In attesa di conoscere gli esiti di questo ulteriore imbarbarimento delle politiche repressive contro i migranti, occorre concentrarsi sulla situazione dei numerosi immigrati tunisini ( e non solo) trattenuti illegalmente nel nostro paese e sui procedimenti di convalida delle misure di allontanamento forzato e di trattenimento. Giudici di pace troppo condizionati dalle direttive dei Questori, potrebbero disapplicare il diritto comunitario ( la Direttiva rimpatri 2008/115/CE), il dettato costituzionale ( gli artt.3,13,24 e 117 della Costituzione), la Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo che, all’art. 5 ammette la detenzione amministrativa delle persone in attesa di allontanamento forzato, ma richiede in questo caso che la detenzione sia conforme ad una previsione di legge e soggetta ad una effettiva convalida giurisdizionale. Nello stesso senso la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea che dal 1 gennaio del 2010 ha efficace vincolante anche in Italia.
Potrà risultare utile, a questo punto, una breve rassegna dei principali motivi di ricorso civile o amministrativo, o di denuncia al giudice penale, per violazione di leggi, direttive, principi costituzionali e normative internazionali, che in base all’art. 10 della Costituzione, hanno una immediata efficacia precettiva nella definizione della condizione giuridica degli stranieri. Regole che non possono essere infrante in base alla dichiarazione di uno “stato di emergenza”, misura che, in base alla legge che istituisce la protezione civile, ha finalità specifiche e che non può certo essere adattata alla elusione generalizzata di tutta la normativa interna e sovranazionale in materia di immigrazione.
Appare innanzitutto da contrastare la utilizzazione surrettizia del respingimento differito, previsto dall’art. 10 comma 2 del Testo Unico sull’immigrazione, per “giustificare” le deportazioni di massa che si sono verificate in queste settimane non solo da Lampedusa, ma in misura minore anche da Palermo e da altre città italiane.
Il respingimento alla frontiera dello straniero, in tutte le sue forme, sia comportamento materiale che, a maggior ragione, provvedimento adottato dal Questore, impone allo Stato il rispetto delle garanzie procedurali previste dalla Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo. Nel caso Gebremedhin (Geberamadhien) c. Francia, sentenza del 26 aprile 2007 (ric. n. 25389/05), §§ 53 ss. la Corte ricorda i principi generali fissati nella sua giurisprudenza in questa materia. Anzitutto viene messo in gioco l’art. 13 CEDU il quale garantisce l’esistenza nel diritto interno di un ricorso che permetta di far valere il rispetto dei diritti garantiti dalla Convenzione. Questa disposizione esige pertanto un ricorso interno col quale si possa far valere un diritto fondato sulla Convenzione e tramite il quale possa ottenersi una tutela adeguata.
Ma il rischio maggiore è la sovrapponibilità quanto a presupposti ed effetti, del provvedimento di “respingimento differito” adottato dal Questore con il provvedimento di espulsione disposta dal prefetto. Come ha osservato Guido Savio, avvocato del Foro di Torino, “occorre evidenziare la sovrapponibilità dei provvedimenti di espulsione ai sensi dell’art. 13, co. 2, lett. a) D. Lgs. 286/98 e quelli di respingimento con accompagnamento alla frontiera di cui all’art. 10, co. 2 lett. a) D. lgs. 286/98 (c.d. “respingimento differito”), suffragata – nel caso di specie – ll’espressa menzione del fatto che “lo straniero è entrato nel territorio dello Stato sottraendosi ai controlli di frontiera”, formula esattamente identica alle due diverse fattispecie. Consegue che, come poc’anzi accennato, la P.A. gode di ampia discrezionalità nello stabilire se uno straniero sbarcato a Lampedusa debba essere sottoposto a provvedimento di respingimento (non importa se immediato o differito) ovvero di espulsione e, nell’esercizio di tale facoltà, gli atti impugnati non sono supportati da alcuna motivazione: trattasi pertanto di una scelta secca operata dall’amministrazione. Occorre allora domandarsi il motivo dell’opzione per il respingimento nel caso che ci occupa”. A parere di Guido Savio,”tale motivo è rinvenibile agevolmente dalla lettura della motivazione del decreto di trattenimento che è atto strettamente consequenziale del respingimento. Si legge infatti che la Questura di ……… ha opportunamente “consideratol’art. 2 comma 2 lett. a) della Direttiva 2008/115/CE che stabilisce che gli stati membri possono decidere di non applicare la Direttiva ai cittadini di paesi terzi sottoposti a respingimento alla frontiera”.Pare dunque d’intendere che la scelta di operare il respingimento consegua alla facoltà di non applicare le disposizioni della Direttiva 2008/115/CE, diversamente infatti, se fosse stata decretata l’espulsione del ricorrente, la P.A avrebbe dovuto applicare la direttiva in parola conformemente alle istruzioni impartite con la circolare del Ministero dell’interno – Dipartimento della Pubblica sicurezza del 17.12.2010, n. 400/B/2010. Orbene, se è vero che l’art. 2, § 2 della citata Direttiva prevede che gli Stati membri possono decidere di non applicare la Direttiva nei casi di respingimento alla frontiera, è altrettanto pacificamente vero che l’Italia non si è avvalsa di tale facoltà perché, fino ad oggi, non ha recepito la Direttiva stessa nel suo ordinamento interno, nonostante che il termine massimo all’uopo previsto sia inutilmente decorso il 24 dicembre scorso. Si intende con ciò dire che presupposto logico per l’esercizio della facoltà, riconosciuta dalla Direttiva agli Stati membri, di non applicare le disposizioni in essa contenute ai cittadini stranieri sottoposti a procedure di respingimento è il recepimento della Direttiva stessa nel diritto interno: solo nell’atto di recepimento dello strumento normativo europeo, i singoli Stati membri possono decidere se avvalersi o meno di tale facoltà. Ovviamente, l’atto di trasposizione di una direttiva nel diritto interno presuppone una legge delega e, successivamente, un decreto legislativo, cioè un atto avente forza di legge che –per quanto concerne l’Italia- non è ancora stato adottato. Né può dirsi che l’Italia vi abbia provveduto con la citata circolare ministeriale del 17 dicembre scorso, sia perché detta circolare nulla dice al proposito, sia – e soprattutto – perché la circolare non è atto avente forza di legge. Pertanto, stabilito che l’Italia non si è affatto avvalsa della facoltà di non applicare la Direttiva ai cittadini di paesi terzi sottoposti a respingimento alla frontiera, consegue che la Direttiva in questione sia – allo stato – applicabile anche ai respingimenti che rientrano pur sempre nell’ambito delle procedure volte al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare”.
Con riferimento ai casi di espulsione amministrativa il contrasto tra il vigente ordinamento italiano e la direttiva comunitaria sono stati rilevati persino dalla Corte di Cassazione che con una ordinanza della Prima Sezione penale, depositata in cancelleria il 18 marzo scorso, ha chiesto con procedura d’urgenza alla Corte di Giustizia di Lussemburgo di pronunciarsi sul paventato contrasto tra la normativa italiana in materia di allontanamento forzato e la Direttiva comunitaria n. 2008/115/CE.
Come osserva il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Firenze, il 15 gennaio 2010, disapplicando l’art. 14 comma 5 ter e rimettendo in libertà un immigrato irregolare arrestato dalla polizia, “l’effetto diretto prodotto dalla direttiva inattuata deve comportare conseguentemente la non applicazione della norma incriminatrice che comprime la libertà personale dello straniero in modo palesemente contrastante con gli obblighi inattuati posti a carico dello stato dal diritto comunitario”
Con sentenza del 17 febbraio, il Giudice di pace di Firenze aveva accolto il ricorso contro un decreto d’espulsione adottato dal Prefetto di Firenze il 10 gennaio 2011 ed ha affermato la violazione della direttiva comunitaria sui rimpatri (proc. n. 1378/11 R.G.), rilevando tra l’altro la violazione dall’art. 12 della direttiva («le decisioni di rimpatrio e, ove emesse, le decisioni di divieto di reingresso e le decisioni di allontanamento sono motivate in fatto e in diritto»). Il giudice fiorentino ha rilevato anche la violazione dell’obbligo di motivazione sancito dagli artt. 13 comma 3 del d.lgs 286/98 («l’espulsione è disposta in ogni caso con decreto motivato») e 3 della legge 241/90 («la motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione»). Molto spesso infatti, le prefetture e le questure italiane adottano questi provvedimenti moduli prestampati uniformi, che non specificano la posizione individuale della persona destinataria dei provvedimenti.
Con un ordinanza del 24 gennaio 2011 il Tribunale di Milano, di fronte alla possibilità di applicare l’art. 14, c.5-quater D.lgs. n. 286/98 (sanzionante con la pena della reclusione da uno a cinque anni lo straniero destinatario del provvedimento di espulsione e di un nuovo ordine di allontanamento che continua a permanere nel territorio dello Stato), rinviava gli atti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, chiedendo se gli artt. 15 e 16 della direttiva risultassero in contrasto con l’incriminazione oggetto di accertamento penale. Nell’ordinanza il Giudice rilevava le diverse finalità perseguite dalla direttiva, che impone un bilanciamento “da un lato, tra l’interesse dell’U.E. al controllo e alla gestione dei flussi migratori – e alla connessa esigenza di garantire l’effettività delle procedure di rimpatrio in tutti gli Stati membri -, e dall’altro il diritto fondamentale alla libertà dello straniero sottoposto a tali procedure”. Gli art. 15 e 16 predispongono le condizioni, oltre le quali gli Stati membri non possono spingersi, in presenza delle quali il cittadino extracomunitario può essere privato della libertà personale nell’assoggettamento alla procedura di rimpatrio.
La direttiva non esclude peraltro la possibilità che uno Stato membro disponga la detenzione del cittadino extracomunitario in forza di un titolo diverso “dal trattenimento finalizzato a garantire l’effettività della procedura medesima (di espulsione, ndr) e segnatamente a titolo di custodia cautelare e/o di pena detentiva conseguente alla commissione di un reato”.
Sono in ogni caso vietate le espulsioni collettive, alle quali sono da assimilare- in base alla sentenza della Corte Costituzionale n.105 del 2001 che accomuna come provvedimenti restrittivi della libertà tutte le misure di allontanamento- le procedure di respingimento differito con accompagnamento forzato alla frontiera. In questo caso, a fronte di una giurisprudenza nazionale che appare piuttosto timida a sanzionare casi di respingimenti o espulsioni collettivi ( si veda per tutte Cassazione 5 agosto 2005, n.16571, estensore Macioce, in Diritto Immigrazione e cittadinanza, 2005,n.4, p.133), la Corte Europea dei diritti dell’Uomo segue una posizione molto più rigorosa e sanziona come espulsioni collettive anche espulsioni che gli stati formalizzano in modo apparentemente individuale così da eludere il divieto. Per espulsioni collettive, ai sensi dell’art. 4 del Protocollo n. 4 allegato alla CEDU, la Corte intende tutte le misure che obbligano gli stranieri, in quanto gruppo, a lasciare un paese, salvo i casi in cui una simile misura è assunta sulla base di un esame ragionevole ed obiettivo della situazione particolare di ciascuno degli stranieri che formano il gruppo. Tuttavia anche in tal caso (apparente espulsione individuale) l’applicazione di una decisione di espulsione può essere valutata ai fini del rispetto dell’art. 4 del Protocollo n. 4: si v. Becker c. Danimarca, decisione del 3 ottobre 1975, Commissione; Alikabs e altri c. Paesi Bassi (ric. n. 14209/88) e B. e altri c. Paesi Bassi (ric. n. 14457/88), decisioni del 16 dicembre 1988; Andric c. Svezia, decisione del 23 febbraio 1999 (ric. n. 45917/99); Conka, cit., § 59; Sultani c. Francia, cit., §§ 81-83.
L’aspetto più grave che sta venendo in evidenza in questi ultimi giorni , dopo il trasferimento dei migranti sbarcati a Lampedusa in diversi “centri di raccolta” italiani, riguarda le modalità del trattenimento, vera e propria detenzione amministrativa, spesso di durata indeterminata, alla quale vengono sottoposti i migranti arrivati dalla Tunisia, e in misura minore da altri paesi, in vista di un loro successivo allontanamento forzato. Spesso, non potendo giustificare altrimenti i lunghi periodi di detenzione già trascorsi in altre strutture improprie, privi dello statuto di Centro di identificazione ed espulsione, ma destinate all’evidente scopo di luoghi di limitazione della libertà personale degli immigrati ( nel senso ben chiarito dalla nota sentenza n. 105 del 2001 della Corte Costituzionale, alla quale occorre aggiungere un doveroso richiamo alla sentenza n.222 del 2004) si è arrivati alla falsificazione grossolana delle date di ingresso nelle diverse strutture, per rispettare i termini formali delle procedure di convalida.
Ed alla fine si è pensato che un decreto del ministro, che trasformava in CIE strutture nel quale le persone erano state internate quando avevano ancora la natura di centri di accoglienza, potesse risolvere tutti i problemi. E’ per queste ragioni, per questa insostenibile mancanza di basi legali per la detenzione di migliaia di persone, che dal mese di aprile si è negato l’accesso ai centri dove venivano trattenuti immigrati tunisini persino ai parlamentari. E si sono intimiditi con perquisizioni e identificazioni arbitrarie tutti gli operatori umanitari che, magari solo allo scopo di comunicare il recapito di un avvocato, cercavano di avvicinare gli immigrati che stavano per essere respinti o espulsi. Ma i fatti non si sono potuti nascondere a lungo, come le persone, e non appena si sono tentate le prime procedure di convalida delle misure di accompagnamento forzato e di trattenimento, quando ci sono state e gli allontanamenti forzati non sono stati compiuti in assenza di qualsiasi provvedimento formale, le contraddizioni tra quanto dichiarato negli atti e la realtà dei fatti sono apparse evidenti.
Qualora ricorrano tutte le circostanze di fatto, da accertare luogo per luogo, dopo le eventuali convalide delle misure di trattenimento in assenza dei requisiti di legge, ove fossero dichiarati ricorrenti, o sulla base di documentazione grossolanamente artefatta, ben potrebbe chiedersi, ai sensi dell’art.361 del Codice di procedura penale, la trasmissione degli atti alle competenti Procure della Repubblica, per l’accertamento dell’ipotesi di reato ex art. 476 del Codice penale, falsità materiale commessa dal Pubblico Ufficiale in atti pubblici, in modo da verificare se nei provvedimenti formali adottati dal Questore o dal Prefetto risultassero circostanze smentite dai fatti. In questo senso una decisione del giudice di pace di Cremona del 25 marzo 2011 che, su richiesta del ricorrente, trasmette gli atti alla Procura competente, quale atto dovuto, in applicazione dell’art.331 comma 4 del Codice di procedura penale.
L’operato delle autorità di polizia nelle procedure di allontanamento e nel trattenimento amministrativo appare in contrasto anche con il diritto comunitario ( Carta dei diritti fondamentali e Direttiva 2008/115/CE sui rimpatri). E si discosta persino da regole vincolanti di diritto interno e dalle istruzioni fornite alcuni mesi fa dal capo della polizia, nel tentativo ( evidentemente vano, alla luce dei successivi sviluppi giurisprudenziali), di dimostrare la “compatibilità” della normativa interna, ulteriormente “aggravata” dopo il pacchetto sicurezza introdotto con la legge 94 del 2009, con le prescrizioni vincolanti ed inderogabili del diritto comunitario e delle Convenzioni internazionali, fonti di rango certamente sovraordinato rispetto ad una semplice circolare ministeriale. Ed è da ricordare al riguardo che l’ennesima circolare ministeriale, adottata l’8 aprile scorso, con riferimento ai decreti del 5 e del 7 aprile scorsi, richiama, nei casi nei quali si debba provvedere all’allontanamento forzato dei cittadini “ provenienti dal nord africa” che non rientrano nell’ambito di riconoscimento dei permessi per motivi umanitari, proprio alla circolare ministeriale del 17 dicembre. Che a sua volta afferma l’applicazione diretta della normativa comunitaria vincolante nel nostro ordinamento interno, un indirizzo che evidentemente non è giunto, o è stato dimenticato, nelle Questure dove si “sollecitano” i giudici di pace a convalidare provvedimenti di allontanamento forzato e di trattenimento amministrativo in evidente contrasto proprio con la Direttiva comunitaria n.2008/115/CE .
La circolare ministeriale del 17 dicembre scorso sembrava modificare, in ossequio ai precetti della Direttiva 2008/115/CE ( in particolare all’art.15) la portata della detenzione amministrativa in quanto “il trattenimento dello straniero in un Centro può essere disposto, salvo che nel caso concreto possano essere efficacemente applicate altre misure sufficienti ma meno coercitive, per preparare il rimpatrio e/o effettuare l’allontanamento, in particolare qualora sussista il rischio di fuga, o l’interessato evita od ostacola la preparazione del rimpatrio o l’allontanamento”.
La circolare ministeriale del 17 dicembre 2010 affidava alla discrezionalità delle forze di polizia e del Questore soprattutto, aspetti legati alla libertà personale degli immigrati da rimpatriare, che non appaiono conformi né al dettato della Direttiva comunitaria sui rimpatri, né alla luce dei principi costituzionali in materia di libertà personale e di sanzioni detentive. Proprio alla luce di questa stretta connessione tra profili amministrativi e profili penalistici appare sempre più opinabile la discrezionalità amministrativa concessa con grande larghezza alle autorità di polizia. Sul concetto di “rischio di fuga” o sulla circostanza che “l’interessato evita od ostacola la preparazione del rimpatrio o l’allontanamento”, nella stesura dei provvedimenti di allontanamento forzato e di trattenimento, come si è visto in un caso deciso dal Giudice di pace di Firenze, si potrebbe ricorrere a formule che apparentemente tengano conto della posizione individuale dei destinatari dei provvedimenti di rimpatrio, ma che in sostanza riproducono valutazioni stereotipe che tradiscono quanto richiesto dalla direttiva comunitaria, che esige un preciso obbligo di motivazione e l’esame individuale del caso (1). In ogni caso, dopo un trattenimento illegittimo in un CIE, lo stesso trattenimento non può proseguire al solo scopo della notifica di un nuovo provvedimento di espulsione, così come stabilito dal giudice di pace di Bologna l’8 agosto 2005, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, 2005, n.3, p.145. Come deciso dal giudice di pace di Bologna il 27 maggio 2005, (in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, 2005,n.2, p.137) la mancata convalida del trattenimento nel CIE e l’assenza di convalida ex art.13 comma 5 bis, del provvedimento di espulsione,priva di ogni effetto entrambi i provvedimenti e rende illegittima tanto la prosecuzione della detenzione amministrativa che l’intimazione a lasciare il territorio nazionale entro cinque giorni, termine ormai in contrasto, peraltro, con la Direttiva comunitaria 2008/115/CE.
La Direttiva 2008/115/CE, inoltre, all’art. 15 comma 4, prevede che “quando risulta che non esistano più alcuna prospettiva ragionevole di allontanamento per motivi di ordine giuridico o per altri motivi”, o che non esistano più rischi di fuga o comportamenti dell’interessato contrari al rimpatrio,”il trattenimento non è più giustificato e la persona interessata è immediatamente rilasciata”. Su questo punto di particolare importanza la circolare ministeriale del 17 dicembre tace, anche perché la piena applicazione della direttiva comunitaria avrebbe richiesto uno stravolgimento salutare dell’art. 14 del Testo unico sull’immigrazione, con un superamento della logica punitiva e di contenimento che la detenzione amministrativa ha assunto in Italia. Sotto questo profilo il nostro paese è ancora inadempiente, e mentre il giudice interno potrà disapplicare le norme in contrasto con il diritto comunitario, si possono attendere ricorsi alla Corte Costituzionale ed alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
Quanto avviene in questi giorni nei centri di identificazione ed espulsione, soprattutto in quelli di recente istituzione, come a Santa Maria Capua Vetere contrasta persino con le disposizioni diramate dal ministero dell’interno – seppure per effetto della circolare che richiama una interpretazione delle regole in materia di allontanamento e trattenimento conforme alla direttiva 2009/115/CE – “in quanto secondo la stessa Direttiva : il trattenimento è possibile per preparare il rimpatrio e/o effettuare l’allontanamento, a condizione che non possano essere applicate altre misure sufficienti ma meno coercitive. Sempre secondo la circolare del 17 dicembre, “pertanto, detta misura potrà essere adottata nei casi attualmente consentiti dalla legislazione nazionale; tuttavia, dalla lettura del provvedimento di trattenimento dovrà emergere che, nel caso concreto, non risulti possibile applicare altre misure meno coercitive, proprio a causa della particolare situazione che caratterizza la posizione dello straniero; dovrà essere idonea a soddisfare la finalità dell’allontanamento, che è da perseguire con tutte le misure necessarie”. E’ questa la parte più oscura della circolare ministeriale perché si pone ai limiti della competenza assegnate all’autorità amministrativa ( e forse anche oltre), in quanto afferma una lettura sostanzialmente abrogante di buona parte dell’attuale articolo 14 , che prevede appunto la detenzione amministrativa come misura che accompagna necessariamente ed in maniera automatica tutti i provvedimenti di allontanamento forzato ( con limitate eccezioni in favore di immigrati già regolarmente residenti), ma lascia sostanzialmente libera l’autorità amministrativa di comportarsi come meglio ritiene in vista dell’allontanamento forzato, come se la Direttiva comunitaria non trovasse più applicazione per quanto concerne i principi garantistici, a partire dal diritto di difesa, che pure inequivocabilmente afferma.
Viene da chiedersi, a questo punto, che portata avranno le modifiche legislative che si annunciano, al di là della dimensione eccessivamente ampia della discrezionalità amministrativa in una materia tanto delicata e se si seguiranno le indicazioni su questo, e su altri punti assai delicati, fornite dalla direttiva 2008/115/CE. Intanto, oltre ai ricorsi contro le convalide, occorrerebbe promuovere ricorsi alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, per interventi interpretativi ai sensi dell’art.234 del Trattato, o per l’apertura di una procedura di infrazione a carico dell’Italia a seguito della mancata attuazione della direttiva, questione che non può essere risolta da una circolare ministeriale comunque priva della forza normativa di un atto legislativo.
Appare in ogni caso assai pericoloso, come precedente, che una circolare ministeriale detti una disciplina dei casi di espulsione ed allontanamento forzato, che andrebbero regolamentati con un atto avente la forza ed i caratteri della legge. Le misure restrittive della libertà personale in vista di una successiva espulsione non possono essere determinate esclusivamente dall’autorità amministrativa, ma devono essere espressamente previste dalla legge, che ne deve fissare casi specifici e modalità di applicazione.
In ogni caso, l’operato delle autorità di polizia e delle singole Questure che hanno disposto ed eseguito provvedimenti sommari di trasferimento da Lampedusa e dagli altri centri siciliani verso altre strutture ubicate nell’intero territorio nazionale, e quindi provvedimenti di trattenimento ed allontanamento forzato, non sempre rispettosi del sistema della competenza per territorio previsto dalla legge vigente, si collocano ben al di là delle regole imposte dal diritto internazionale ( CEDU).
La Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’uomo stabilisce infatti, all’art.5, che “ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza. Nessuno può essere privato della libertà, salvo che nei casi seguenti e nei modi prescritti dalla legge: (omissis) … se si tratta dell’arresto o della detenzione regolari di una persona per impedirle di entrare irregolarmente nel territorio, o di una persona contro la quale è in corso un procedimento d’espulsione o d’estradizione. Si deve ricordare come i tempi dei ricorsi alla Corte di Strasburgo siano diventati assai lunghi, ma nei casi più gravi di violazione dell’art.5 della Convenzione, il ricorso potrebbe presentarsi anche dal paese di origine, la Tunisia, soprattutto se si realizzerà -come le circostanze impongono- un legame operativo tra le associazioni che sulle due sponde del Mediterraneo difendono i diritti fondamentali della persona migrante.
Non basta certo una direttiva ministeriale o una circolare del capo della polizia a ritenere soddisfatto il requisito della riserva di legge previsto dall’art.5 della CEDU in materia di limitazione della libertà personale, ambito garantito anche dall’art. 13 della nostra Costituzione, in funzione di un successivo allontanamento dal territorio dello stato. .E secondo l’art.13 della CEDU “ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto ad un ricorso effettivo davanti ad un’istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali”.
Sotto questo profilo, la Corte europea ha sottolineato che quando si tratta di una privazione di libertà è particolarmente importante soddisfare il principio generale di sicurezza giuridica.
Di conseguenza è essenziale che le condizioni di privazione della libertà, in virtù del diritto interno, siano chiaramente definite e che la legge stessa sia prevedibile nella sua applicazione, in modo da rispondere al criterio di “legalità” fissato dalla Convenzione, secondo il quale la legge deve essere sufficientemente precisa per evitare rischi di applicazioni arbitrarie (si v. Nasrulloyev c. Russia, sentenza del 1° ottobre 2007, ric. n. 656/06, § 71 e Amuur, cit.).
Il criterio di legalità fissato dalla Convenzione esige che tutte le leggi siano sufficientemente precise per permettere ai cittadini di prevedere con un grado ragionevole di certezza, secondo le circostanze del caso, le conseguenze discendenti da un determinato comportamento (Shamsa c. Polonia, sentenza del 27 novembre 2003, § 40).
La Corte ricorda altresì che secondo la sua giurisprudenza deve sussistere un legame tra il motivo della privazione della libertà da un lato, e dall’altro il luogo e il regime della detenzione (si cfr. Mubilanzila Mayeka et Kaniki Mitunga c. Belgio, sentenza del 12 ottobre 2006, ric. n. 13178/03, § 53). Piuttosto significativo sotto questo aspetto è il caso Riad e Idiab c. Belgio, sentenza del 24 gennaio 2008 (ricc. nn. 29787/03 e 29810/03), riguardante due cittadini palestinesi residenti in Libano, arrivati senza visto in Belgio, che avevano chiesto asilo politico ma la cui richiesta era stata respinta. Trasferiti in un centro per immigrati illegali, avevano ottenuto una decisione giudiziaria definitiva che li rimetteva in libertà, ma ciononostante erano stati trasferiti nella zona di transito dell’aeroporto di Bruxelles ove erano stati trattenuti per oltre dieci giorni al fine di costringerli ad accettare una partenza spontanea. In seguito, dopo che un provvedimento giudiziario ebbe ingiunto di lasciarli liberi, ricevettero un ordine di allontanamento e furono trattenuti in un centro per immigrati illegali fino al rimpatrio avvenuto dopo altri venti giorni circa. Nel caso di specie la Corte ha ritenuto violato l’art. 5 CEDU in relazione al trattenimento nella zona transiti dell’aeroporto nonostante l’ordine giudiziario che li rimetteva in libertà: la zona di transito dell’aeroporto, dove i ricorrenti erano stati abbandonati a se stessi, senza accompagnamento umanitario, non costituisce infatti un luogo adatto alla detenzione.
La Corte ha considerato che il fatto di detenere una persona nella zona transiti per un periodo indeterminato ed imprevedibile senza una disposizione o una decisione assoggettata a controllo giudiziario, sia in sé contrario al principio di sicurezza giuridica, che è implicitamente riconosciuto dalla Convenzione e che costituisce uno degli elementi fondamentali dello Stato di diritto (si v., mutatis mutandis, Shamsa, cit., § 58). Nel caso Saadi/Regno Unito la Corte di Strasburgo ha confermato la violazione dell’art. 5 § 2 CEDU perché il motivo effettivo della detenzione era stato comunicato oralmente al rappresentante del ricorrente soltanto settantasei ore dopo, e dunque non rispettando l’obbligo di provvedervi “nel termine più breve”. Questi stessi principi sono applicabili alle diverse forme di privazione della libertà personale subite dai cittadini tunisini e di altre nazionalità giunti irregolarmente in Italia nei primi mesi del 2011. I centri di accoglienza e identificazione sottratti al controllo giurisdizionale possono essere paragonati alle zone di transito aeroportuale, come spazi al di fuori del diritto.
Occorre anche considerare che una detenzione arbitraria può rilevare sul piano del diritto internazionale e di conseguenza anche a livello nazionale per effetto del richiamo al diritto internazionale contenuto negli articoli 10 e 11 della Costituzione. Nel caso Zečiri c. Italia, sentenza del 4 agosto 2005 (ric. n. 55764/00) il ricorrente, dopo aver scontato la pena ad un anno e due mesi di carcere, veniva trattenuto in un centro di permanenza temporanea in attesa dell’esecuzione dell’ordine di espulsione che, sulla base di una precedente decisione del tribunale già annullata dalla Cassazione, avrebbe dovuto sostituire la pena. Il ricorrente lamentava perciò l’illegalità della misura restrittiva della libertà personale ingiustamente subìta, nonché l’assenza di un rimedio idoneo ad ottenere la riparazione dell’errore giudiziario.
Secondo la Corte europea non può considerarsi “scusabile” l’errore commesso dalle autorità italiane, in quanto esse sono tenute a conoscere le decisioni delle giurisdizioni e conclude nel senso della violazione del § 1 dell’art. 5. Il giudice di Strasburgo dichiara altresì l’avvenuta violazione del § 5 del medesimo articolo: il ricorrente non disporrebbe infatti di alcun mezzo per ottenere “con un sufficiente grado di certezza” la riparazione per l’illegittimo trattenimento, esattamente come avviene per i tunisini che in queste settimane vengono rimpatriati dall’Italia sulla base di procedure che appaiono prive di basi legali e in taluni casi idonee ad integrare gli estremi dei “trattamenti inumani o degradanti” vietati dall’art.3 della CEDU.
Note:
(1) Si rinvia alla sentenza del 17 febbraio 2011 con la quale il Giudice di pace di Firenze ha accolto il ricorso contro un decreto d’espulsione adottato dal Prefetto, rilevando la violazione della direttiva comunitaria sui rimpatri (proc. n. 1378/11 R.G.)