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Venezuela

Battaglia di numeri e guerra di immagini intorno alla “crisi migratoria” venezuelana

Frédéric Lévêque, CNCD-11.11.11* - 17 settembre 2018

Photo credit: Aporrea

traduzione di Laura Di Gennaro

È un vero e proprio scoop quello che ci ha offerto il presidente venezuelano il 3 settembre scorso. In contrasto con la consueta avarizia di dati sui temi sensibili del suo governo, per la prima volta Nicolas Maduro ha reso pubblica una stima del numero di venezuelani emigrati negli ultimi due anni, che si attesta a 600.000. Un dato verificabile, ha assicurato, senza però fornire ulteriori dettagli.

La stima, la prima più o meno ufficiale in un paese in cui le statistiche migratorie non esistono più, contrasta con quella fornita dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM) e dall’Alto Commissariato per i Rifugiati (HCR). Secondo le due organizzazioni, 2,3 milioni di venezuelani vivrebbero all’estero, 7.2% degli abitanti sul totale di 31,8 milioni. Nulla di sconvolgente, quindi: altre diaspore sono relativamente molto più numerose. Quello che più colpisce, in compenso, è rappresentato dalla crescita esponenziale di questa emigrazione, in un lasso di tempo molto breve: 1,6 milioni di persone avrebbero lasciato il paese solo dal 2015 ad oggi. Un’ondata di fughe che ha subito un’accelerazione negli ultimi mesi, e che interessa in modo ineguale svariati paesi della regione.

Il governo venezuelano, di cui si fa portavoce la vicepresidente, ha accusato i funzionari ONU di gonfiare i dati di un “flusso migratorio normale” (sic), per giustificare un “intervento umanitario”, sinonimo di destabilizzazione. Secondo altre fonti, potrebbero essere quasi quattro milioni di persone ad aver lasciato il Paese.

Un paese con una storia di accoglienza

Il Venezuela è teatro di un’emigrazione senza precedenti per la regione, e in particolare per questa nazione caraibica. Paese relativamente democratico dal 1958, risparmiato dall’ondata di dittature militari del Cono sud o dalle guerre che hanno devastato la nazione contigua, la Colombia, o l’America centrale, il Venezuela appariva stabile e prospero grazie alle ricchezze petrolifere. Il fenomeno emigratorio non sembrava interessare questa nazione, riconosciuta come una terra di accoglienza. A partire dagli anni ’30, incoraggiati dai programmi governativi d’importazione di manodopera o accolti come rifugiati, svariati immigrati portoghesi, italiani, spagnoli, cinesi, andini, colombiani sono giunti ad arricchire il paese, in ondate successive.

Il flusso si è invertito… trent’anni fa

Questo quadro storico, ricordato senza sosta dal governo e confermato dall’OIM 1, avrebbe cominciato a mutare a partire dagli anni ’80 2, con la moltiplicazione delle crisi (del debito pubblico, bancaria, il Caracazo, ecc.), momento in cui la IV Repubblica è entrata in agonia, fino all’entrata in carica di Hugo Chavez, nel 1999. Lo scoppio della rivoluzione boliviana e la polarizzazione politica hanno accelerato l’emigrazione, ma il fenomeno è diventato evidente ed è apparso sugli schermi radar della stampa solo con l’aggravamento della crisi economica, a partire dal 2014.

Per cominciare, i ricchi, i “cervelli” e i figli di immigrati

I primi a prendere il largo furono i più fortunati. Con i loro capitali in tasca, sono partiti per la Colombia, la Florida o per i quartieri ricchi di Madrid, seguiti dalle famiglie della classe media e da numerosi profesionales, lavoratori qualificati. Tra questi, i medici – il 30% dei diplomati degli ultimi 40 anni avrebbero lasciato il Paese 3; i numerosi esperti di petrolio che hanno messo le loro competenze a disposizione di altre compagnie nazionali o multinazionali 4, soprattutto in Colombia; e tutti gli accademici che, oggi, lavorano all’estero nel settore horeca, come tassisti o a “pulire bagni”, secondo le parole del presidente Maduro.

Tra i primi a partire anche i figli di immigrati. Grazie alla doppia nazionalità o allo Ius sanguinis (il “diritto del sangue”, in latino) in vigore in alcuni paesi, tra cui l’Italia, i venezuelani figli di spagnoli, portoghesi o italiani sono tornati nella terra natale dei loro genitori. Già nel 2006 il Consolato spagnolo consegnava nel giro di un anno 33.000 passaporti ai discendenti dei 350.000 spagnoli arrivati in Venezuela in seguito alla guerra civile, secondo El País.

Il profilo del migrante si impoverisce

Ma lasciare il Paese in aereo, con un passaporto in regola, un eventuale visto turistico, studentesco o lavorativo, qualche contatto nel paese di arrivo e un punto di arrivo sicuro – per quanto difficile risulti lo sradicamento – è diventato un lusso. Il termine in voga di “balseros del aire”, “boat people dell’aria”, utilizzato per definire i primi emigranti dell’era Chávez/Maduro, non è certamente più attuale.

Molti venezuelani – tra cui vari giovani – sono partiti soli con un obiettivo molto concreto: trovare lavoro in altre latitudini e finanziare la propria famiglia in Venezuela con l’invio di medicinali e dollari, sperando in un eventuale ritorno o in un ricongiungimento familiare una volta stabilizzata la situazione nel paese di accoglienza. Ma l’aggravamento della crisi ha portato ad un fenomeno di massa, obbligando famiglie intere a fuggire per garantirsi una sopravvivenza decente, cure mediche e una scappatoia al mal vivir della società venezuelana.

All’inizio erano i quadri del settore finanziario, poi i tecnici informatici, e ora ricevo sempre più dimissioni di sportellisti e di fattorini”, racconta ad IPS il presidente di una banca privata. Il profilo socioeconomico dei migranti è evoluto, anche se il governo si ostina ad affermare il contrario. Nel marzo scorso veniva reso pubblico che il 12% di nuclei familiari comprendenti emigranti fanno parte della fascia sociale più povera 5. Non avendo i mezzi per comprare biglietti aerei – merce rara in un Paese che ha perso l’80% di sedi sui voli internazionali tra il 2013 e il 2018 -, si mettono in viaggio a piedi o in autobus, con uno zaino in spalla, a volte malati o denutriti, costretti a dormire per strada o nei campi, tra gli sguardi diffidenti di una parte della popolazione locale. I paesi andini sono la loro principale destinazione.

Il passaggio delle “Ande”

La contigua Colombia, con i suoi abbondanti 2.000 km di frontiera comune, è la più gettonata porta d’accesso o punto di passaggio verso altri paesi. Secondo le ultime statistiche di Migración Colombia, 935.593 venezuelani si troverebbero in Colombia, alcuni con un titolo di soggiorno permanente o temporaneo, altri in corso di regolarizzazione, altri ancora in maniera “illegale”.

L’Ecuador è il secondo paese attraversato nel periplo andino dei migranti venezuelani. Secondo il governo, 641.353 cittadini provenienti dal Venezuela sarebbero entrati nel Paese nel corso dei primi 8 mesi dell’anno, ma solo 115.690 avrebbero deciso di restarvi. Le autorità hanno organizzato un corridoio umanitario e messo a disposizione dei bus per trasportare i migranti più a sud, alla frontiera con il Perù.

Il Perù è una delle principali destinazioni finali dei migranti venezuelani. Attestati ad “appena” 100.000 nel dicembre 2017, sono diventati 400.000 otto mesi più tardi. Il picco è stato raggiunto l’11 agosto scorso: 5.100 entrate in un giorno solo! Il paese è diventato allettante dopo la creazione, in gennaio 2017, del permesso temporaneo di soggiorno accordato unicamente ai venezuelani, politica messa in atto dall’ex governo di Pedro Pablo Kuczynski. Il documento permette di lavorare, iscriversi al sistema assicurativo nazionale, avere accesso alla sanità e pagare le imposte.

Più a sud, il Cile è un’altra destinazione battuta, nonostante la distanza che separa Caracas da Santiago (7.800 km). Il paese accoglie moltissimi stranieri da più di dieci anni e conta oggi 5,5% di immigrati tra la popolazione, secondo ABC. Nel 2017, 73.386 venezuelani hanno ricevuto un visto di soggiorno temporaneo. Se ne conterebbero circa 300.000, in Cile.

In tutto il mondo la diaspora venezuelana aumenta: nel nord del Brasile, in Argentina, negli Stati Uniti, in Spagna, a Panama e perfino in Belgio, secondo l’Ufficio immigrazione. In termini relativi, la crescita è imponente: “dal 2018 l’afflusso è ingente, dopo i primi sei mesi del 2018 arriviamo a un tasso di richiedenti asilo quasi equivalente alla totalità dell’anno 2017”. In termini assoluti sembrerebbe ridicola: 144 domande di asilo per il primo semestre 2018. Il candidato alla migrazione che penetra nello spazio Schengen arriva in aereo. Non ha bisogno di visto ma deve, ovviamente, possedere un passaporto, che è ben lungi dall’essere una formalità.

Sans papier… sin dall’inizio

In Venezuela le procedure per l’ottenimento di un documento amministrativo sono una vera e propria odissea, che necessita denaro e una pazienza messa costantemente alla prova. Negli ultimi anni la richiesta di passaporti è cresciuta fortemente, mandando in tilt il SAIME, l’ente pubblico che ne garantisce l’erogazione. Nel 2016, secondo le stime dell’opposizione al governo Maduro, di 1,8 milioni di richieste di passaporto solo 300.000 sono andate a buon fine. Le cause invocate sono svariate: il sistema on-line malfunzionante, la volontà del governo di frenare le partenze o anche la penuria di materiali, come la carta, il cui monopolio di importazione è detenuto dallo Stato. Ad aggravare la situazione, negli ambienti amministrativi si sono sviluppate reti di corruzione. In cambio di somme di denaro che possono raggiungere alcune migliaia di dollari – che non tutti riescono a passare sottobanco – il trattamento di una pratica può essere accelerato e finalizzato. In ottobre 2017, il governo venezuelano ha decretato che i passaporti quinquennali possono essere prolungati di due anni. Un avvallamento implicito della sua inefficacia, anche se sono state evocate ragioni ambientali.

Febbre xenofoba

Melanie Pérez Arias è venezuelana. Su Prodavinci, ricorda la sua xenofobia adolescenziale nei confronti degli “andini”, chiamati spregiativamente “cotorro”. Questo non le ha impedito, qualche anno più tardi, di sposare un migrante peruviano stabilitosi in Venezuela, prima di emigrare in coppia in Perù, dove ha constatato amaramente l’inasprirsi xenofobo contro l’“invasión veneca”. A Lima i portieri del suo condominio, la sua parrucchiera, il suo fruttivendolo e il suo macellaio sono venezuelani. Sono in molti, qui, a cercare un impiego con paghe miserevoli, cosa percepita da una parte della popolazione locale come concorrenza sleale.
Il Venezuela, o piuttosto i venezuelani, costituiscono ormai un tema di attualità locale nei paesi di accoglienza. In un contesto in cui il “nuovo continente” non si distingue più dal “vecchio”, pettegolezzi, alterchi, delitti e fatti di cronaca vengono esacerbati da una certa stampa e da esponenti politici opportunisti per seminare diffidenza tra la popolazione. Melanie Pérez Arias cita in particolare alcuni candidati sindaci di Lima. Qualche giorno fa, due manifestazioni hanno animato contemporaneamente il centro storico di Quito, in Ecuador. Una per i migranti, l’altra contro. A Boa Vista, nello stato brasiliano di Roraima, 532 indigeni warao sono stati deportati tra il 2014 e il 2016, in seguito alle denunce di cittadini che li accusavano di mendicare per strada, seminando la paura dei furti.

Nello stesso stato, a Pacaraima, l’aggressione di un commerciante da parte di venezuelani sarebbe all’origine dell’attacco e distruzione di un accampamento di migranti, dell’agosto scorso. Qualche giorno più tardi, alcuni indigeni brasiliani hanno partecipato ad una marcia per lamentarsi del fatto che i loro pari venezuelani installati in un campo avrebbero ricevuto un trattamento migliore dal governo federale. Come riporta Mediapart, la marcia era stata supportata da un sostenitore di Jair Bolsonaro, il candidato di estrema destra alla presidenza brasiliana. Secondo i sondaggi elettorali, Bolsonaro risulta vincente in questo stato povero del Nord del Brasile, le cui autorità accusano Brasilia di averle abbandonate per accogliere i flussi di venezuelani.

I paesi ospitanti cercano di coordinarsi

L’accelerazione dell’emigrazione venezuelana ha aumentato la pressione sui paesi ospitanti. La Colombia, in febbraio, seguita da Perù ed Ecuador 6, quest’estate, hanno deciso di esigere il passaporto. In America centrale, eccezion fatta per il Costa Rica, il visto è diventato obbligatorio per i venezuelani. In Cile è ormai vietata la conversione del visto turistico in visto lavorativo. Nell’aprile scorso, il governo di S. Pinera ha instaurato il “visto di responsabilità democratica”. Se un venezuelano vuole stabilirsi in Cile, deve rivolgersi, munito di documenti in regola, al consolato di Caracas. ABC riporta che in giugno scorso, su 28.000 richieste, 3.244 avevano avuto esito positivo.
L’Europa ce l’ha insegnato con la crisi dell’accoglienza dei siriani: le istituzioni e i regolamenti comuni non garantiscono la riuscita di una politica migratoria comune. I paesi sudamericani partono da molto più lontano. Mentre l’integrazione latino-americana è in una fase centrifuga, con la dissoluzione quasi ineluttabile di strutture regionali come l’UNASUR o l’ALBA, 13 paesi si sono riuniti la prima settimana di settembre a Quito per tentare di affrontare collettivamente il problema. Invitato, il governo venezuelano non si è presentato.

L’assemblea è stata storica 7 ma i risultati non all’altezza delle aspettative. Nella dichiarazione finale del summit, 11 paesi hanno affermato di voler “continuare a lavorare in modo individuale” (sic) ma cooperare “nel momento in cui ogni paese lo considera opportuno e adeguato”. Bloomberg riassume bene le conclusioni: hanno “difeso la causa dei venezuelani per dar loro accesso a sanità e educazione, in funzione della ‘realtà economica’. Si sono messi d’accordo perché i venezuelani siano autorizzati a viaggiare con passaporti scaduti, ma solo se la legge locale lo permette. Hanno fatto appello ad un ‘aumento sostanziale’ dei mezzi della comunità internazionale ma non hanno preso loro stessi degli impegni”.
La Bolivia di Evo Morales, fedele alleata di Caracas e colpita in misura minore dall’ondata migratoria, non ha firmato la dichiarazione.

Il giorno successivo un altro incontro verteva sul tema dell’emigrazione venezuelana, a Washington, nella sede dell’Organizzazione degli Stati americani (OEA). Il tono è stato più politico: il segretario generale, Luis Almagro, ha fatto della caduta della “dittatura di Maduro” un proposito personale, discreditandolo de facto come possibile mediatore. L’incontro si è concluso con la creazione di un gruppo di lavoro con a capo un oppositore in esilio a Caracas. Secondo l’esperto Carlos Romero, questa “designazione è un errore, perché rende ancora più politico il tema migratorio e allontana qualunque possibilità che la crisi umanitaria sia trattata congiuntamente con il governo di Maduro”, una “crisi umanitaria” che lo stato venezuelano rifiuta di riconoscere.

Rifiuto, disprezzo e benevolenza in misure variabili

Con l’accelerazione delle partenze e la loro copertura mediatica, il governo venezuelano ha progressivamente rotto il silenzio che manteneva sul tema. La battaglia è giocata sul terreno della comunicazione. Ai vertici dello Stato si denuncia un “piano di destabilizzazione mentale” (Diosdado Cabello, presidente dell’Assemblea nazionale costituente) o ancora una “campagna internazionale” per simulare una “crisi umanitaria” con l’obiettivo di “creare una falsa matrice d’opinione su una ‘crisi umanitaria’ che giustifichi un intervento militare” (Jorge Rodriguez, ministro della Comunicazione). “Li fanno scendere dall’autobus… e li fotografano e ne fanno una superproduzione come se fosse Hollywood” (Diosdado Cabello). L’atteggiamento del governo oscilla tra il semplice rifiuto – un “flusso migratorio normale” (Delcy Rodriguez, vicepresidente) – e la minimizzazione del fenomeno o la sua riduzione ad un gruppo sociale – “dei giovani della classe media” (Jorge Rodriguez) – o ai movimenti di opposizione – “la maggior parte di quelli che partono sono i frustrati delle guarimbas [proteste antigovernative violente]” (Iris Varela, ministra delle prigioni). Le dichiarazioni del governo passano da un giorno all’altro dal disprezzo per il migrante – “So che per molti, la propaganda (nemica) gli ha riempito il cervello. Lo sapete quanta gente assumono a pulire bagni a Miami? Tu ci andresti, a pulire i bagni a Miami? Io non abbandonerei mai la mia patria” (N. Maduro) – ad una benevolenza interessata di fronte alle difficoltà dei molti migranti che hanno ceduto ai “canti delle sirene della destra” e hanno trovato solo “razzismo, disprezzo, persecuzione economica e schiavismo” (Nicolas Maduro).

Secondo il presidente Maduro, “90% degli emigranti si mangiano le mani per essere partiti”. Ecco perché ha lanciato, il mese scorso, il programma “Ritorno in patria”, per far rimpatriare volontariamente dei venezuelani. Sono quasi 2.000 ad aver beneficiato del programma, una cifra che fa sorridere se comparata al flusso uscente. Come all’OEA, il migrante viene strumentalizzato nel conflitto politico che oppone l’erede di Hugo Chavez ai paesi del Gruppo di Lima 8.

Quest’improvvisa benevolenza non riguarda, per ora, l’isola bi-insulare vicina di Trinidad e Tobago, come spiega in dettaglio il sito di indagine Armando.info. In questa ex colonia anglofona, a meno di due ore di nave dalla costa venezuelana, il sorriso rivolto in passato ai turisti venezuelani non è più in voga. Nonostante il paese rientri tra i firmatari della Convenzione di Ginevra, lo statuto di rifugiato non esiste nella legislazione retrograda di una nazione in cui “deficienti mentali”, “idioti”, “prostitute e omosessuali” non sono i benvenuti. Secondo l’organizzazione cattolica LWF, circa 10.000 venezuelani – dei 27.000 arrivati nel 2017 – avrebbero richiesto qui una protezione internazionale. In risposta alle critiche dell’HRC per aver deportato in primavera scorsa 82 venezuelani, di cui metà richiedenti asilo, il presidente Keith Rowley ha detto che non voleva fare del suo paese “un campo di rifugiati”. Sul posto, i venezuelani non possono contare sulla protezione di Caracas attraverso la sua ambasciata, mentre svariati cittadini sono stati imprigionati e ricattati. Il governo locale è alleato di Caracas per volgari ragioni economiche.

Non confondere la crisi e la sua strumentalizzazione

Salvo considerare l’ipotesi che media, agenzie internazionali e servizi migratori stranieri stiano attuando una politica di disinformazione di massa, l’emigrazione massiccia dei venezuelani è una realtà incontestabile. Non stimiamo il governo venezuelano più sciocco di quello che è: ne è cosciente anche se confonde le cifre. Ne è testimone la sua volontà di intercettare tramite i canali ufficiali il flusso crescente di remesas, il denaro spedito dagli emigranti, stimato da Datanalisis a 900 milioni di dollari americani.

Isolato in una regione che gli è maggioritariamente ostile, il governo Maduro appare recluso nella sua fortezza assediata e insorge contro la strumentalizzazione – reale – di questa crisi da parte dei suoi nemici del Gruppo di Lima. Rifiuta a paesi come Colombia o Stati Uniti il diritto di fargli la morale e punta il dito contro l’ipocrisia europea che si preoccupa degli emigranti venezuelani, lasciando invece morire quelli che bussano alle sue porte nella traversata del Mediterraneo. Riconoscere l’ampiezza dell’emigrazione rappresenterebbe l’ammissione del proprio fallimento in materia economica, sociale o di sicurezza. Un fallimento che minimizza – delle “difficoltà” – e che imputa parallelamente ad una “guerra economica” diventata realtà solo dopo l’adozione di sanzioni da parte dell’amministrazione Trump 13 mesi fa.

In una regione in cui la divisione di campo tipica della guerra fredda è imperante, il trattamento di questa “crisi migratoria” risulta estremamente politicizzato. Ma sarebbe necessario evitare di confondere la realtà di un’ondata migratoria con le relative sfide umanitarie poste dalla sua strumentalizzazione, sia da parte di Caracas per apparire vittima di una macchinazione, sia da parte dei suoi “nemici” che, riuniti attorno al Gruppo di Lima, o alle file dell’OEA, intendono sbarazzarsi di questo vicino ingombrante.

Quanti colombiani? Quanti venezuelani?

Il ponte Simon Bolivar tra il Venezuela e la Colombia
Il ponte Simon Bolivar tra il Venezuela e la Colombia

Il Ponte Simon Bolivar che separa Colombia e Venezuela rappresenta emblematicamente la “crisi migratoria”. Numerosi media vi hanno inviato un corrispondente per mostrare le decine di migliaia di persone che lo attraversano quotidianamente. Eppure, le immagini spesso sono ingannevoli. Sì, quasi un milione di venezuelani l’hanno attraversato per lasciare il paese nel corso degli ultimi mesi, ma sono molte di più le persone che lo percorrono regolarmente senza intenzioni migratorie. 1.620.494 venezuelani possiedono un documento di mobilità frontaliera erogata dalle autorità colombiane a coloro che vivono vicino alla frontiera. Questi venezuelani la attraversano per fare acquisti, trovare medicinali, lavorare o prelevare denaro inviato dalle famiglie all’estero. Per “dimostrare le bugie delle destra”, Caracas ha deciso di installare delle telecamere dal proprio lato della frontiera.

Molti venezuelani, dunque, si recano in Colombia e molti colombiani che hanno subito la guerra o sono in indigenza vivono in Venezuela. È una realtà. Il governo Maduro sostiene che il Venezuela resta una terra di accoglienza e ospita quasi 6 milioni di colombiani, che corrispondono a 1/5 della popolazione venezuelana. Calcoli arbitrari? Mistero… Tutta comunicazione! Secondo l’ultimo rapporto dell’OIM, fino al 2016 la Colombia contava ancora 7,2 milioni di migranti interni e 300.000 cittadini vivrebbero all’estero con lo status di rifugiato o equivalenti. Il rapporto indica inoltre che sarebbero un milione a vivere in Venezuela, una stima che avrebbe tendenza a diminuire dopo la firma degli accordi di pace e la crisi in Venezuela. Questa cifra avanzata dall’OIM è vicina a quella dell’ultimo censimento (2011) in Venezuela, che stima il numero di persone nate in Colombia intorno a 700.000.

  1. Secondo il World Migration Report 2018 dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM), Il Venezuela sarà, insieme all’Argentina e al Costa Rica, uno di paesi del continente ad accogliere ancora il più alto numero di immigrati.
  2. Leggere a tal proposito: Tomas Castillo Crasto e Mercedes Reguant Álvarez, Percepciones sobre la migración venezolana: causas, España como destino, expectativas de retorno, Migraciones, 41, 2017.
  3. Secondo un’indagine di Médicos por la Salud citato da El Pais
  4. Dal 2001 al 2003, il governo venezuelano ha dovuto lottare con fermezza per imporre la sua riforma nel settore degli idrocarburi e prendere il controllo totale dell’impresa pubblica PDVSA (Petròleos de Venezuela SA). Per far ciò, ha dovuto affrontare scioperi, sabotaggi e un colpo di Stato. Vince la battaglia e licenzia la metà del personale del PDVSA, prevalentemente quadri ed esperti che non volevano che questa impresa, con gestione autonoma, fosse sottomessa ad un progetto politico del presidente scomparso.
  5. Secondo l’indagine sulle condizioni di vita in Venezuela, realizzata annualmente da tre università del paese (UCAB, UCV, USB) e che colma in parte l’assenza di statistiche del governo.
  6. La decisione del governo ecuadoriano di esigere un passaporto è stata annullata da un giudice
  7. Altre crisi migratorie sono state dibattute a livello regionale, in passato: quelle del Nicaragua e del Salvador negli anni ’80 e quella di Cuba negli anni ’60
  8. Gruppo fondato in agosto 2017, per monitorare e trovare una via d’uscita alla crisi venezuelana. Ne fanno parte Argentina, Brasile, Canada, Cile, Colombia, Costa Rica, Guatemala, Guyana, Honduras, Messico, Panama, Paraguay, Perù e l’isola di Santa Lucia