Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

da Il Manifesto del 4 agosto 2006

«Fuggiamo pensando all’Italia»

di Emilio Manfredi- Addis Abeba
Accoccolata su una piccola sedia, all’interno di una casupola di fango e paglia a Makenisa, periferia di Addis Abeba, una ragazza getta incenso in un piccolo braciere. La tradizionale cerimonia del caffé. «L’usanza è la stessa, qui in Etiopia come nella mia città, Keren. Al di là del confine, in Eritrea», racconta Makeda, vent’anni. «Sono scappata di notte, mesi fa, con mio fratello Dawit, senza dire nulla a nessuno. Nemmeno alla mia famiglia», prosegue la ragazza, mentre fa abbrustolire i chicchi del caffé. «Dawit ha solo sedici anni, andava ancora a scuola. Ma sapevamo che, da un giorno all’altro, i militari ci avrebbero portato a Sawa, nel campo di addestramento militare. Così abbiamo viaggiato a piedi fino al confine con il Sudan. Dopo alcuni giorni di attesa, siamo riusciti a varcare la frontiera assieme ad altre persone», insiste la giovane. «Siamo riusciti a raggiungere Kassala. Lì ho atteso i documenti per poter entrare in Etiopia, dove vivevano già alcuni parenti. Mio fratello, invece, si è lasciato convincere da altri ragazzi. È andato a Khartoum. Da lì, mi ha detto quando ci siamo salutati, sarebbe andato in Libia. Poi ancora, in Europa». La storia di Makeda e Dawit (i nomi sono di fantasia, a copertura delle nostre fonti) da anni ormai non è una novità per i giovani eritrei. La situazione nel paese è drammatica e senza soluzioni all’orizzonte. Una crisi che non accenna a diminuire dalla fine della sanguinosa guerra di frontiera con l’Etiopia, conclusasi nel dicembre 2000. Da allora, la più giovane nazione d’Africa – l’Eritrea è indipendente dal 1993, quando un referendum popolare ha sancito il distacco di Asmara da Addis Abeba – è completamente ripiegata su se stessa, straziata da una stagione di continua repressione di ogni dissenso politico, culturale, religioso. E il presidente Isaias Afwerki, già eroe nazionale della lunga guerra di liberazione nonché grande amico della destra italiana, governa con pugno di ferro. Dopo aver arrestato, negli anni, buona parte dei suoi collaboratori più fidati, Afwerki ha soppresso la stampa indipendente, al punto che le associazioni per la difesa dei giornalisti paragonano il paese africano alla Corea del Nord. In Eritrea non si sono mai tenute elezioni, e il paese ancora attende la ratifica di una Costituzione. Ma l’autoritarismo da parte del governo non si è limitato, in questi anni, alla classe politica e all’informazione. L’intera società è stata imbavagliata, militarizzata, ridotta allo stremo. «Ci sono spie del governo ovunque, basta una parola fuori posto detta in un bar per sparire per sempre», racconta Samuel, anch’egli profugo in Etiopia. La libertà religiosa è stata pesantemente limitata. Quasi tutte le ong internazionali – incluse quelle italiane – sono state espulse dal paese negli ultimi mesi, mentre pesanti limitazioni agli spostamenti fuori dalla capitale sono state imposte agli stranieri rimasti in Eritrea, inclusi i diplomatici e i membri della missione di peacekeeping dell’Onu (Unmee). Per allontanare ogni occhio critico, mentre il paese si avvia ogni giorno di più verso il baratro. Ma ciò che più colpisce è l’atteggiamento di Afwerki nei confronti delle giovani generazioni. Una politica di morte. «Il regime pratica una leva militare obbligatoria, che coinvolge i giovani a partire dai 14 anni di età. Ragazzi e ragazze vengono prelevati dai banchi di scuola, mediante vere e proprie operazioni di rastrellamento militari», racconta Herui, da poco oltre confine. «Da quel momento, inizia il periodo di addestramento nel campo militare di Sawa, 300 chilometri da Asmara, vicino a Teseney». Lì, in teoria, si proseguono anche gli studi. Un centro educativo «modello», a detta del presidente eritreo. In realtà, «è un campo di concentramento per i giovani. Se qualcuno scappa, il governo punisce la famiglia, arrestando i genitori», sostiene Hasan, che da Sawa è passato. La leva dura anni. È distruttiva soprattutto per le ragazze, spesso stuprate e messe incinta in qualche trincea al confine. «Mi manca il mio paese, la mia famiglia. Ma è a causa di tutto ciò che sono fuggita. Come me, tutti i giovani sognano solo di scappare. Per arrivare al mare. Per raggiungere l’Italia. Non ho avuto notizie di mio fratello. So che è pericoloso ma, se potrò, cercherò di andare in Libia anche io», dice Makeda, versando finalmente il caffé. Si può rischiare di morire, pur di fuggire da un incubo.