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Moria. Non chiamatelo inferno

di Diego Saccora, APS Lungo la Rotta Balcanica

Questo è un inferno, dicono. Ma fa comodo dire che è un inferno, rende tutto voluto da sfere più alte, divine e metafisiche. Uno spazio senza tempo dove non si può far nulla se non raccontare, stare a guardare inermi, subire. No, Moria non è un inferno. E’ la mia vita.

Mi chiamo Hassan, sono di Damasco. Sono qui da 10 mesi, i primi 8 li ho passati nel carcere dentro al campo. Sono qui con la mia famiglia che ovviamente non ha mai provato a spostarsi mentre io ero rinchiuso. Non potevo dir loro che stavo bene, né che stavo male. Niente. Ma dalla mia finestrella, attraverso le reti, il filo spinato e l’altra rete potevo vedere mio fratello, lontano, lungo la strada fuori dal campo.

Quella era la misura con cui potevo ancora tenermi ancorato ai miei affetti. Non mi accusavano di nulla, mi hanno rilasciato per nulla. E’ così che va per tanti.
Viviamo in 10 sotto a un tendaggio, fatto di stoffe rattoppate, pali in legno troppo secco e corde. Ogni giorno dobbiamo fare manutenzione perché basta un po’ più di vento o qualcuno che ci urti contro e cade tutto. Oltre ai continui furti dei pezzi migliori. Si, qui ti riducono a rubare stracci, confliggere per cose ridicole, morirne magari.

Viviamo ai lati dell’area 11, sotto la collina da cui la settimana scorsa un gruppo di fascisti si è fatto strada ed è entrato nel campo. Sono passati proprio vicino al nostro ingresso, dove giocavano dei bambini, dove era stesa a riposare anche mia madre. La tenda ha retto, ma un mio amico, padre di due bambini piccoli è stato preso a calci mentre aspettava la razione di cibo.

Sono l’ultimo arrivato, gli altri parenti vivi sono qui o in Germania. Li sentiamo poco, non c’è un wifi per tutti, non abbiamo denaro per ricaricare e io comunque non ho il telefono.


Nessuno dei miei compagni di viaggio si trova ancora nell’isola. Sono stati portati indietro in Turchia, alcuni riportati fino in Siria.

Noi non potevamo uscire dal campo liberamente nemmeno prima, perché il governo non ha mai del tutto tolto le restrizioni, anzi le ha rinnovate di continuo. E’ sempre servito il permesso, altrimenti l’autista del bus ti faceva scendere, la polizia ti rimandava indietro. E oggi siamo in lockdown.

Qui c’è promiscuità in ogni piccola cosa, un perenne vociferio, intrecci di lingue, intrecci di odori, di suoni, di risa, di urla, di passi. Forse di amici o di altre anime perse.

Si vive guardandosi le spalle, camminando a ritroso e guardandosi alle spalle, mai soli. Manca il fiato, un’apnea ad ogni alito di vento, si respira solo quando è passato.


Sorridere, sorridere per davvero, è un atto di resistenza.

2 ore. E’ la media. 2 ore la coda per la colazione, 2 ore la coda per il pranzo, 2 ore la coda per la cena. 2 ore la coda per il cesso. Mai farsela scappare 2 o più volte al giorno. Per tutto il resto c’è il secchio in fondo a destra. Davanti a tutti, a farsi sentire da tutti. Impari a tenere ogni cosa fino alle luci del giorno o di notte potrebbe essere una condanna. Ma talvolta si deve rischiare; nemmeno questo sollievo fisiologico ci è concesso.

Io non l’ho mai visto ma c’era un fiume qui; c’è un fiume qui ma non ha più acqua, solo le bottiglie di plastica e liquame. Il nostro. E adesso siamo in lockdown.

La mia tenda ha un costo, il mio posto tenda ha un costo. Come un grande campeggio, si pensa. Si. Costretti qui e a pagare. Che tu non abbia un documento, che tu sia stanco di essere insultato dai passanti, di essere fermato da polizie varie, di ricevere promesse da chi viene, da chi guarda e se ne va.

Si sta qui. Portati qui, lasciati qui. Se stessimo in silenzio non si accorgerebbe nessuno di noi. Problema risolto. Ma siamo qui. E finché anche solo uno sarà qui, saremo qui.

Chi si muove verso il centro di Mytilene prende il bus, il bus dell’apartheid, tutto per noi. 
Un euro a biglietto ma mai visto un biglietto o una ricevuta. Ad ogni autista la sua parte.

Il costo di un taxi è 10 euro per le famiglie, 10 euro per un gruppo di amici. Chi lo guida vive grazie a noi.

Chi ha soldi da spendere va nei negozi dentro al campo o al market fuori, altri vanno tutti i giorni al Lidl che fa milioni grazie a noi.

C’è chi può permettersi una casa in affitto finché aspetta di poter andare in terraferma. Si, qui non ci sono solo poveri, come tanti credono e raccontano: le bombe non guardano il conto in banca quando esplodono.

Poi ci sono le case in affitto per le ong. Case in affitto per giornalisti, volontari, curiosi, attivisti, poliziotti, fascisti. Vengono tutti qui per noi. I cittadini greci proprietari o i ricchi stranieri vivono grazie a noi, vengono versate tasse grazie a noi. E oggi siamo in lockdown.

Trafficanti ci mettono in mare, guardie europee ci rimettono in mare, altri ci vendono speranza contraffatta per oltrepassare il mare e magari arrivare persino fino in Nord Macedonia e venire respinti in Grecia per poi essere riportati qui, come è successo a famiglie di afghani con bambini qualche settimana fa.

Perché il timbro della libertà sembra non arrivare mai. E quando arriva magari finisci in piazza Victoria, per la strada ad Atene. Ma oggi stanno recintando il campo e siamo in lockdown.

Tutti indossano la maschera della giustizia, lo fanno per noi, per voi, per il bene comune. Ognuno fa il proprio. E vive grazie a noi.

Siamo una merce di scambio, uno stoccaggio, ostaggi, agnelli da salvare dall’inferno, proiettili politici, numeri anonimi. Di sicuro non persone.