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Guerra al desiderio migrante. Deportazioni da Ventimiglia e Como verso gli hotspot

Foto: @ProyectoLaHudud

Nelle ultime settimane centinaia di migranti sono stati coattivamente trasferiti da Ventimiglia e Como verso gli hotspot del sud Italia. Una doppia motivazione ufficiale accompagna le operazioni. Da un lato, il trasferimento di massa viene presentato in ragione della necessità di alleggerire la pressione sulla frontiera, dopo le tensioni delle ultime settimane. Allo stesso tempo, vengono evocate motivazioni di identificazione: all’interno degli hotspot, infatti, i funzionari della polizia provvedono ad effettuare il fotosegnalamento e a verificare la posizione giuridica dei migranti. Evidentemente, il significato di questi trasferimenti – descritti molto spesso in termini di deportazioni – va ben oltre le necessità logistiche e di identificazione richiamate dal governo.

Geografia del controllo

Con riferimento alla necessità di alleggerire la pressione alla frontiera, è evidente come non sia il numero delle persone attualmente presenti nelle zone di confine a delineare, di per sé, un’emergenza. La situazione emergenziale è il prodotto del regime di governo dei confini, degli interventi repressivi, delle politiche alloggiative inefficaci, strutturalmente precarie, funzionali al controllo della mobilità e alla reiterazione di un immaginario caotico e confuso.
In relazione, invece, della necessità di identificare, appare per lo meno paradossale che siano chiamati in causa i lontanissimi hotspot del sud Italia. A partire (almeno) dall’inizio del 2016, infatti, i migranti che sbarcano in Italia sono identificati e fotosegnalati all’interno degli hotspot “ufficiali” o di quelli “mobili” predisposti nelle aree di sbarco non ufficialmente catalogate come hotspot. I trasferimenti verso sud non sembrano quindi necessari ai fini identificativi: le impronte e l’identificazione sono già state rilevate all’arrivo e, più in generale, per accertare la posizione giuridica di un migrante non è evidentemente necessario trasportalo a più di mille chilometri di distanza. Le identificazioni, infatti, possono avvenire – e avvengono quotidianamente – nelle questure di tutto il territorio nazionale. In aggiunta, è proprio il Ministero degli Interni a parlare, con frequenza, della necessità di applicare l’approccio hotspot anche al di fuori degli hotspot “classici”, e della previsione di hotspot mobili (equipe formate da funzionari della polizia, funzionari delle agenzie europee, mediatori, ecc) che operano in maniera diffusa sul territorio.

Alla luce di questi elementi, la reale natura della deportazione dai luoghi di frontiera verso il sud appare più chiara: è una scelta politica punitiva nei confronti di chi rifiuta di essere confinato nei luoghi e nei tempi delineati dalle politiche pubbliche di gestione dei flussi migratori. Non siamo davanti ad un’eccezione legata ai contesti specifici delle zone di confine: le proteste e i comportamenti poco collaborativi attraversano tutta la filiera dell’accoglienza, a cominciare dal tentativo diffuso di sottrarsi al rilascio delle impronte all’interno degli hotspot, arrivando fin dentro i CIE, oggetto di proteste e sabotaggi senza soluzione di continuità. Rifiuto e disobbedienze sono, quindi, elementi strutturali e ciò che sta avvenendo in queste settimane a Ventimiglia e Como – deportazioni comprese – rappresenta un messaggio politico chiaro, diretto nei confronti di chi prova incessantemente ad attraversare le frontiere, violando i dispositivi di controllo, e di chiunque, in altri luoghi, mette in discussione le prassi ed esercita a vario titolo desideri ritenuti indegni.

Sguardi dal margine

Decine di pullman, scortati dalle forze di polizia, attraversano l’Italia trasportando centinaia di migranti lungo un percorso tortuoso ed inutile: è una messa in scena potente e inquietante. Al di là del chiaro segnale punitivo nei confronti di chi con il proprio corpo prova a disobbedire, attraversando una frontiera che gli è vietata, le deportazioni rappresentano una dichiarazione di guerra ad un’idea semplice: che i migranti siano soggetti portatori di legittimi desideri.

Da questo punto di vista, se è comunemente accettato, nella retorica dominante, che i migranti possano manifestare necessità e bisogni, mostrandosi come corpi bisognosi di assistenza e cura, appare quasi eversiva l’idea che si sottraggano all’immaginario diffuso che li qualifica come mere vittime, manifestando desideri e volontà non contemplate non solo nelle procedure codificate e nella legge, ma anche nel discorso pubblico sulle migrazioni.

È con queste lenti che vanno lette le deportazioni di queste settimane: come un messaggio politico generalizzato nei confronti di un’opzione – quella del conflitto e della resistenza – rimossa dall’apparato di sapere dominante in tema di immigrazione e politiche pubbliche. Da questo punto di vista, i corpi ancora situati – nonostante le politiche pubbliche repressive, le notevoli difficoltà logistiche, la pressione della polizia e la criminalizzazione della solidarietà – lungo i confini, che rivendicano il diritto alla mobilità, e lo esercitano concretamente, rappresentano a loro volta un messaggio politico inequivocabile. Non si tratta, evidentemente, di comportamenti disperati messi in scena da soggetti vulnerabili e/o marginali. Si tratta di un rifiuto collettivo di occupare i margini assegnati dalla storia e dalle politiche pubbliche.

La dignità del desiderio

Le deportazioni non hanno, evidentemente, un’efficacia reale: molte delle persone trasportate negli hotspot, infatti, ripartono appena possibile per le stesse zone di confine dalle quali sono state prelevate. Si tratta di una geografia del controllo simbolica e materiale, che lancia messaggi e proclami, da nord a sud, che ostacola e allontana i migranti – in maniera tutt’altro che definitiva – dalla realizzazione dei progetti migratori soggettivi.

Il tentativo di transito verso un altro paese può avere chiaramente a che fare con il desiderio di ricongiungersi con le comunità nazionali o con le reti affettive e familiari, con la ricerca di opportunità di lavoro, e così via. Può, allo stesso tempo, eccedere ogni categorizzazione e classificazione, essendo situato, appunto, nel campo del desiderio, che è per sua natura complesso, molteplice, dai contorni sfumati. Dovremmo ricordarcene, ogni volta che leggiamo i percorsi migratori come mera risultante algebrica della relazione tra le motivazioni della fuga dai contesti di origine (la fame, la miseria, la guerra, ecc) e i fattori di attrazione verso determinate destinazioni (affinità linguistiche e culturali, opportunità lavorative, ecc). Esiste una geografia del desiderio migrante, non diluibile nelle categorie umanitarie – richiedente asilo, migrante economico, ecc – che non va necessariamente indagata, interpretata, compresa, che segue traiettorie che possono essere anche imprevedibili e, perché no, incomprensibili. Esiste concretamente, è visibile nelle pratiche di resistenza attuate dalle e dai migranti, ed ha una chiarissima dignità politica, al di là delle ragioni di fondo e della nostra comprensione delle stesse.

Siamo davanti, dunque, a una sfida nella sfida, che riguarda migranti e attivisti: è necessario denunciare l’arbitrarietà, l’inutilità e la portata punitiva delle deportazione e, contemporaneamente, affermare la legittimità politica del desiderio, rivendicando il diritto alla mobilità (anche) come forma di disobbedienza nei confronti del regime di governo delle migrazioni e come esercizio effettivo dell’irriducibile e non classificabile volontà soggettiva.

C’è un ampio campo di tensione, che da diverse settimane a questa parte attraversa le aree di frontiera. È delineato dalla relazione tra migranti, attivisti, polizia e istituzioni italiane, francesi, svizzere e austriache, lungo, dentro e contro i confini e le forme di controllo sulla mobilità e sul transito. Lo stesso campo di tensione mette indubbiamente in crisi l’idea che i confini della cittadinanza europea siano equi e giusti, in un’ottica -finalmente – di apertura e solidarietà. Qui è situata la vera posta in gioco delle deportazioni in corso: è un tentativo muscolare di ricondurre all’interno del binomio bisogno/assistenza il discorso pubblico sulle migrazioni, riassorbendo tutto ciò che eccede da questa lettura. È proprio qui, dal rifiuto collettivo da parte dei migranti di occupare i margini assegnati, che è possibile ripartire per leggere in maniera politicamente orientata i conflitti delle ultime settimane ed affermare, in tante e tanti, che il desiderio è una legittima opzione politica e, allo stesso tempo, un esercizio irrinunciabile di dignità.

@Francesco Ferri

Francesco Ferri

Sono nato a Taranto e vivo a Roma. Mi occupo di diritto d'asilo, politiche migratorie e strategie di resistenza sia come attivista sia professionalmente. Ho partecipato a movimenti solidali e a ricerche collettive in Italia e in altri paesi europei. Sono migration advisor per l’ONG ActionAid Italia.