Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

da Il Manifesto del 23 agosto 2005

Le speranze sotto un camion

CINZIA GUBBINI

TANGERI
In genere, succede di notte. E’ il momento migliore per provare a infilarsi sotto un camion. I lavoratori del porto li conoscono uno a uno, pure la polizia. Non è difficile credere che chiudano un occhio quando qualche bambino si nasconde lì sotto, e cerca di imbarcarsi indisturbato su un traghetto diretto in Spagna, ma a volte anche in Francia e in Italia. Sono loro, i ragazzini del porto di Tangeri, la nuova preoccupazione del governo spagnolo in fatto di immigrazione. I dati parlano chiaro e hanno catturato l’interesse di tutti nell’ultimo vertice tra Spagna e Marocco, che si è svolto a metà luglio: diminuiscono gli sbarchi di marocchini sulle coste spagnole (-20% nello Stretto di Gibilterra, -41% nelle isole Canarie). Ma cresce il fenomeno dei «minori non accompagnati» , e di parecchio: +23% rispetto al 2004. Ragazzi tra i tredici e i diciassette anni che rincorrono il miraggio dell’Europa. Alcuni arrivano in Spagna con le carrette del mare, anche questo un fenomeno in aumento. Ma il viaggio è costoso, e da quando la Spagna ha militarizzato lo Stretto di Gibilterra attraverso il Sive (Servizio di vigilanza dello Stretto) si parte da luoghi sempre più impervi e più lontani dalla Spagna, cosicché il viaggio diventa più lungo e i rischi si moltiplicano. A chi è piccolo, sveglio e spregiudicato conviene molto di più il metodo del camion. Un salto per infilarsi sotto il traino, il coraggio di stare in silenzio, appiattito, trattenendo il respiro. La forza d’animo, una volta arrivati dall’altra parte, di saltare giù e provare a confondersi tra la folla del porto. La vita dei porti questi giovani aspiranti emigranti la conoscono bene. In quello di Tangeri, praticamente ci vivono. Per molti di loro è diventato una vera e propria casa, dopo aver abbandonato la famiglia. Spesso, vengono da zone di campagna, situate all’interno del Marocco come Beni Mella, Kela Sragna, Er Rachidia, dove esiste una forte tradizione migratoria. Altri vengono invece da zone urbane come Casablanca, Larache, Tétuan. Alcuni non hanno abbandonato la famiglia, vivono a Tangeri e di notte dormono in un letto vero e proprio. I loro compagni, invece, si rifugiano nei caseggiati abbandonati di fianco al porto, dove avrebbe dovuto sorgere una stazione ferroviaria, secondo il progetto del vecchio re Hassan II.

Le promesse del porto

Di giorno gironzolano sul molo, spesso si divertono a pescare, oppure si tuffano nelle acque luride prima che qualche poliziotto arrivi a guastargli la festa. Osservano e partecipano alla vita del porto, che è uno specchio fedele delle relazioni bilaterali fittissime tra il Marocco e la Spagna. Spagna si vede a occhio nudo dall’altra parte del mare, quando c’è bel tempo. La vita nel porto brulica, ed è piena di promesse: circolano merci, turisti e l’estate è il momento migliore per osservare lo spettacolo dei marocchini che tornano dall’estero, gli zmagria, come li chiamano qui, che sbarcano con i loro macchinoni zeppi di regali per la famiglia rimasta in patria. Un miraggio più che mai tangibile della vita «dall’altra parte». Quando i controlli nel porto si fanno troppo fitti, i ragazzini si confondono per le vie della Medina che si inerpica vorticosa sul fianco del porto. Cercano di guadagnarsi la vita, qualcuno vende fazzoletti o accendini, altri chiedono soldi ai turisti. A volte rimangono vittime della violenza sessuale, qui in Marocco come in Spagna. A pranzo, nei ristoranti che danno sulla via del molo, capita spesso di assistere all’assalto fulmineo di un gruppo di ragazzini che cerca di finire ciò che l’ultimo cliente ha lasciato nel piatto, prima che arrivi a scacciarli un cameriere.

Le risorse

Ma sarebbe sbagliato pensare che questi ragazzi siano assimilabili ai «bambini di strada» di cui sempre più spesso si racconta: «Non vanno a scuola, sono certamente poveri e spesso non hanno una casa. Tuttavia la maggior parte di loro ha alle spalle una famiglia solida e un progetto per il futuro. Ci vuole intelligenza e astuzia per riuscire a emigrare, ci vogliono risorse», spiega Vincenç Galea I Montero, un educatore di Barcellona, che nei giorni scorsi si trovava a Tangeri per conoscere la famiglia di uno dei minori non accompagnati che ce l’ha fatta, e oggi vive e lavora regolarmente in Spagna. Di certo la vita del porto già seleziona chi riuscirà a fare il grande salto e chi è destinato a non farcela.

Alcuni ragazzini, infatti, alla lunga si lasciano andare. Anche qui, come in altre parti del mondo, la piaga si chiama solvente. Solvente per vernici che viene inalato per stordirsi: la droga dei poveri, economica e micidiale. Chi si riempie di solvente di certo non salta su un camion. Per farlo bisogna essere coscienti e mettere su un piano. Emigrare, fregare il sistema dei controlli, lasciarsi alle spalle la famiglia e le tradizioni rappresenta anche una sorta di rito di iniziazione. I ragazzini si sfidano a vicenda: «Avresti il coraggio?». Anche se tanta preparazione può portare dritti dritti a un fallimento, cioè al rimpatrio. Hassan, uno di quelli che dormono nella vecchia stazione, ormai di anni ne ha ventuno eppure spera ancora. «Ho provato a emigrare due volte con i camion – racconta seduto sulla spiaggia – la prima ero giovane, avevo quindici anni, era il `98. Mi rimandarono indietro. La seconda poco prima dei diciotto anni, pure quella volta mi è andata male». «Io ci ho già provato sette volte», racconta invece Omar, quindici anni anche se ne dimostra molti di meno. La zazzera bionda, il corpo magrissimo, lo sguardo deciso: «In Spagna vive mio cugino, sta a Granada. Se un giorno riesco a passare, mi darà una mano». I sette tentativi falliti non hanno tutti lo stesso peso. A volte, Omar è stato scoperto ancor prima di mettere piede sul camion. Ma anche nel suo caso per due volte lo hanno rimandato indietro. E’ successo al porto di Algeciras. «Mi ricordo questa luce accecante, era la pila del poliziotto», dice.

Tutti a casa

La faccenda delle espulsioni dei minori non accompagnati ha fatto passare un brutto quarto d’ora alla politica spagnola. Come in Italia, anche in Spagna sono previsti i «rimpatri assistiti», in collaborazione con il Marocco, che prevedono un ritorno a casa del minore qualora la sua famiglia acconsenta. Ma nel 2003 il governo Aznar, compreso che quello dei minori non accompagnati era un fenomeno in crescita, optò per una legge draconiana stabilendo l’espulsione immediata per tutti i minori con più di sedici anni non accompagnati entrati illegalmente in Spagna. Come giustificò questa scelta? Facile: questi ragazzi andavano considerati «maggiorenni di fatto», come se il processo migratorio avesse dimostrato la loro autonomia e liberato lo stato spagnolo dalla necessità di proteggerli secondo «il supremo interesse del minore», come stabilisce la Convenzione internazionale dei diritti del fanciullo. Per i minori di 16 anni, rimaneva l’alternativa del rimpatrio assistito.

Questa decisione provocò una polemica molto dura da parte delle associazioni e dei movimenti per i diritti dei minori. Uno studio pubblicato dalla Federazione Sos Razzismo denunciò l’anno scorso che i minori venivano espulsi dalla Fiscalia General (la Procura della Repubblica) anche entro le 48 ore, e con un accertamento dell’età molto sbrigativo. Inoltre, spesso i minori espulsi venivano abbandonati a Beni Enzar, al confine con Melilla, l’énclave spagnola in Marocco. I ragazzi erano costretti a tornare a casa con i loro mezzi. Ma come dimostrava lo studio, che si basava sull’intervista con 28 ragazzi tutti rimpatriati in base alla legge spagnola, l’espulsione non aveva minimamente inciso sulla loro volontà di arrivare in Europa. Dunque, erano tutti di nuovo a Tangeri per riprovarci.

Con l’elezione del governo Zapatero, la legge è stata ritirata e ora il sistema è più protettivo nei confronti dei minori. Tuttavia, le polemiche tra le ong e il governo spagnolo continuano. Anche il governo socialista, infatti, ha deciso di porre un freno all’emigrazione incontrollata di minori non accompagnati e alla fine di luglio ha stretto un accordo inedito con il regno marocchino, che finora si era sempre rifiutato di colaborare in questo senso: in Marocco verranno costruiti dei «centri per l’infanzia», in cui sarà possibile rimpatriare tutti i minori non accompagnati diretti in Spagna. L’accordo è stato siglato tra la ministra spagnola per l’immigrazione, Consuelo Rumi, e il ministro dell’interno marocchino, Mohieddine Amzazi. I primi centri si apriranno a Tangeri, Nador, Laayoune e Dakhla.

Una scelta miope

«Si tratta di una scelta miope, che non fermerà i tentativi di emigrazione illegale da parte dei minori marocchini, e che per l’ennesima volta antepone la lotta contro l’immigrazione clandestina alla tutela dei minori – spiega l’antropologa spagnola Mercedes Jimenez, che da anni studia dall’osservatorio privilegiato di Tangeri il fenomeno dell’emigrazione dei minori non accompagnati – E non funzionerà per il semplice fatto che i ragazzi vogliono stare in Spagna e non in Marocco. Le ragioni sono reali, concrete, non si tratta di un gioco: non vedono un futuro in Marocco, vogliono guadagnarsi la vita, fare esperienza, molto spesso sono influenzati dai loro fratelli maggiori o dai cugini più grandi che se ne sono andati e hanno dato una svolta alla loro vita». Cosa bisognerebbe fare, allora? «A mio avviso è necessario che il Marocco investa i suoi soldi in una seria politica per l’infanzia, migliorando il sistema scolastico, visto che l’analfabetismo è ancora molto diffuso, e costruendo alternative credibili all’emigrazione clandestina». Il fenomeno dell’emigrazione dei minori è molto complesso e carico di variabili. Se è vero che il bisogno economico è un fattore che gioca un ruolo importante nella decisione di saltare sotto un camion per raggiungere l’Europa, è anche vero che non è né l’unico né il più importante. Per i ragazzi dei paesi a forte tendenza migratoria, espatriare significa anche diventare grandi, rendersi autonomi dalla famiglia, spezzare i legami con la tradizione. Se ogni emigrante porta con sé una storia, questa dovrebbe essere ancora più importante quando si tratta di un minore. Che con sé porta anche una carica di energia insopprimibile.

Vivcenç Montero ama raccontare la storia di un ragazzo, arrivato in Spagna illegalmente insieme al suo migliore amico. Anche loro facevano parte dei ragazzini che passano le giornate al porto di Tangeri. Il primo, che chiameremo Najib, era il capo, un tipo spavaldo. L’altro, che chiameremo Yassine, era invece un tipo insicuro, che saltò sotto al camion soltanto perché gli altri lo sfottevano, dicendogli che non avrebbe mai avuto il coraggio di farlo. Pianse per per tutto il viaggio. Oggi Yassine fa l’operaio, e spesso torna in Marocco a trovare la famiglia. Najib ha trovato il modo di far fruttare il suo talento, facendo di ciò che a casa sua era sempre stato considerato un gioco – la passione per le canzoni – un possibile lavoro. Ha appena inciso il suo primo cd. Per ora guadagna poco o niente. Ma sia Najib che Yassine hanno trovato se stessi.

SCHEDA – 3 milioni i marocchini all’estero
I marocchini che vivono all’estero (Mre) sono circa 3 milioni, su una popolazione totale di circa 30 milioni (stima del 2001). Ogni anno, d’estate, tornano in patria moltissimi emigranti: nel 2004, da giugno a settembre, ne sono tornati 1,6 milioni. Gli emigranti sono considerati un fattore importante dell’economia interna, grazie alle cosiddette «rimesse» (i soldi che gli espatriati inviano in patria) che secondo alcune stime corrispondono a circa 3,3 miliardi di euro all’anno. Ma rappresentano anche il motore dell’immaginario europeo che si propaga nel paese, fatto di soldi, lavoro, belle case e belle macchine. Quest’anno sui giornali marocchini si è scatenato un dibattito su come attivare una «politica strategica» per migliorare il rapporto tra il Marocco e i suoi «figli all’estero». La persona incaricata del Dipartimento per gli Mre dal 2002 è una donna: Nezha Chekrouni. Ma da più parti viene tacciata di immobilismo, mentre le associazioni che rappresentano in patria i marocchini che vivono all’estero puntano in alto, e chiedono il diritto di voto.