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Il diritto speciale dei lavoratori migranti. La protesta di Noale (Ve) racconta un sistema costruito sul ricatto

Oxana è un’educatrice, o almeno lo era in Ucraina. È qui da sette anni con suo marito che come lei lavora per la Hub. Ha una bimba di tre anni qui in Italia e due figli più grandi rimasti ‘a casa’: “Li vado a trovare una volta all’anno perché non riesco ad andare di più. Per noi è una cosa difficile… non riesco a trovare le parole giuste… avere lontano tutta la famiglia, i miei genitori, i miei figli. Ora dovevo andarli a prendere per fare il ricongiungimento ma è successa questa cosa col lavoro e devo aspettare ancora…”
Facciamo uno sciopero” ci racconta, “perché non è giusto quello che stanno facendo nei nostri confronti, nei confronti delle sessanta persone che stanno licenziando perché è finito l’appalto in questo capannone. Noi abbiamo un contratto a tempo indeterminato e abbiamo chiesto magari un po’ di cassa integrazione, perché siamo senza lavoro, non ci danno il lavoro, ma nel contratto a tempo indeterminato c’è scritto che loro sono obbligati a trovarci un altro lavoro quando finisce questo appalto. Invece è successo che ci hanno dato 500 euro, anche se non a tutti 500 ma qualcuno ne ha presi anche 100 o meno perché dipendeva da quanto tempo le persone hanno lavorato qui e adesso hanno deciso che questi 500 euro sarebbero la liquidazione. Ma noi avevamo parlato di un’altra cosa, del fatto che l’anno scorso non ci hanno dato la diaria, la tredicesima, le ferie, ma hanno incluso tutto nello stipendio”.

Il punto è che questi cinquecento euro i lavoratori e le lavoratrici della cooperativa li avevano chiesti come un rimborso per la mensa e la malattia, tutte cose che nessuno aveva mai pagato loro. E invece la Hub glieli ha dati senza dire loro che quei soldi rappresentavano, nelle intenzioni della cooperativa, l’unica forma di liquidazione che gli spettava. E non ha alcuna esitazione ad ammettere che si, le cose stanno proprio così, anche il delegato della filiale della Hub di Conegliano, il Signor Citton, che parla di quei 500 euro come soldi concessi per dare un po’ di respiro durante l’inserimento nella lista di mobilità.
Ma adesso avete detto ai lavoratori che se non firmeranno il foglio di licenziamento voi sottrarrete questi soldi dalle loro ultime buste paga?” chiede una giornalista che ha attentamente ascoltato le parole delle lavoratrici in sciopero. “E’ stata una decisione del consiglio di amministrazione… forse non proprio garbata nei modi, lo ammetto”.
Ma sembrano essere poche le cose che i ‘padroni’ non si concedono nei confronti di questi lavoratori e di queste lavoratrici incastrati nel gioco sporco del contratto come ‘socio-lavoratore’ che vuol dire meno diritti realmente garantiti. Non è un caso che in queste condizioni lavorano sempre più cittadini non italiani…
Siamo tutti non italiani, tutti noi, sessanta persone, siamo stranieri. siamo rumeni, ucraini, moldavi, cinesi… avevamo anche un peruviano… tutti stranieri…” ci dice ancora Oxana, e sul motivo lei non ha dubbi: “Perché questo è un lavoro difficile e lo sanno tutti… e poi c’è un’altra cosa. Noi qui facciamo le macchine tosaerba, siamo metalmeccanici. Però ci pagano come facchini e abbiamo il contratto di facchinaggio. C’è scritto: non operaio ma facchino. Quindi pagano meno, non pagano come pagherebbero un operaio metalmeccanico . Con gli italiani questa cosa sicuramente non la farebbero”.

Ora si iniziano a delineare meglio i contorni di questa storia: queste persone hanno in realtà svolto mansioni da metalmeccanici, per anni, ma sono state assunte con un contratto di facchinaggio. Ciò significa che sono sempre state pagate meno di quanto avrebbero dovuto e che adesso non possono godere degli ammortizzatori sociali che spetterebbero loro se avessero avuto un inquadramento corrispondente al lavoro realmente svolto.
Su questo Citton invece non ammette nulla: “fanno solo assemblaggio”, dice lui “rientra nella ragione sociale della cooperativa”.
Ma quello che le lavoratrici ci raccontano del loro lavoro fa pensare a ben altro che a un semplice lavoro di assemblaggio.
Ina è un po’ la portavoce della protesta, si vede che forza la sua timidezza, ma si vede anche che non sarà facile farla desistere. Viene dalla Moldavia, è in Italia da sette anni e ha dovuto iniziare a lavorare in fabbrica per potersi permettere il ricongiungimento familiare con i figli. È la quinta stagione che lei e suo marito lavorano in quel capannone svolgendo un lavoro da metalmeccanici ma avendo sempre un contratto da facchino. Lei è un medico, suo marito faceva il poliziotto. Ci racconta che tanta gente, lì dentro, è laureata e non aveva mai fatto il metalmeccanico prima di iniziare a lavorare in quel capannone.
Descrive in cosa consiste ‘ l’assemblaggio’ con queste parole:
Noi montiamo i tosaerba. Io per esempio, ma anche tante altre donne, faccio tre o quattro operazioni con due o tre pistole sulla linea che corre. Facciamo seicento, settecento macchine al giorno, dipende dalla facilità delle macchine che ci arrivano da montare”.

Ma non avete un’assicurazione adeguata per quello che fate?”

No, niente”.

“E non è mai successo che qualcuno si è fatto male con le macchine?”

“Si, ma se fai causa ti lasciano a casa”.

E del resto il solito Citton non si fa problemi a dire che quando la Hub ha rilevato i lavoratori che prima lavoravano per un’altra cooperativa, ha pensato che, se quelle persone facevano questo lavoro da anni, non era certo necessario fare dei corsi di formazione.
E poi”, aggiunge, “gli incidenti qui sono sempre stati nella soglia della normalità”.
Ma, verrebbe ancora da chiedergli, esiste una soglia di infortuni tollerabili? Una normalità di incidenti che si può sopportare?

Non ci danno le tute anti-infortunio”, continua Ina, “Solo le scarpe, quelle che non riesci a mettere perché sono come di legno. Per il resto ti devi vestire tu da sola. Non ci pagano neanche la mensa. Tutto è compreso nei 6,15 euro l’ora che ci danno. Alcuni vengono pagati anche 5 euro l’ora e in quei 5 euro è compresa la mensa, la tredicesima, la quattordicesima e tutto quanto. Noi prendiamo 6, 15 euro perché lavoriamo qui da quattro anni… lavorando qua per un anno abbiamo preso solo 108 euro di tfr e hanno dato la colpa all’inps. Non so come hanno fatto i conti, non dovevamo prendere il 60%?”

Inoltre, con la Hub si lavora solo cinque o sei mesi l’anno, e il resto del tempo si rimane a casa senza prendere una lira e prima anche quando c’era la cooperativa Cmt, “se mancava la roba per colpa della GGp, e succedeva anche due o tre giorni alla settimana, ti mandavano a casa senza pagarti. Lavoravi solo 50 o 60 ore al mese. Poi dopo che ci siamo ribellati e ci siamo appellati al sindacato ci hanno cominciati a pagare anche se la linea era ferma . questa cosa l’abbiamo vinta noi”.
Ina lo dice con fatica e soddisfazione insieme.

Perché questi lavoratori non hanno mai denunciato tutte queste cose prima? Chiedono i carabinieri mandati a cercare di mediare con i manifestanti dopo aver desistito da un tentativo appena accennato di controllare i permessi di soggiorno a tutti i presenti (fatevi dare la lista dei lavoratori, è stato detto loro, sono tutti in regola).

La risposta è semplice: quando perdere un lavoro significa perdere un permesso di soggiorno oltre che la possibilità di sfamare o mandare a scuola i tuoi figli o di ricongiungerti a loro se sono lontani, è difficile che qualcuno alzi la voce.
Lo sanno bene le donne che stanno scioperando, che sono più della metà di questi lavoratori, e che ci raccontano che “In capannone d’inverno fa tanto freddo, tanto freddo come fuori” e che lavorano “Con le mani gelate. Con i piedi gelati. Abbiamo solo 7 minuti di pausa la mattina e poi mezz’ora del pranzo. Ma poi devi recuperare tutto e allora ti mettono la linea più veloce e questo vuol dire un lavoro più pericoloso”.

E nel frattempo le tre ditte interessate si passano a vicenda la patata bollente. La Hub si rivolge alla Cablob, entrambe dicono di avere le mani legate se non si muove la GGP e la GGP si dà latitante rifiutando anche solo di ascoltare le istanze dei lavoratori e delle lavoratrici. Tutte, minacciano di rivalersi su chi sta protestando.
Parliamo di sub-sub-subappalti, di un gioco perverso che il mercato del lavoro ha imparato a fare per garantirsi costi minori a discapito dei diritti dei lavoratori.
Meglio, ovviamente, se i lavoratori in questione sono persone che rischiano di perdere tutto, che difficilmente si sindacalizzeranno e impareranno a rivendicare quel che spetta loro.

Mustafà, uno dei lavoratori marocchini, ci racconta che “ gli italiani non li fanno questi lavori qua, come il nostro, mica sono scemi…” e Ina gli fa eco: “E certo perché a noi ci possono sfruttare di più. Abbiamo avuto tanti casi qui di italiani che sono arrivati a lavorare e al secondo o al terzo giorno sono andati via dicendoci con tutto il dispiacere che sono pronti a lavorare 15 ore al giorno, che hanno voglia di lavorare, ma non in questo modo. Hanno detto, piangendo, ‘io non posso stare qua. Posso lavorare anche quindici ore al giorno ma non in questo modo: la linea che correva, le cose che cadevano dalle macchine’… sono cose che dovreste vedere

Allora non è vero che gli stranieri rubano il lavoro agli italiani?” qualcuno gli chiede provocatoriamente.
Se un italiano deve dare un lavoro veramente brutto allora chiama a lavorare uno straniero, risponde Mustafà.

Hanno tutti dei desideri inciampati nelle maglie delle politiche migratorie italiane.
Ina stava per riuscire, finalmente, ad avere una carta di soggiorno ed essere un po’ meno precaria, lei e sua figlia, che fa la seconda media qui in Italia. Ma se lei e suo marito perderanno il lavoro e non troveranno un altro contratto a tempo indeterminato questo sarà impossibile.
Yuri ha un figlio che ha il 45% del corpo segnato dalle ustioni. Sogna di farlo operare, ma non bastano mai i soldi. Ora voleva provarci ma poi quello che è successo e questo sciopero…
Mustafà è qui dal ’90. Ha visto passare tanti governi e tante leggi diverse sull’immigrazione in Italia. Non è andata meglio, ci dice…

ci sembra che qualche volta abbiamo solo dei doveri conclude Ina.

Nel frattempo i carabinieri, sottolineando che è un loro dovere farlo, informano che se non verrà subito rimosso il blocco chi lo sta facendo potrà incorrere in provvedimenti penali. “E sapete cosa significano i provvedimenti penali per degli immigrati, vero?”

Ma questo ricatto, almeno stavolta, non funziona. Questo come gli altri.
I lavoratori e le lavoratrici restano in occupazione e la protesta continuerà finché non verranno date delle risposte.

(a cura di Alessandra Sciurba)

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