamente dai mezzi di informazione, per rassicurare l’opinione pubblica e camuffare la continua involuzione delle diverse forme di contrasto dell’immigrazione irregolare verso la negazione sostanziale dei più elementari diritti fondamentali della persona. Il caso dei rapporti tra Italia e Libia è, anche da questo punto di vista, emblematico.
4. Nel mese di maggio del 2009 il presidente del consiglio definiva i respingimenti collettivi verso la Libia un “atto di grande umanità”, aggiungendo che per chi fuggiva da guerre e persecuzioni sarebbe stato possibile “rivolgersi all’agenzia Onu per dimostrare la loro situazione e, in caso, ottenere il diritto di asilo”. Ma l’ONU non ha offerto alcuna copertura al governo italiano ed ha denunciato a più riprese l’ arbitrarietà dei respingimenti, al punto che suoi rappresentanti, come Laura Boldrini, sono stati attaccati e minacciati da diversi esponenti del centro-destra. Un attacco “ad personam” che non ha risparmiato neppure Thomas Hammarberg, Commissario ai diritti umani del Consiglio d’Europa, “reo” di avere denunciato la sistematica disapplicazione delle decisioni della Corte Europea per i diritti umani da parte dell’Italia e la prassi illegale dei respingimenti collettivi praticati dalle autorità militari su disposizione del ministro dell’interno.
Secondo quanto dichiarato da Berlusconi nei primi giorni successivi all’avvio dei respingimenti concordati da Maroni con i libici, “se qualcuno è entrato nel nostro territorio, nelle acque territoriali, noi verifichiamo se ha il diritto di restare perché in condizione di chiedere asilo nel nostro Paese. Verifichiamo il suo diritto d’asilo, se proviene da situazioni di pericolo, mancanza di libertà o altro. Se però questi barconi, che sono purtroppo gestiti da organizzazioni criminali che si fanno pagare, che trasportano anche schiave, portate da noi per essere avviate alla prostituzione, se questi barconi noi li fermiamo prima delle acque territoriali, dando tutto l’aiuto e soccorso necessario non solo per salvargli la vita ma perché stiano bene, abbiano acqua, viveri, cure mediche, noi li scortiamo fino al punto d’imbarco e là, lo abbiamo fatto adesso per la Libia, ci sono per esempio le Agenzie delle Nazioni Unite che possono verificare lì, in loco, se hanno diritto all’asilo“.
In successivi interventi televisivi lo stesso Berlusconi ha affermato che nel caso degli interventi operati dalle unità militari italiane nelle acque internazionali del canale di Sicilia non si trattava di respingimenti vietati dalle convenzioni internazionali, in quanto, a suo avviso, i mezzi della marina militare e della guardia di finanza “affiancano” le imbarcazioni cariche di migranti per ricondurle verso le acque libiche dove vengono presi in consegna dalla polizia di Gheddafi. Dopo le proteste suscitate dalla riconsegna diretta dei migranti da parte delle unità militari italiane entrate in un porto libico, si instaurava dunque una pratica più “discreta” che contemplava il trasbordo in alto mare in modo da evitare fotografi ed altri scomodi testimoni. Restavano soltanto alcuni migranti, sepolti in un carcere libico, che avrebbero potuto testimoniare sulle violenze subite nelle operazioni di “ordinary rendition” ai libici.
Secondo il governo italiano questa attività di “contrasto dell’immigrazione illegale” svolta nelle acque del Canale di Sicilia avrebbe avuto un risvolto “umanitario”, contenendo il numero delle vittime, oltre che riducendo in modo consistente il numero degli sbarchi.
In realtà si nasconde all’opinione pubblica quanto avviene nelle acque internazionali e si ignorano le vittime delle violenze della polizia, oltre che dei trafficanti libici.
Numerosi rapporti internazionali e documenti video, e di recente le stesse testimonianze delle vittime, confermano che dopo la entrata in vigore degli accordi di respingimento tra Italia e Libia la condizioni dei migranti in transito in quel paese sono peggiorate e molti di loro finiscono sempre più spesso in veri e propri lager.
Malgrado la presenza di organizzazioni umanitarie e la ristrutturazione di alcune carceri, ad uso e consumo delle ispezioni internazionali, in Libia la situazione degli immigrati in transito è sempre peggiore, alcuni centri di detenzione come quello di Kufra sono ancora off-limits, nel carcere di Bengasi sono stati uccisi alcuni somali che tentavano di fuggire, molti altri sono stati feriti o torturati, e continua la collusione tra le forze di polizia ed i trafficanti. Soltanto chi paga riesce a sottrarsi alle sevizie dei secondini che comandano nei centri di detenzione, abusano delle donne e si fanno pagare per lasciare fuggire qualcuno, e questo avviene probabilmente anche in quelle carceri visitate periodicamente da organizzazioni internazionali e da ufficiali di collegamento.
Maroni e Frattini hanno sempre negato la fondatezza delle critiche rivolte ai respingimenti collettivi da parte dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, della Chiesa cattolica, di autorevoli rappresentanti della Commissione Europea, da ultimo dall’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani. Per tutti i critici, piuttosto che repliche basate sulle norme e sui fatti, soltanto minacce e insulti, oppure mistificazione del contenuto delle convenzioni internazionali e travisamento dei fatti. E anche tanta disinformazione, come quando il ministro degli esteri sostiene che l’Italia ha effettuato il maggior numero di salvataggi a mare, tra i paesi europei, prendendo in esame il periodo 2007-2009. Un ulteriore elemento di confusione perché nelle statistiche diffuse da Frattini si considerano anche i migranti salvati dalla marina italiana e condotti a Lampedusa negli anni (2007 e 2008) in cui non si effettuavano respingimenti in Libia ( salvo rare eccezioni) e le regole di ingaggio delle nostre unità militari, decise dal governo Prodi, erano considerate come un esempio positivo a livello europeo. Lo stesso prefetto Morcone, alto esponente del ministero dell’interno, in un convegno internazionale a Bruxelles alla fine del 2007, parlava del “modello Lampedusa” come di un esempio positivo da seguire anche a livello europeo.
5. Dal mese di gennaio del 2009, soprattutto per l’attivismo di Maroni che si è recato in Libia per “perfezionare” i precedenti accordi bilaterali sottoscritti da Amato, in particolare dopo la missione del 4 febbraio 2009, se sono diminuiti gli arrivi in Sicilia e a Lampedusa, sono aumentate le vittime, non più solo in mare, ma anche nelle carceri e nei deserti della Libia. E tutto in un clima da segreto militare, perché mentre i protocolli di Amato del 2007 erano noti, gli ultimi accordi stipulati a Tripoli tra Maroni ed i libici nel febbraio dello scorso anno rimangono segreti. Sarebbe tempo che il Parlamento, che il giorno prima ha votato “alla cieca” la ratifica del Trattato di amicizia con la Libia, decida la istituzione di una commissione di inchiesta sulle modalità di attuazione di quegli accordi, e dunque sui respingimenti collettivi.
L’attuazione concreta degli accordi tra Italia e Libia sembra destinata ad una continua mutazione, anche per il mutare delle circostanze atmosferiche o dei rapporti politici, mentre tarda a decollare il confronto tra L’Unione Europea e Gheddafi per la stipula di un accordo di cooperazione nella “guerra” all’immigrazione illegale, una guerra che appare oggi rivolta soprattutto a coloro che sono vittima del traffico che si vorrebbe contrastare.
Alle procedure di respingimento collettivo ed immediato verso le coste africane, con il coinvolgimento attivo delle unità militari italiane e maltesi, come si è fatto per tutta l’estate, si preferisce adesso delegare alle navi militari libiche il compito di effettuare il blocco e la deportazione dei migranti che sono scoperti in acque internazionali, o ai limiti delle acque territoriali libiche, mentre tentano di raggiungere l’Italia.
Le mutate e più severe condizioni meteo impediscono le “operazioni lampo” realizzate dalla Guardia di finanza di stanza a Lampedusa, che nei mesi estivi, in poche ore, anche su segnalazione delle unità Frontex, intercettava le imbarcazioni cariche di migranti ai limiti delle acque internazionali e le “restituiva” ai libici, con trasbordi in mare spesso violenti e in violazione del divieto di espulsioni collettive. Con le cattive condizioni meteo dei mesi invernali, in otto-dieci ore non è facile arrivare al limite delle acque libiche, respingere i migranti e rientrare a Lampedusa, come è stato possibile durante l’estate quando il mare era calmo. E l’autonomia dei mezzi veloci della Guardia di Finanza non consente più quel pattugliamento in alto mare che nel 2008 ha permesso ai mezzi della marina militare di salvare migliaia di vite. Ma oggi quegli stessi mezzi sono stati ritirati, per decisione politica, molto più a nord a “difendere” le coste di Lampedusa e della Sicilia meridionale, e vi è stato anche un avvicendamento negli uomini che dirigevano gli interventi di salvataggio.
Forse si sono accesi troppi riflettori sulle prassi di “cooperazione pratica” tra le polizie italiane, maltesi e libiche, dopo che la Commissione Europea ha chiesto informazioni all’Italia proprio sui respingimenti collettivi, dopo che le Procure di Agrigento e Siracusa hanno aperto indagini penali iscrivendo nel registro degli indagati alti esponenti della Guardia di finanza, dopo che la Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha continuato a ricevere gli esposti di quanti sono stati deportati in Libia.
6. Quanto avviene nelle acque del Canale di Sicilia dal mese di maggio dello scorso anno contrasta con la normativa interna in materia di regole di ingaggio delle unità navali preposte al contrasto dell’immigrazione irregolare. Il decreto del Ministro dell’interno 19 giugno 2003 (Misure su attività di contrasto dell’immigrazione illegale via mare), emanato in attuazione dell’art. 12, comma 9-quinquies T.U., introdotto dalla legge n. 189/2002, consente attività di pattugliamento di unità navali italiane anche al fine di rinviare imbarcazioni prive di bandiera nei porti di provenienza (non in qualsiasi porto), ma rispettando ben determinate procedure e comunque, in ogni caso, tutte le attività devono essere improntate “alla salvaguardia della vita umana ed al rispetto della dignità della persona” (art. 7), oltre al limite, invalicabile, del rispetto dei diritti umani nei termini ben definiti dal diritto nazionale, comunitario ed internazionale.
Se i migranti in navigazione si trovino in stato di pericolo ogni nave italiana ha il dovere di soccorrerli e di trasbordarli su altre unità navali italiane; infatti in base alla Convenzione internazionale sulla ricerca ed il salvataggio marittimo, adottata ad Amburgo il 27 aprile 1979 (Marittime Search and Rescue Sar), a cui l’Italia ha aderito e ha dato esecuzione con legge 3 aprile 1989, n. 147, ogni nave italiana è obbligata a procedere alle operazioni di soccorso ai naufraghi e, nel caso verifichi lo stato di pericolo delle imbarcazioni dei migranti, ha l’obbligo di portarli in porto sicuro e dunque in Italia, essendo il luogo in cui le navi italiane sono autorizzate ad attraccare e dove gli stranieri possono essere protetti da gravi violazioni dei diritti umani.
Dove potrebbero anche presentare una domanda di asilo politico e di protezione internazionale; anche quando una nave militare o in servizio di polizia prende misure di ispezione o controllo nei confronti di un’imbarcazione che è sospettata di trasportare migranti in condizioni irregolari ha comunque l’obbligo di assicurare l’incolumità e il trattamento umano delle persone a bordo e l’applicazione del principio di non allontanamento e le altre norme della convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati (così prevedono gli artt. 9 e 19 del Protocollo addizionale per combattere il traffico di migranti via terra, via mare e via aria della Convenzione contro il crimine organizzato transnazionale, adottati dall’Assemblea generale il 15 novembre 2000 ed il 31 maggio 2001, ratificati e resi esecutivi con legge 16 marzo 2006, n. 146.
I respingimenti collettivi verso la Libia, anche nella versione più recente camuffata da omissione di soccorso e richieste di intervento delle unità militari libiche, contrastano con la normativa comunitaria. L’art. 12 del Codice comunitario delle frontiere Schengen prevede che le autorità di polizia possano bloccare i migranti che tentano di entrare nel territorio di uno stato Schengen, ma secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia questo potere non può essere esercitato in contrasto con i diritti fondamentali della persona umana, tra i quali va annoverato il diritto di chiedere asilo ed il diritto a non subire respingimenti collettivi. Chiunque venga raccolto a bordo di una unità battente bandiera italiana in attività di controllo delle frontiere marittime, si trova in territorio italiano e se fa richiesta di asilo, o se si tratta di un minore, non può essere riconsegnato alle autorità di un paese terzo come la Libia, soprattutto quando non può essere stabilita la esatta provenienza delle persone raccolte in mare. Chi contravviene queste regole viola il diritto internazionale e questa stessa violazione andrebbe sanzionata anche dal giudice penale italiano quanto meno come abuso di ufficio, se non come omissione di soccorso o vero e proprio sequestro di persona. Sono forse queste le ragioni per le quali per giorni si è negato un intervento di assistenza, affidando ad una petroliera il compito di “spianare” il mare in burrasca, a lato del barcone carico di migranti, ed adesso si affida ai libici il “lavoro sporco” di effettuare concretamente la deportazione. Il principio di non refoulement ( non respingimento), sancito oltre che dalla Convenzione a salvaguardia dei diritti dell’Uomo (CEDU) e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, dalla Convenzione di Ginevra del 1951, vale anche in acque internazionali, come è ribadito nelle linee guida dell’ACNUR, ed anche quando c’è il rischio che le persone respinte verso un paese terzo come la Libia siano successivamente deportate verso i paesi di origine nei quali possono subire arresti arbitrari, torture o altri trattamenti disumani o degradanti.
Il commissario Barrot nella lettera al governo italiano del 15 luglio 2009 sottolineava ancora che “la giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell’uomo indica che gli atti eseguiti in alto mare da una nave di Stato costituiscono un caso di competenza extraterritoriale e possono impegnare la responsabilità dello Stato interessato“.
Appare evidente come ormai le autorità italiane e maltesi non si “sporchino” più le mani con i respingimenti collettivi, per i quali sono aperti procedimenti penali davanti ai tribunali italiani ed alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, ma preferiscano delegare al mare, o ai libici, il compito di arrestare la fuga dei migranti verso l’Europa. Anche nel caso dell’eventuale riconduzione in un porto libico la sorte di queste persone appare segnata, perché, come si è verificato negli ultimi tempi in casi analoghi, si tratterà di migranti che non appena sbarcati in Libia saranno rinchiusi per mesi nei centri di detenzione ancora vittime di abusi di ogni genere. Abusi la cui responsabilità incombe direttamente su quei governi europei che hanno concluso accordi con la Libia, ed adesso anche sulla Commissione Europea e sul Consiglio dell’Unione Europeo che vorrebbero intensificare i rapporti di collaborazione tra l’agenzia per il controllo delle frontiere esterne (FRONTEX) ed il governo libico.
7. L’UNHCR ha ripetutamente espresso forte preoccupazione al Governo italiano per gli avvenimenti sopra riportati ritenendo che le operazioni messe in atto dal Governo italiano siano «in contrasto con il principio del non respingimento sancito dalla Convenzione di Ginevra del 1951, che trova applicazione anche in acque internazionali. Questo fondamentale principio, che non conosce limitazione geografica, è contenuto anche nella normativa europea e nell’ordinamento giuridico italiano. Confermando che fra coloro che sono stati rinviati in Libia vi sono persone bisognose di protezione, l’UNHCR ha reiterato la richiesta al governo affinché riammetta queste persone sul proprio territorio sottolineando che, dal punto di vista del diritto internazionale, l’Italia è responsabile per le conseguenze del respingimento» [UNHCR – comunicato stampa 15 maggio 09].
Come ricorda l’ASGI nel suo esposto denuncia, «la Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, la Convenzione ONU contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, il Patto internazionale sui diritti civili e politici proibiscono il respingimento, diretto o indiretto, di richiedenti asilo. Tale obbligo deve essere rispettato da tutte le autorità che svolgono attività di controllo alle frontiere, di prevenzione e di contrasto all’immigrazione clandestina, anche se svolte in ambito extraterritoriale».
Ogni persona intercettata e salvata in mare deve essere condotta in un «luogo sicuro» che deve essere interpretato non solo in conformità al diritto internazionale marittimo ma anche al diritto umanitario e dei rifugiati. Anche in presenza di accordi con i paesi terzi ai quali vengono rinviati gli immigrati , gli Stati di invio non sono esentati dal rispettare gli obblighi assunti in ambito internazionale, e si rendono corresponsabili di eventuali violazioni perpetrate nei confronti delle persone respinte.
Con i respingimenti verso la Libia da parte della marina militare e della guardia di finanza sono state violate le Convenzioni del diritto del mare e gli aggiornamenti più recenti sottoscritti dall’Italia, ma non dal governo maltese, al quale pure si riconosce la responsabilità di coordinamento delle azioni di salvataggio nelle acque internazionali del Canale di Sicilia. Un vero e proprio trucco, un gioco delle parti tra il governo maltese e quello italiano, per evitare gravissime responsabilità internazionali, ma anche l’esito politico-diplomatico di una contraddizione esplosa nei suoi risvolti più tragici nel caso della nave PINAR , una sottile questione diplomatica che consente di delegare le principali responsabilità delle azioni di salvataggio ad un governo, quello maltese, che non riconosce gli aggiornamenti più recenti delle convenzioni internazionali a salvaguardia della vita umana in mare. Tanto alla fine, il «lavoro sporco» di respingimento in Libia lo fa la marina militare o la guardia di finanza italiane. E su questo Malta plaude. Ma l’Italia, almeno, non può sottrarsi agli obblighi di salvataggio e di accoglienza che le derivano dalle Convenzioni internazionali, se non dalle leggi interne e dalla Costituzione repubblicana.
8. Come si rileva nella denuncia dell’ASGI, «dal primo luglio 2006 le Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare del maggio 2004, sicuramente vincolanti almeno per l’Italia», stabiliscono che «il Governo responsabile per la regione SAR in cui sono stati recuperati i sopravvissuti è responsabile di fornire un luogo sicuro o di assicurare che tale luogo venga fornito» e definiscono tale luogo come «una località dove le operazioni di soccorso si considerano concluse e dove la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non è minacciata; dove le necessità umane primarie [cibo, alloggio, servizi medici] possono essere soddisfatte e possa essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale».
Le Linee guida del 2004, quindi, chiariscono che la nave che presta soccorso costituisce temporaneamente un luogo sicuro, ma che essa dovrebbe essere sollevata da tale responsabilità non appena possano essere intraprese soluzioni alternative. Tali linee guida sottolineano la necessità di evitare lo sbarco di richiedenti asilo e rifugiati, soccorsi in mare, in quei territori ove la vita e la loro libertà sarebbero minacciate. Per cui per determinare se sia un «luogo sicuro» per i richiedenti asilo occorre effettuare le opportune verifiche tenendo conto delle circostanze particolari di ogni singolo caso. Malta non ha però aderito alle linee guida adducendo chela sua ridotta consistenza territoriale non le consentiva di mantenere gli obblighi di protezione e di accoglienza che ne sarebbero conseguiti.
L’Italia, che ha ratificato i suddetti strumenti internazionali incluso le Linee Guida, dopo aver soccorso i migranti in mare avrebbe dovuto condurli in un luogo sicuro. Tale luogo è da individuare nell’Italia essendo il Paese più vicino e sicuro dove i migranti sarebbero stati protetti da gravi violazioni dei diritti umani e avrebbero potuto, nel caso, accedere alla protezione internazionale in attuazione del diritto italiano, comunitario e internazionale.
Certamente i migranti non potevano, e non possono, essere consegnati alle autorità libiche, sia perché non vi è certezza che da quel Paese provenissero, sia perché il territorio libico non può ritenersi «luogo sicuro», in quanto non ha ratificato la Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati, né le principali Convenzioni in materia di diritti umani, e numerosi sono i rapporti internazionali che denunciano le gravi violazioni dei diritti umani perpetrate nei confronti dei migranti.*
Come già sottolineato dall’ASGI, «le operazioni di intercettazione e di salvataggio e di trasbordo di migranti in acque internazionali su unità navali italiane hanno radicato la giurisdizione italiana ai sensi dell’art. 92 dell’UNCLOS e dell’art. 4 del codice penale italiano e negli stessi termini si esprimono gli artt. 2, 3, 4 del codice della navigazione. Essendo le unità navali «territorio italiano», le autorità italiane erano/sono tenute ad applicare il diritto nazionale, comunitario ed internazionale».
Tenuto conto che la Libia non può essere considerato Paese terzo sicuro, le Autorità italiane devono in ogni caso rispettare l’obbligo del divieto di refoulement di cui all’art. 33 della Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951. La norma ha carattere assoluto ed inderogabile e deve essere applicata sia sul territorio dello Stato parte sia in ambito extraterritoriale.
Tale principio ha ormai travalicato i confini del diritto internazionale dei rifugiati nel quale è nato, ampliando la propria portata a tutto il diritto internazionale dei diritti umani; in tal senso si deve ricordare l’art. 3 1 della Convenzione ONU contro la tortura e altre pene o trattamenti inumani e degradanti che dispone «Nessuno Stato Parte espelle, respinge né estrada una persona verso un altro Stato qualora vi siano serie ragioni di credere che in tale Stato essa rischia di essere sottoposta a tortura».
Anche l’interpretazione dell’art. 7 del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici, data dal Comitato per i Diritti Umani con il General Comment n. 20: Art. 7 [10/03/1992], si muove nella medesima ottica, affermando al par. 9 che «Gli Stati parte non devono esporre gli individui al pericolo di tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti al ritorno in un altro Paese, a seguito della loro estradizione, espulsione o refoulement».
Si evidenzia come, a livello regionale, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con orientamento ormai costante, ha ravvisato, nel caso di rinvio di persone verso Paesi ove sarebbero esposte al rischio reale di subire torture o trattamenti disumani o degradanti, una violazione dell’art. 3 della CEDU si vedano, tra le altre, le sent. Soering v. UK, Chahal v. UK, Ahmed v. Austria].
Con i respingimenti dei migranti verso la Libia, attuati nel 2009, l’Italia ha violato l’art. 3 Cedu nella misura in cui li ha consegnati alle autorità di un Paese senza verificare e senza avere elementi di esclusione che in quel Paese fossero sottoposti a trattamenti inumani e degradanti e/o a rischio per la loro stessa vita, nonostante la notorietà delle condizioni in cui sono tenuti i migranti in Libia [in transito o lì arrivati come paese di destinazione] nei campi/prigioni e da dove spesso sono fatti partire senza mezzi né risorse verso il deserto, incontro a morte sicura.
Ma nel caso dei respingimenti verso la Libia ricorre una violazione ancora più grave del diritto internazionale. L’art. 4 del Protocollo n. 4 alla Cedu vieta le espulsioni collettive di stranieri.
Nella denuncia presentata dall’Asgi, si rileva che «tale divieto è stato palesemente violato, nonostante l’assenza di formali provvedimenti amministrativi [non] adottati dall’Italia ai sensi dell’art. 10 e dell’art. 13 del D.Lgs. 286/98 come successivamente si evidenzierà». Anche il comportamento materiale dello Stato, infatti, va ritenuto rientrante nell’ambito di applicazione dell’art. 4 del Protocollo n. 4, avendo come effetto concreto il rinvio in massa degli stranieri [secondo il Ministro dell’interno varie centinaia] verso un Paese asserito come di provenienza.
Va ricordato che secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani sono espulsioni collettive tutte quelle misure che obbligano gli stranieri «in quanto gruppo» a lasciare un Paese.
Se il divieto vale per le espulsioni disposte con formale provvedimento amministrativo, non può non valere parimenti quando l’effetto sia raggiunto attraverso un mero comportamento di fatto attuato dalle autorità pubbliche.
L’art. 63 co. 1 del Trattato delle Comunità europee dispone che la legislazione comunitaria adottata dagli Stati membri dell’UE deve essere applicata in conformità alla Convenzione di Ginevra e ad altri trattati internazionali.
9. Con il trasbordo di centinaia di migranti su navi militari italiane e la loro riconsegna alle autorità libiche, nel corso del 2009, l’Italia ha violato il Regolamento CE n. 562/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio del 15 marzo 2006 [che istituisce un Codice comune relativo al regime di attraversamento delle frontiere da parte delle persone] in quanto:
– Al punto n. 7 del Preambolo si stabilisce che «Le verifiche di frontiera dovrebbero essere effettuate nel pieno rispetto della dignità umana. Il controllo di frontiera dovrebbe essere eseguito in modo professionale rispettoso ed essere proporzionato agli obiettivi perseguiti»;
Tanto nei respingimenti effettuati direttamente a Tripoli da parte di unità della marina militare lo scorso maggio, quanto nel caso dei respingimenti effettuati con l’intervento di unità navali della Guardia di finanza, come si osserva nella denuncia presentata dall’ASGI, «non è stata affatto rispettata la dignità dei migranti, consegnati alle autorità libiche nonostante non siano cittadini di quel Paese e nel quale sono certamente sottoposti a trattamenti inumani e degradanti per la sola condizione di migranti irregolari, come è oramai pacificamente accertato in numerosi Rapporti internazionali».
– Al punto 20 del medesimo Preambolo si afferma che «Il presente regolamento rispetta i diritti fondamentali ed osserva i principi riconosciuti, in particolare, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Dovrebbe essere attuato nel rispetto degli obblighi degli Stati membri in materia di protezione internazionale e di non respingimento».
Nel caso dei respingimenti collettivi praticati dall’Italia lo scorso anno non vi è stato rispetto di nessuno dei diritti fondamentali della persona riconosciuti dal diritto comunitario così come dalla Carta europea, in quanto a nessuno dei migranti intercettati e rinviati in Libia è stato consentito l’accesso alla procedura per la protezione internazionale, così come non è stato accertato che in Libia fossero rispettati il diritto alla dignità umana [art. 1], alla integrità della persona [art 2], a non essere sottoposto a tortura o a trattamenti inumani e degradanti [art. 4], alla libertà e alla sicurezza [art. 6], al rispetto delle vita privata e familiare [art. 7], all’asilo politico [art. 18].
– L’art. 3 lettera b) del Regolamento stabilisce che «esso si applica a chiunque attraversi le frontiere interne o esterne di uno Stato membro senza pregiudizio dei diritti dei rifugiati e di coloro che richiedono protezione internazionale in particolare per quanto concerne il non respingimento».
– L’art. 7 del Regol. 562/2006 prevede che «chiunque attraversi la frontiera è sottoposto a una verifica minima che consenta di stabilirne l’identità dietro esibizione dei documenti di viaggio».
Non risulta che nel caso dei respingimenti in acque internazionali le autorità italiane abbiano verificato se e di quali documenti erano in possesso i migranti portati in Libia o se siano stati in altro modo identificati. In questo modo l’Italia ha omesso di compiere le verifiche minime necessarie per conoscere i Paesi di origine dei migranti e dunque per avere elementi di certezza che il rinvio dalla Libia a quei Paesi non avrebbe comportato la violazione dei diritti umani.
– L’art. 13 del Regol. 562/2006 consente agli Stati di respingere gli stranieri che non soddisfino i requisiti per l’ingresso ma si cura di prevedere che «Ciò non pregiudica l’applicazione dei disposizioni particolari relative al diritto d’asilo e alla protezione internazionale» e comunque stabilisce che «Il respingimento può essere disposto solo con un provvedimento motivato che ne indichi le ragioni precise. Il provvedimento è adottato da un’autorità competente secondo la legislazione nazionale ed è di applicazione immediata». Un successivo capoverso precisa, inoltre, che «le persone respinte hanno il diritto di presentare ricorso. I ricorsi sono disciplinati conformemente alla legislazione nazionale».
L’ASGI ricorda, in proposito, «che i Regolamenti comunitari hanno piena efficacia normativa nel territorio dello Stato e ovunque esso eserciti poteri riconducibili alla propria potestà di imperio e alla propria sfera giurisdizionale. L’Italia pur avendo accolto i migranti sulle sue unità navali – considerate «estensioni galleggianti del territorio italiano» – non ha consentito loro di accedere a qualsivoglia procedura per il riconoscimento del diritto di asilo in base ai decreti legislativi di recepimento della normativa comunitaria e dell’art. 10 comma 3 della Costituzione italiana.
Il mancato accesso alla procedura per il riconoscimento della protezione internazionale ha comportato la violazione della Direttiva 2004/83/CE recante norme minime sull’attribuzione ai cittadini di paesi terzi o apolidi della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta.
L’art. 21 paragrafo 1 obbliga gli Stati membri a rispettare il principio di non refoulement in accordo con gli obblighi internazionali.
10. Il ministro Maroni ha affermato in diverse occasioni che i respingimenti collettivi di migranti verso la Libia, posti in essere dall’Italia in concorso con le autorità maltesi e con l’Agenzia europea delle frontiere FRONTEX non costituirebbero altro che l’attuazione di un Protocollo firmato a Tripoli nel 2007 dall’allora ministro dell’Interno, Giuliano Amato. <
Basta leggere il testo dell’accordo firmato da Amato ed il protocollo operativo allegato sottoscritto nella stessa occasione dal capo della polizia Manganelli per verificare, documenti alla mano, che nulla di quanto commesso illecitamente dalle unità militari italiane in occasione dei respingimenti in Libia di migranti intercettati in acque internazionali trova una base giuridica nelle clausole degli accordi del 2007.
I respingimenti collettivi attuati dalle unità militari italiane, in particolare dalla Guardia di Finanza, su ordine del ministero dell’interno, vanno ben oltre le attività di “pattugliamento congiunto” e di formazione del personale di polizia di frontiera, previste dai protocolli sottoscritti a Tripoli nel 2007.
Gli stessi protocolli prevedono espressamente le attività di salvataggio, nel quadro delle convenzioni internazionali, proprio da parte dei mezzi impiegati nel pattugliamento congiunto italo-libico. Non si vede dunque come si possano giustificare i respingimenti collettivi o attribuire esclusivamente a Malta la responsabilità per i casi di omissione di soccorso verificatisi nelle ultime settimane nel canale di Sicilia. Le attività di pattugliamento congiunto, come emerge dai protocolli, non comprendono il respingimento collettivo con il trasbordo dei migranti su unità italiane e la riconsegna alla polizia libica. Su questi fatti, alla luce dei protocolli e degli accordi sottoscritti dall’Italia con la Libia, dovrà indagare la Commissione Europea e la Corte Europea dei diritti dell’Uomo, in attesa che la magistratura italiana prenda atto che gli abusi commessi in acque internazionali da autorità statali, impegnate in attività di contrasto dell’immigrazione ”clandestina”, rientrano nella sua competenza.
Il primo Protocollo firmato a Tripoli nel dicembre del 2007 dall’allora ministro degli interni Amato non fa riferimento alla riconsegna di migranti imbarcati su unità italiane con il trasbordo su unità libiche, o addirittura con l’ingresso in un porto libico (come avvenuto il 7 ed 8 maggio scorso), e anzi richiama espressamente come limite invalicabile il rispetto dei diritti fondamentali della persona sanciti dalle Convenzioni internazionali. Nessuna clausola dei protocolli autorizza la riconsegna in mare ed il trasbordo dei migranti irregolari da unità militari italiane a mezzi della marina militare libica, come si verifica da oltre tre mesi, nelle forme di respingimento collettivo ed indiscriminato.
E sarebbe ancora vano ricercare una base giuridica dei respingimenti collettivi verso la Libia nel “Trattato di amicizia” tra Italia e Libia, firmato nel 2008 da Berlusconi con Gheddafi, nel quale, in materia di contrasto dell’immigrazione irregolare a mare, ci si limita a fare richiamo ai protocolli sottoscritti a Tripoli nel dicembre del 2007 da Amato e da Manganelli.
Nessuna previsione dell’ “Accordo di cooperazione nel campo della lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata, ed al traffico degli stupefacenti e sostanze psicotrope”, sottoscritto tra i due Paesi a Roma il 13.12.2000, al quale si fa riferimento nei protocolli firmati a Tripoli, autorizza la prassi dei respingimenti collettivi, come invece affermato ripetutamente dal Ministro dell’interno italiano agli organi di stampa.
In base all’articolo 2 del Protocollo firmato a Tripoli il 29 dicembre 2007 dal ministro Amato, “l’Italia e la Grande Giamahiria organizzeranno pattugliamenti marittimi con 6 unità navali cedute temporaneamente dall’Italia. I mezzi imbarcheranno equipaggi misti con personale libico e con personale di polizia italiano per l’attività di addestramento, di formazione, di assistenza tecnica all’impiego e manutenzione dei mezzi. Dette unità navali effettueranno le operazioni di controllo, di ricerca e salvataggio nei luoghi di partenza e di transito delle imbarcazioni dedite al trasporto di immigrati clandestini, sia in acque territoriali libiche che internazionali, operando nel rispetto delle Convenzioni internazionali vigenti, secondo le modalità operative che saranno definite dalle competenti autorità dei due Paesi”.
Secondo quanto previsto dall’art. 1 del “Protocollo operativo aggiuntivo” firmato a Tripoli il 29 dicembre del 2007 per l’esecuzione di quanto previsto dal citato Protocollo di Cooperazione, il Governo italiano si impegna a cedere temporaneamente alla Gran Giamahiria n. 6 unità navali della Guardia di Finanza, di cui n. 3 guardacoste classe “Bigliani” e n. 3 vedette classe “V.5000”, per l’esecuzione di attività di pattugliamento marittimo delle acque territoriali libiche e delle prospicienti acque internazionali ai fini della prevenzione e del contrasto dei flussi migratori illegali. 1 predetti mezzi navali saranno ceduti privi di insegne e distintivi e saranno dotati di sistemi di comunicazione idonei a «garantire i collegamenti con mezzi e strutture di comando e/o coordinamento sia libiche che italiane. Per il tempo strettamente necessario alla formazione degli equipaggi libici designati alla successiva attività operativa di pattugliamento, e comunque non oltre 90 giorni dalla data di avvio delle attività addestrative, il Governo italiano si impegna a inviare nella Gran Jiamahiria gli equipaggi completi dei citati mezzi navali. In tal senso, durante tutto l’indicato periodo addestrativo, i predetti mezzi navali effettueranno, con equipaggi misti, crociere esclusivamente non operative. Successivamente ai 90 giorni dalla data di inizio dell’attività formativa, si procederà alla progressiva riduzione del personale italiano imbarcato ed al contestuale avvio di crociere operative. Dalla data di inizio dell’attività di cooperazione, il comando delle unità navali temporaneamente cedute sarà assunto da personale individuato dalla Parte libica, che sarà responsabile della condotta della navigazione e delle iniziative assunte sia nel corso delle crociere addestrative che di quelle operative”.
In base all’art. 2 dello stesso “Protocollo operativo aggiuntivo” firmato a Tripoli nel 2007, “al fine di garantire una efficace direzione e coordinamento delle attività addestrative ed operative di pattugliamento marittimo, le Parti convengono di istituire, presso una idonea struttura che sarà individuata a cura della Parte libica, per l’intera durata del Protocollo di Cooperazione, un Comando Operativo Interforze, con il compito di:
– “disporre l’attuazione quotidiana delle crociere addestrative e di pattugliamento, valutandone, eventualmente, l’annullamento in relazione alle condizioni meteorologiche e meteo-marine presenti nell’area o per qualsiasi altro sopravveniente motivo;
– individuare, se necessario, nell’area di pattugliamento, zone di specifico approfondimento, sulla base degli elementi informativi nel frattempo acquisiti;
– raccogliere, quotidianamente, le informazioni operative acquisite dalle unità operative; impartire le direttive di servizio necessarie in caso di avvistamento e/o fermo di natanti con clandestini a bordo; svolgere compiti di assistenza logistica alle unità impiegate, adottando le iniziative indispensabili per il soccorso delle stesse in caso di necessità; svolgere compiti di punto di contatto con le omologhe strutture italiane.
In tal senso, il citato Comando ha la facoltà di richiedere l’intervento e/o l’ausilio delle unità navali italiane ordinariamente rischierate presso l’isola di Lampedusa per le attività antiimmigrazione”.
Secondo l’ articolo 5 del Protocollo aggiuntivo del 2007, “qualora si raggiungessero accordi con Frontex per considerare l’impegno bilaterale italo-libico nell’ambito dell’azione di contrasto dell’immigrazione clandestina di interesse di tutta l’Unione Europea,saranno in quella sede definiti i necessari accordi per il successivo finanziamento delle operazioni di pattugliamento marittimo condotte congiuntamente dall’Italia e dalla Gran Giamahiria.
11. Undici cittadini somali e tredici cittadini eritrei, raccolti da navi militari italiane in acque maltesi e consegnati lo scorso anno alle autorità libiche, hanno presentato un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo contro l’Italia, denunciando di essere stati vittime di un’espulsione collettiva priva di ogni fondamento legale. Un’espulsione che – sostengono i ricorrenti – è avvenuta senza essere né identificati né ascoltati, e che li avrebbe messi a rischio di torture e maltrattamenti.
La Corte europea dei diritti dell’uomo ha chiesto adesso al governo italiano di fornire tutte le informazioni sul numero di immigrati che ogni mese sbarcano sulle coste della Penisola e quelle sul trattamento che viene riservato in Libia agli immigrati irregolari respinti. Una volta ricevuti dalle autorità italiane i chiarimenti richiesti, la Corte deciderà sull’ammissibilità del ricorso ed eventualmente sul merito. La vicenda risale al maggio 2009. I ricorrenti sostengono di aver fatto parte di un gruppo di circa 200 persone, tra cui bambini e alcune donne incinta, che a bordo di tre imbarcazioni avevano lasciato le coste libiche nel tentativo di raggiungere quelle italiane. Il 6 maggio le imbarcazioni si trovavano a 35 miglia a sud di Lampedusa, in zona sotto controllo maltese, e sono state raggiunte dalle navi della Guardia di Finanza e della Guardia Costiera italiana. I militari italiani dopo averli trasferiti sulle navi, li hanno ricondotti in Libia, dove gli immigrati sono stati consegnati alle autorità locali.
I ricorrenti affermano che durante il viaggio le autorità italiane non li avrebbero informati sulla loro destinazione, né avrebbero effettuato alcuna procedura di identificazione. I 24 cittadini somali ed eritrei sostengono quindi di essere stati oggetto di un’espulsione collettiva atipica e priva di ogni fondamento legale e di non essere stati in grado di contestare davanti alle autorità italiane il loro rinvio in Libia. Sostengono inoltre che, riconducendoli in Libia, le autorità italiane li avrebbero esposti al rischio di essere torturati o maltrattati.
Tutto ciò in violazione della Convenzione europea sui diritti dell’uomo. Nel comunicare il ricorso al governo italiano, la Corte di Strasburgo, oltre a domandare chiarimenti sull’episodio specifico, ha chiesto a Roma di produrre i testi degli accordi firmati con il governo libico il 27 dicembre 2007 e il 4 febbraio 2009, e di spiegare il rapporto che esiste tra le operazioni condotte in base a questi accordi con la Libia e le attività svolte nell’ambito della missione dell’Agenzia europea Frontex.
Inoltre al governo viene chiesto di fornire tutte le informazioni disponibili sul numero di immigrati che arrivano ogni mese sulle coste italiane, in particolare a Lampedusa, ma anche sul trattamento che viene riservato in Libia agli immigrati irregolari respinti. Non sappiamo come e quando queste richieste verranno soddisfatte ma riteniamo assai probabile che il governo italiano, come già successo in altri procedimenti davanti alla Corte Europea dei diritti del’Uomo, continui a negare persino l’evidenza.
12. Il dieci febbraio 2010, a Gaeta, il ministro dell’Interno Roberto Maroni ha stretto la mano all’ambasciatore libico in Italia Hafed Gaddur. L’Italia ha ceduto alla Libia altre tre motovedette per i pattugliamenti anti-immigrazione al largo di Tripoli, dopo le tre consegnate nel maggio 2009. Come riferisce la stampa, “la ricetta dei respingimenti, voluta dal governo Prodi e messa in atto dal governo Berlusconi, ha dato i frutti sperati. Gli sbarchi in Sicilia si sono azzerati negli ultimi mesi. Nel 2009 sono arrivate via mare poco più di 9mila persone a fronte di oltre 36mila giunte l’anno precedente. Dall’inizio dei respingimenti, nel mese di maggio, il numero degli arrivi è calato addirittura del novanta percento. “Abbiamo fermato l’invasione”, recitano tronfi d’orgoglio i manifesti elettorali della Lega. Nessuno però ha ancora detto agli italiani che fine hanno fatto i respinti.
Secondo l’agenzia giornalistica FortressEurope, “molti dei respinti sono stati rimpatriati nei loro paesi. Ma non i rifugiati politici, somali e eritrei, che sono ancora in carcere. I primi si trovano in due campi, a Tripoli e a Gatrun, mille chilometri più a sud, in pieno deserto. Gli eritrei invece sono divisi tra Misratah, Zlitan, Garaboulli e, le donne, Zawiyah. E mentre in Italia si brinda al giro di vite sugli sbarchi, i rifugiati in Libia rischiano l’espulsione. Rischiano sì, perché a differenza dei contadini del Burkina Faso o dei ragazzi delle periferie di Casablanca, per un eritreo o per un somalo il rimpatrio significa arresti e persecuzioni. E in alcuni casi, la vita. La Somalia è in guerra civile dal 1991. E il regime eritreo dal 2001 stringe in una morsa sempre più serrata l’opposizione e l’esercito. La repressione è tale, che recentemente i servizi segreti eritrei sono arrivati addirittura in Libia alla ricerca degli oppositori”.
Come ha riferito FortressEurope nel gennaio 2010 “l’idea iniziale era di organizzare un’espulsione di massa, come fece l’Egitto nel 2008 quando rimpatriò in un mese ottocento eritrei, in gran parte disertori. Così, tra gennaio e febbraio, centinaia di eritrei detenuti in Libia sono stati schedati. Alle iniziali proteste di chi rifiutava di fornire le proprie generalità all’ambasciata, la polizia libica ha risposto con la violenza. Nel campo di Surman gli scontri sono stati particolarmente cruenti. Ma alla fine la diaspora eritrea è riuscita a esercitare una certa pressione sulle organizzazioni internazionali e sulla stampa. E il progetto di rimpatrio si è ridimensionato, assumendo però un carattere ancora più preoccupante.
Secondo Radio Erena, una radio indipendente dell’opposizione eritrea basata a Parigi, tra le centinaia di eritrei detenuti in Libia, il regime ne avrebbe selezionati dodici e li avrebbe espulsi. I fatti risalirebbero al 2 febbraio 2010. Il criterio con cui i dodici sarebbero stati scelti è il ruolo politico che avevano in patria prima della fuga. Tutti infatti erano assunti presso diversi uffici ministeriali e due di loro erano membri dell’aviazione militare eritrea. Radio Erena ha diffuso una lista dei nomi:Nove dei dodici espulsi, sarebbero ancora detenuti in modo arbitrario nel carcere eritreo di Embatkala. Si tratta di: Zigta Tewelde, Asmelash Kidane, Zeraburuk Tsehaye, Zewde Teferi, Yohannes Tekle , Ghebrekidan Tesema, Tilinte Estifanos Halefom, Nebyat Tesfay e Tilinte Tesfagabre Mengstu. Inoltre, Habte Semere e Yonas Ghebremichael, che prima di fuggire dall’Eritrea lavoravano nell’ufficio del presidente Afewerki, sarebbero in queste ore detenuti nella prigione di Ghedem, vicino Massawa. In Eritrea li attendono anni di carcere duro e torture. Ma per gli eritrei rimasti in Libia la situazione non è migliore“.
Come riferisce ancora FortressEurope “nel centro di detenzione di Garabulli sono in centosettanta, rinchiusi insieme a ventiquattro somali, in celle grandi quanto un monolocale, trenta metri quadrati, dove vengono stipate fino a quaranta o cinquanta persone buttate a dormire per terra. Qui gli eritrei sono arrivati il 16 settembre, dal carcere di Ganfuda, a Bengasi, dove nel mese di agosto una rivolta dei detenuti era stata sedata nel sangue dalla polizia libica, con l’uccisione di almeno sei prigionieri somali. Anche qui il 28 dicembre 2009 sono arrivati i formulari dell’ambasciata eritrea per l’identificazione e il rimpatrio. Ma nessuno li ha voluti firmare per paura di essere perseguitato in patria. Sono quasi tutti disertori dell’esercito e in Eritrea rischiano la corte marziale e i campi di lavoro forzato. A fargli cambiare idea sono state le torture della polizia libica. L’11 gennaio li hanno fatti uscire uno a uno, nel corridoio del carcere, riempiendoli di manganellate. Un uomo è stato ammanettato e appeso al muro per i polsi, perché fosse da esempio agli altri. Alla fine hanno riempito i formulari in centoventi, altri cinquanta hanno continuato a rifiutare nonostante i pestaggi. Oggi hanno tutti la stessa paura. Chi ha firmato teme di essere rimpatriato. Chi non lo ha fatto ha paura di essere trasferito in un’altra prigione e di passare anni nelle galere libiche. Gli anni migliori della vita. Magari con una famiglia qui in Italia che li aspetta e che da mesi non ha più loro notizie. Ma non si preoccupino gli italiani. Maroni l’ha detto e ripetuto: “La Libia fa parte dell’Onu e in Libia è presente l’Alto commissariato per i rifugiati della nazione Unite“.
13. La Commissione Europea dovrà fare luce sui rapporti tra le operazione dell’agenzia europea per il controllo delle frontiere FRONTEX e le attività di pattugliamento congiunto e di respingimento collettivo poste in essere dalle autorità italiane, maltesi e libiche. Chiediamo inoltre di conoscere le attività di salvataggio poste in essere nel corso del 2009 dalle unità aero-navali di Frontex nelle acque internazionali e nella zona SAR di competenza della Repubblica maltese, a partire dall’avvio delle missioni gestite dall’Agenzia Europea per il controllo delle frontiere esterne con base a Malta.
Il Parlamento e l’Unione Europea dovranno imporre a Malta il rispetto dei doveri di salvataggio nella zona SAR di sua competenza, stabilendo analogo obbligo per l’Italia quando non vi siano mezzi maltesi pronti ad intervenire. Ove ciò non si verificasse, si dovrebbe adottare a livello internazionale un accordo che ridimensioni la zona SAR che Malta, soprattutto per ragioni economiche ( pedaggi), si è riservata dalla fine della seconda guerra mondiale. Il governo maltese deve accettare gli emendamenti aggiuntivi della Convenzione di Montego Bay del 1982, in vigore dal 2006 ed accettati dall’Italia, secondo i quali sono i governi rivieraschi comunque responsabili delle azioni di salvataggio.
Chiediamo anche che venga superato il Regolamento Dublino 2 che scarica sugli stati esterni dell’Unione Europea la competenza per le domande di protezione internazionale. Malta a differenza dell’Italia, non può accogliere un numero elevato di richiedenti asilo e gli altri paesi europei devono accettare il ritrasferimento (resettlment) sui propri territori di quanti raggiungono quell’isola. Assai diverso il caso dell’Italia che accoglie soltanto un decimo (circa 50.000) dei rifugiati che accoglie la Germania (oltre 500.000). E poi qualcuno lamenta ancora che in Italia si corre il rischio di “invasione” non appena arrivano alcune centinaia di richiedenti asilo.
La magistratura italiana dovrà accertare e sanzionare l’inadempimento degli obblighi di protezione nei confronti delle persone in pericolo di vita a mare, poste in essere dalle autorità maltesi, o durante operazioni di pattugliamento o di salvataggio coordinate dalle stesse autorità nella zona SAR ( Ricerca e soccorso) di competenza della Repubblica maltese. Ma la stessa verifica va avviata nei confronti delle autorità italiane per i respingimenti collettivi praticati su vasta scala fino agli ultimi mesi dello scorso anno.
Auspichiamo che i parlamentari europei, i magistrati, le agenzie umanitarie, i movimenti organizzati, sappiano contrastare questa politica di collaborazione dell’Unione Europea con i regimi dittatoriali dei paesi della sponda sud del mediterraneo, una politica che per contrastare l’immigrazione irregolare cancella i diritti fondamentali della persona umana, a partire dal diritto di asilo. Una politica che agevola oggettivamente le mafie che a parole tutti dichiarano di combattere. Attendiamo anche che finalmente la magistratura italiana e la Corte Europea dei diritti dell’uomo condannino le pratiche congiunte dell’omissione di soccorso e dei respingimenti collettivi. In nome dei principi fondanti lo stato di diritto, della nostra carta costituzionale e delle regole affermate nelle convenzioni e nei trattati internazionali.
Chiediamo alla Commissione Europea di fare luce sui rapporti tra le operazione dell’agenzia europea per il controllo delle frontiere FRONTEX e le attività di pattugliamento congiunto e di respingimento collettivo poste in essere dalle autorità italiane e libiche. Chiediamo inoltre di conoscere le attività di salvataggio poste in essere dalle unità aero-navali di Frontex nelle acque internazionali e nella zona SAR (ricerca e salvataggio) di competenza della Repubblica maltese. Chiediamo dunque chiarezza, per impedire che episodi di salvataggio come quelli verificatisi ancora nei giorni scorsi possano essere spacciati all’opinione pubblica come tentativi strumentali di fare ingresso illegale nel territorio nazionale, per legittimare in questo modo la prassi dei respingimenti collettivi in acque internazionali.
Fulvio Vassallo Paleologo
Università di Palermo