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Le metafore acquatiche ed i migranti mediterranei

di Francesco La Pia

Emergenza. E’ questa la parola che riecheggia sulla stampa europea in seguito all’arrivo persistente di barconi provenienti dalla costa meridionale del Mediterraneo.
Eppure tale termine non è riferito alle condizioni che hanno sospinto i migranti ad intraprendere un viaggio costoso, alla violazione dei loro diritti, ad una situazione lavorativa già insostenibile prima dell’inizio del ciclo rivoluzionario. E’ una preoccupazione endogena alla “Fortezza Europa”, che mai come in queste settimane si sta rivelando fragile al suo interno.

Ping pong Roma-Parigi
Il braccio di ferro tra i governi rivieraschi e quelli del nord, ed in particolare lo scontro frontale tra Parigi e Roma, sviliscono e disumanizzano i reali protagonisti di questo dramma nostrum (in quanto mare). Dalle visite congiunte di Marine Le Pen ed esponenti leghisti a Lampedusa per denunciare l’inazione comunitaria, ai proclami farseschi del primo ministro Berlusconi, il quale ha scelto l’isola siciliana quale nuovo palcoscenico ove portare in scena un teatrino fatto di populismo e proposte politiche di corto raggio.
E se l’Italia, tramite il ministro dell’Interno Maroni, si lamenta dell’ostilità francese per il transito dei migranti tunisini e concede un permesso di soggiorno temporaneo per motivi umanitari con il chiaro intento di liberarsene, la risposta del suo omologo Claude Guéant è quella di una chiusura della frontiera, con un’interpretazione restrittiva del regolamento Schengen, e la riconsegna alle autorità italiane di un fardello di cui pare nessuno voglia prendersi l’onere. In base ad un accordo bilaterale di riammissione del 1997 a Ventimiglia si sta giocando una barbara partita di ping-pong, che sebbene non sia ancor chiaro chi vedrà come vincitore, trova già nelle sue regole del gioco i sicuri perdenti, ovverosia gli immigrati rimpallati.
L’incontro dell’8 aprile tra Maroni e Guéant non ha prodotto un sostanziale cambiamento della situazione. La Francia ha ribadito la sua posizione riguardo la procedura Schengen ed il governo italiano ha presentato come un successo l’accordo sui pattugliamenti congiunti e la creazione di un gruppo di lavoro comune, non trovando una vera soluzione alla questione frontaliera di Ventimiglia.
Il tie-break si preannuncia lungo e combattuto in attesa del vertice Berlusconi-Sarkozy di fine aprile.

Le tendopli

Ma non è necessario osservare oltreconfine per comprendere l’approssimazione con cui la questione viene trattata. I 25.000 immigrati giunti da gennaio stanno divenendo un nodo della discordia tra Stato ed enti locali. Finora le uniche tendopoli pronte all’accoglienza sono distribuite nel meridione (fattore che denota come l’enfasi sull’unità italiana non sia stata accompagnata da una efficace riflessione sui legami solidaristici che dovrebbero costituire il fondamento della nostra appartenenza collettiva), e se osserviamo il caso di Manduria possiamo chiederci quale sia il regime giuridico, dato che per istituire un CIE è necessario un decreto governativo (nella cui assenza il trattenimento diviene illegittimo), mentre nel caso fosse un Centro di Prima Accoglienza non potrebbe trattenere gli immigrati. E difatti non è questo il ruolo che svolge, le fughe si susseguono e la polizia tacitamente osserva la realtà che sottende alla presentazione mediatica di luoghi dove – come ha denunciato la rappresentante dell’UNHCR in Italia, Laura Boldrini nel caso di Mineo – non v’è la possibilità di distinguere tra migranti tunisini e richiedenti asilo.

Gli accordi con Tunisi
Nel 1998 la Tunisia di Ben Alì, assieme al Marocco, è stato il primo paese con cui l’Italia abbia firmato degli accordi di riammissione. Ciò è avvenuto nel quadro di una politica di sviluppo condizionale che ha visto il controllo migratorio come una merce di scambio, un do ut des per ricevere aiuti e quote di lavoratori. Dal 3 al 5 agosto 1998 la commissione mista italo-tunisina si accordò per un nuovo programma di prestiti valido fino al 2001 (dell’ammontare complessivo di 152 milioni di euro), a cui seguì il 6 agosto la firma di un accordo di riammissione. A questo seguirono ulteriori intese che dal 2002 si inscrivono nei limiti imposti dalla legge 189/2002 (Bossi-Fini) in cui all’art.1 è previsto che “nella elaborazione e nella eventuale revisione dei programmi bilaterali di cooperazione e di aiuto (…) il Governo tiene conto anche della collaborazione prestata dai Paesi interessati alla prevenzione dei flussi migratori illegali e al contrasto delle organizzazioni criminali operanti nell’immigrazione clandestina. Inoltre il Governo “può procedere alla revisione dei programmi di cooperazione e di aiuto (…) qualora i Governi degli Stati interessati non adottino misure (…) atte a prevenire il rientro illegale sul territorio italiano di cittadini espulsi”.

É ancor più interessante osservare come l’ampliamento o il restringimento delle quote dedicate ai lavoratori tunisini abbia seguito la falsariga degli accordi ministeriali.
Il decreto flussi del 1998 venne ampliato ed il nostro Governo riservò 1.500 entrate, ma la scarsa collaborazione sul tema migratorio portò ad una riduzione delle quote, da 3.000 (2001) a 2.000 (2000) fino alle 600 del 2003. Ma, sei giorni dopo la firma del rinnovato accordo di cooperazione poliziaria il 13 dicembre 2003, il decreto flussi 2004 riportò la quota a 3.000 lavoratori.
Nonostante gli accordi di cooperazione vadano siglati nel rispetto delle convenzioni internazionali a tutela dei diritti umani, é di pochi giorni fa la sentenza con la quale la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo condanna l’Italia per l’espulsione di un cittadino tunisino sottoposto a tortura, sebbene Roma considerasse la Tunisia un paese terzo sicuro.

E l’attuale logica governativa si inscrive nel solco di quelle tracciate dal 1998 ad oggi, in cui v’è una mercificazione della popolazione migrante, che diviene una quota, un numero su cui fare calcoli algebrici, considerandone il suo valore d’uso in base all’esigenza politica contingente.
L’accordo raggiunto il 5 aprile tra i ministri dell’interno Maroni e Habib Essed prevede che i tunisini, giunti prima dell’accordo, potranno beneficiare di un permesso di soggiorno temporaneo della durata massima di sei mesi in cambio di una procedura di ritorno semplificata ed accelerata per i nuovi arrivati, che non richiederà riconoscimento della documentazione né registrazione delle impronte digitali. Ma in questo modo appare difficile l’accesso alla richiesta d’asilo per chi non ha il diritto di dimostrare la propria nazionalità e le ragioni che lo hanno spinto a giungere in Italia, e ciò vale in particolare per gli eritrei, somali ed etiopi che si stanno sommando ai tunisini nei barconi che attraversano le acque del canale di Sicilia.
Il primo rimpatrio è avvenuto nella notte tra giovedí e venerdí, e si continua a gridare ad un’invasione migratoria che non è avvenuta. 25.000 immigrati per una delle maggiori economie mondiali non costituiscono il “rischio di essere sommersi da una valanga”. Nello stesso periodo in Tunisia sono giunti più di 150.000 richiedenti asilo, in un paese che nell’inebriante clima della rivoluzione, deve ora affrontare la sfida della ricostruzione. E sta re iniziando da un tessuto sociale che si è attivato per portare sostegno a chi è scappato dalla Libia, conscio di cosa significhi la scelta della fuga.
Dalle nostre coste tutto ciò appare lontano e forse chimerico, eppure esistono tipi di risposta diversa a quella che stiamo dando.

Le metafore acquatiche
Vorrei concludere questa riflessione soffermandomi sulle metafore acquatiche dei nostri governanti, in particolare degli esponenti della Lega Nord.
Ritengo che sia incivile e barbaro l’utilizzo del frasario e della terminologia attuale, facente da sempre parte del sostrato culturale leghista, in cui, mentre negli ultimi 10 giorni sono morte affogate almeno 400 persone in un braccio di mare di 100 km, si parla di necessità di “chiudere il rubinetto” e di “svuotare la vasca”. Il fatto che un politico, che rappresenta me e voi che state leggendo, possa permettersi una tale mancanza di rispetto e dimostrare la xenofobia connaturata al suo orientamento politico richiama il concetto di emergenza.
Ma è un’emergenza tutta nostra, hic et nunc, ed è democratica.
E se la primavera in Italia non fosse ancora giunta?