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La costruzione del confine

Indagine sul significato di una parola-mondo

Oggi parliamo di confini, e lo facciamo partendo da un ricordo comune a molti di noi, un ricordo che riguarda l’infanzia e più precisamente la scuola. Perché? Perché la scuola, almeno fino a qualche mese fa, è il luogo dove i bambini passano la maggior parte del loro tempo, ed è lo spazio dove apprendono le concettualizzazioni proprie della realtà di cui fanno parte. Tra queste concezioni, rientra anche quella della parola confine, che non esprime solo un mero significato da dizionario, ma al contrario rispecchia la cultura di cui fa parte.

Tra le diverse situazioni che potrebbero essere prese da esempio, utilizziamo innanzitutto quella della pratica di colorare i disegni, una pratica che accompagna ed ha accompagnato l’infanzia di molti; affiancata ad essa, ritroviamo la famosa frase ripetuta instancabilmente: “stai dentro i bordi”. Questa pratica, apparentemente neutrale, è tuttavia paradigmatica per comprendere una concettualizzazione dello spazio ben precisa: essa riflette una logica categoriale tutta “occidentale”, la quale si riproduce, mutevole, attraverso le istituzioni – e quindi attraverso i soggetti.
Per comprendere meglio, prendiamo un altro esempio, sempre dalla scuola: l’insiemistica. Ve la ricordate? Pagine e pagine di insiemi, dai confini ben definiti, marcati di nero, netti; e al loro interno, elementi omogenei, in qualche modo coerenti tra loro.

Anche in questo caso, inevitabilmente, il sapere che viene insegnato non è neutrale – e non potrebbe non esserlo -, proprio per il fatto di rispecchiare un modello propriamente occidentale, quindi contestualmente determinato, figlio e contemporaneamente alleato di una cultura fondata sull’essere, sull’identità, sull’unità – diversamente da altre, come per esempio quella cinese, incentrata più sulla processualità.

Una cultura che, come molte se non tutte, tende a naturalizzare i propri concetti; è così che il confine nelle sue molteplici accezioni ci appare imprescindibile dalla vita stessa: il confine della proprio persona, della propria casa, dei propri averi, in un’estensione via via meno tangibile che tocca, al suo apice, la configurazione dello Stato. Uno Stato dai confini marcati, determinanti di un’omogeneità difficilmente pensabile diversamente.

Ed è così che vengono riprodotti sulla carta geografica, riprendendo il tipo di logica categoriale insegnataci fin dalla scuola: Stati confinanti l’uno con l’altro ed allo stesso tempo divisi da una demarcazione invalicabile, se non entro certi permessi, divisi perché diversi – o forse diversi perché divisi -, costruiti per racchiudere una popolazione unitaria – e qui il colore nelle mappe vien d’aiuto -, nonostante “l’arbitrarietà sia presente ogniqualvolta si tracciano confini”, come ci ricorda Fabietti (Fabietti, 2016).

Sono ora necessarie almeno due riflessioni.

La prima: precedentemente alle formazioni statali questa rappresentazione spaziale era assai diversa e, di conseguenza, lo era anche la concezione dello spazio. Piuttosto che di confini si poteva parlare di frontiere, fasce di terra sfumate, ibride. Spazi misti che, nonostante continuino ad esistere, sono ad oggi spazzati via da rappresentazioni unitarie, e da un termine quale confine, che è tuttavia così fragile da necessitare un segno forte.

Seconda riflessione: la logica categoriale di cui abbiamo parlato, pure essendo in un certo senso fondante della nostra stessa cultura, è poco o difficilmente utilizzata dagli uomini nella loro quotidianità. Eleanor Rosch ed altri scienziati cognitivi, infatti, hanno teorizzato che la logica maggiormente utilizzata per ordinare e pensare il mondo sia quella prototipica, che rimanda al concetto delle “somiglianze di famiglia” di Wittgenstein: dagli elementi centrali, ovvero i prototipi, si riconducono elementi ad essi collegati per analogia (come ad esempio casa —> tenda). I legami tra le varie parti sono flessibili e, soprattutto, i confini dei diversi gruppi sono sfumati ed intersecati, ed ogni elemento può liberamente appartenere a più gruppi diversi ma non necessariamente distinti.

Ecco che l’idea che le categorie omogenee siano naturali – o che il mondo sia necessariamente definibile attraverso di esse – inizia a traballare. Si fa spazio una possibilità secondaria: le idee sono mutevoli, e così le parole che esprimono tali idee, e così ancora i poteri che le definiscono – perché i confini sono prodotti della storia, e quindi di dinamiche di potere). La staticità delle concezione attraverso cui intendiamo il mondo appare meno solida, mentre cresce la consapevolezza di poter agire sui significati delle parole che utilizziamo, innanzitutto decostruendo la loro “datità”.

Il fatto di osservare la cartina politica del mondo e vedere macchie di colore separate tra di loro, o essere abituati alla grandezza dei Paesi data dalla cartografia di Mercatore, che aumenta le dimensioni dei territori tanto più ci sia muove verso i poli, contribuisce a costruire un’immagine del mondo storpiata – e se vi dicessi che la Groenlandia è poco più grande del Ciad e della Repubblica Centrafricana messe assieme? Le zone di confine, o meglio di frontiera, sono zone spesso ibride ed inevitabilmente legate da una storia comune; è tuttavia la necessità di definire qualcosa in contrapposizione ad altro – spesso il proprio vicino – che sono nati i confini.

È allora importante compiere un cambiamento di sguardo, approfondendo e riflettendo sulle dinamiche che hanno contribuito al formarsi di una data parola, di un tale concetto. Perché non vi è nulla di naturale in un confine, esso è solo spazio territorializzato e, in quanto tale, spesso divisore.

Flessibilità significa saper continuamente spostare i confini” (Piasere, 2002).


Bibliografia

Fabietti Ugo., Medio Oriente. Uno sguardo antropologico, Raffaello Cortina Editore, 2016, pp. 17
Piasere Leonardo., L’etnografo imperfetto. Esperienza e cognizione in antropologia, Laterza Editore, 2002, pp. 74
– Sito web dove si possono vedere le reali dimensioni dei Paesi: The true size of…

Lidia Tortarolo

Quasi antropologa e aspirante ricercatrice. Vivo a Milano ma vorrei spesso essere Altrove. Mi interesso di migrazione perché non posso non farlo: è qualcosa che mi prende lo stomaco, me lo rigira. Al momento mi sto occupando principalmente di temi legati all’antropologia della violenza e all’antropologia medica, in relazione al contesto migratorio della Rotta Balcanica.