Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Il Primo Maggio nelle strade di Oakland

A cura di Alessandro De Giorgi

Sono scesi in strada a migliaia – intere famiglie a coprire almeno tre generazioni di immigrati, donne di mezza età con i passeggini, giovani avvolti nelle bandiere di mezza America latina ma quasi sempre portando in mano quella degli Stati Uniti.

Ad un anno di distanza dalle mobilitazioni oceaniche che il 1 maggio 2006 hanno squarciato il velo di invisibilità che copre i 12 milioni (secondo alcune stime 20 milioni) di immigrati “illegali” che vivono negli Stati Uniti, le manifestazioni di quest’anno confermano che la questione immigratoria è tutt’ora assolutamente cruciale. Forse meno dal punto di vista di un dibattito politico-istituzionale che risente del carosello elettorale in vista delle presidenziali del 2008 – al momento, la questione del ritiro dall’Iraq monopolizza inevitabilmente la scena mediatica – che non dal punto di vista di coloro che gli effetti di questa riforma mancata e di una escalation punitiva consumata nei confronti degli illegals nel silenzio complice dei mass media li subiscono quotidianamente: i milioni di migranti sulla cui clandestinità reale o potenziale si regge in buona parte l’economia postindustriale degli Stati Uniti.

Si tratta di uomini e donne il cui lavoro silenzioso e spesso invisibile garantisce ai ricchi professionisti in ascesa economica del settore FIRE (Finance, Insurance and Real Estate), ma anche alla più vasta middle class americana, abbigliamento pulito e in ordine tutti i giorni, pause pranzo a tempi di record, uffici splendenti ogni mattina, figli accuditi e accompagnati a lezione di soccer tre volte la settimana. Sono domésticas, lavoratori dei fast food, portieri di alberghi, janitors, lavandaie, tassisti. Sono i day-laborers che ogni giorno e a tutte le ore aspettano agli angoli delle strade che compongono la toponomastica latina di San Francisco – Mission, Valencia, Caesar Chavez – che i caporali li prelevino a bordo di Dodge e furgoni sgangherati per poi riversarli nei cantieri dove al minimo sindacale, dall’alba al tramonto costruiranno muri, ponti e strade. Sono messicani, salvadoregni, nicaraguensi, guatemaltechi: in molti casi figli e figlie di rifugiati politici prodotti dalle intese terroristiche tra la CIA e le dittature militari dell’America Latina.

Le manifestazioni del May Day rivendicano diritti, cittadinanza, assistenza sanitaria e garanzie per il lavoro di quanti e quante di fatto tirano avanti l’economia della Silicon Valley senza l’ombra di un sindacato e senza alcuna forma di tutela giuridica e contrattuale.
Ed è infatti proprio il lavoro a tornare al centro di queste dimostrazioni, catalizzando tentativi spesso fragili quanto essenziali di coalizione politica tra le diverse componenti etnorazziali della segregata geografia economica nordamericana: un lavoro che spesso contrappone immigranti latinos e cittadini afroamericani poveri, con i primi spesso collocati sul mercato del lavoro in posizione competitiva rispetto a questi ultimi.
Una questione, questa, che non sfugge affatto alle elite politico-economiche degli Stati Uniti, che infatti si dividono solo in apparenza sul tema del controllo dell’immigrazione, tra la proposta falsamente progressista di un nuovo Bracero Program e l’ipotesi apertamente reazionaria di un’ulteriore stretta repressiva sui confini, spesso nei termini indecenti di una sovrapposizione tra immigrazione e minaccia terroristica. In entrambi i casi, l’obbiettivo è quello di mantenere e approfondire la diffusa declinazione etno-razziale della competizione sul mercato del lavoro, per ricavarne ogni vantaggio economico (ridurre il costo del lavoro) e politico (prevenire la formazione di un’alleanza tra black e latinos).

Ad Oakland – città simbolo di molte contraddizioni della società americana contemporanea: dalla deindustrializzazione violenta degli anni ‘70 alla devastazione sociale degli ‘80, da un apartheid urbano che oppone anche geograficamente cittadini black e brown a livelli di violenza criminale in continua crescita in ghetti che galleggiano sull’economia informale della strada – erano diverse migliaia, 5000 o 6000 secondo gli organizzatori, al 95% latinos. Numeri molto inferiori, come si diceva, rispetto a quelli dell’anno scorso, quando solo a Oakland scesero in piazza 18000 persone, mentre centinaia di migliaia occupavano le strade di Chicago, Los Angeles, New York.
Ma questi numeri sono paradossalmente proprio il risultato della prima realtà contro cui i migranti si sono mobilitati quest’anno: la drammatica quotidianità dei raid terroristici condotti ormai sistematicamente dall’INS (Immigration and Naturalization Service) nei luoghi di lavoro ad alta concentrazione di lavoro “illegale”.
Solo nella Bay Area, l’anno scorso sono state arrestate in questo modo più di 1500 persone: lavoratrici e lavoratori catturati dagli agenti in borghese all’interno di fabbriche, uffici, supermercati, magazzini, lavanderie e capannoni. Interrogati sommariamente e senza essere informati dei propri diritti.
Prelevati da abitazioni povere e segregate nei quartieri più difficili di Oakland e San Francisco, condivise con fratelli, sorelle, genitori spesso a loro volta “illegali”.
E con figli, non di rado nati negli Stati Uniti e quindi a tutti gli effetti cittadini americani, ai quali però la legge non garantisce il diritto ad avere con sé i genitori, se questi sono undocumented e quindi passibili di deportazione.

D’altra parte però, proprio contro queste battute di caccia all’uomo – non poi così distanti dalle immagini proiettate ogni giorno con tono apologetico dalla CNN che ritraggono i soldati americani mentre irrompono nelle case dei residenti poveri di Baghdad, Tikrit o Baquba per stanare “presunti terroristi” – i movimenti dei migranti hanno iniziato a costruire forme di resistenza, o meglio di sottrazione e fuga: si moltiplicano infatti in tutta la California le linee telefoniche clandestine capaci di attivarsi in tempo reale e di diffondere notizie sui raid e le deportazioni in corso, mentre si diffondono mappe urbane (da Oakland a Santa Cruz, da San Francisco a Los Angeles) che indicano i percorsi di fuga sicuri per permettere ai migranti di sottrarsi alle retate degli agenti federali.

“Basta con i raid” e “Le famiglie non si spaccano”: questi gli slogan che ricorrono più spesso nelle manifestazioni dei migranti. E tuttavia, accanto alla denuncia pubblica delle retate e delle deportazioni, e a margine della richiesta forte che Oakland e San Francisco continuino a rappresentare modelli esemplari di “città-santuario” le cui rappresentanze politiche condannano e rifiutano questa violenza poliziesca – istanza condivisa dal sindaco di San Francisco, sceso a sua volta dal palazzo municipale a portare solidarietà ai manifestanti – prende forma un messaggio più articolato, una rivendicazione più complessiva di cittadinanza (in senso proprio) e soprattutto di rispetto nei confronti di coloro che hanno reso possibile il miracolo economico statunitense degli ultimi anni: troppo spesso, senza vederne i risultati.