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da Il Manifesto del 16 ottobre 2004

Cattedrali mobili attraverso il Sahara di Stefano Liberti

AGADEZ (NIGER)

«Gli accordi tra Libia e Italia sono una tragedia per l’Africa». Sul piazzale della stazione degli autobus di Agadez, nel nord del Niger, Mohammed, in arte Zidane, spara a zero contro il colonnello Gheddafi, che «si è venduto all’Occidente per un pugno di quattrini». Zidane ha le sue buone ragioni per essere alterato. Di mestiere fa il procacciatore. Trascorre le sue giornate alla ricerca di candidati all’espatrio clandestino da istradare verso i camion e i fuoristrada in partenza verso la Libia e l’Algeria. Se Tripoli mantiene il pugno di ferro contro l’immigrazione sub-sahariana, come ha cominciato a fare in questi giorni, alla lunga il flusso di persone in transito nella gloriosa città tuareg del deserto nigerino si ridurrà drasticamente. E tutti coloro che, come Zidane, prosperano di questo traffico si troveranno senza lavoro.

Vero e proprio crocevia delle rotte dirette verso il Maghreb (e più in là, verso l’Europa), Agadez è una città di frontiera. Da qui parte la pista sabbiosa che, dopo seicento chilometri di estenuante deserto, porta alle oasi di Bilma e Dirkou, ultimi avamposti abitati prima del confine libico. Da qui, verso nord, si snoda la strada asfaltata che va ad Arlit – l’ormai decadente città dell’uranio – e, trasformatasi in una pista sterrata irta di buche, arriva ad Assamakka, il confine algerino. Da qui partono, ogni giorno e ad ogni ora del giorno, camion stracarichi di merci e di persone, vere e proprie cattedrali semoventi che ripercorrono le antiche vie carovaniere.

Da almeno vent’anni, gli affari ad Agadez vanno a gonfie vele: punto di transito del contrabbando di sigarette provenienti dal porto di Cotonou, in Benin, e ultima tappa dei viaggi transafricani di migliaia di immigrati diretti verso i paesi arabi e l’Europa, la città ha potuto godere di una notevole prosperità. Qui tutti o quasi sono dediti al traffico e ai piccoli commerci. Chi ha una Land Rover, la usa per trasportare cose e uomini attraverso il deserto. Chi non ce l’ha, si ricicla come procacciatore.

Voci allarmate dall’oasi

Ma oggi Agadez è in subbuglio. Voci allarmate giungono dall’oasi di Dirkou. Il confine libico sarebbe di nuovo chiuso. Succede spesso e ciclicamente, ma questa volta la situazione sembra più grave del solito. Diversi immigrati, ci sussurra Zidane, stanno tornando indietro, rimpatriati a forza dalla Libia. I viaggi verso Dirkou continuano: poco lontano, sulla strada principale della città, un camion colmo all’inverosimile, con almeno centocinquanta persone accatastate sopra sacchi di merci e una cintura di capienti barili d’acqua coperti da teli di canapa, è quasi pronto per partire.

Ma presto, prevedono alcuni, queste traversate della speranza si arresteranno. «La via libica è destinata a ridursi drasticamente. Già negli ultimi giorni alcuni ghaneani giunti ad Agadez hanno cambiato rotta e sono partiti verso Tamanrasset, in Algeria», continua Zidane.

Alla stazione degli autobus, cinque compagnie di trasporto organizzano i viaggi verso Dirkou: 20mila franchi Cfa (30,5 euro) per un posto su un cassone, in balia del sole e della sabbia. Oltre ai mezzi legati alle compagnie, è possibile prendere qualche «camion clandestino», i veicoli dei commercianti tebù che fanno la spola per trasportare il miglio a Dirkou e ritornano carichi di sale da Bilma.

I camion – vecchi Mercedes degli anni Settanta – impiegano dai tre ai cinque giorni per attraversare il deserto del Teneré, la porta del Sahara, e arrivare a Dirkou, dove i candidati all’ingresso in Libia sono presi in carico da trasportatori arabi che si occupano dell’ultima tratta. Una via ormai collaudata, che ha visto transitare migliaia di persone.

«Faccio questo lavoro da vent’anni – racconta Amadou, l’autista del camion-cattedrale pronto a partire – e non posso credere che il flusso si arresterà. Spesso ci sono stati dei momenti di stop, ma poi il passaggio è ripreso più vigoroso di prima».

Il trasbordo verso l’Algeria si fa invece in modo più circospetto. «Ci muoviamo con fuoristrada, che possono portare al massimo 20-25 persone», ci confida Seydou, che si definisce un «veterano della via algerina». «Solo ieri abbiamo trasportato un carico. Erano quasi tutti nigeriani, più qualche maliano». Costo del viaggio fino a Tamanrasset: 110mila franchi Cfa (168 euro). «Ma a noi – continua Seydou – ne arrivano solo 95mila. Da Agadez ad Assamakka ci sono tre check point dei gendarmi nigerini e ad ognuno dobbiamo pagare 5mila franchi Cfa (7,5 euro) per immigrato trasportato. È un pedaggio obbligatorio». I proventi sono così suddivisi: le forze dell’ordine hanno il proprio tornaconto e chiudono un occhio su questo traffico.

Intanto, però, le denuncie di taglieggiamenti sulla via da Niamey fino ad Agadez e più in là verso Dirkou, soprattutto nei confronti di africani anglofoni (per lo più nigeriani e ghaneani), hanno spinto il governo a prendere provvedimenti. «Da almeno un mese, le estorsioni da parte dei funzionari doganali e dei poliziotti sono finite», ci dice Zidane. E in effetti, nei 1000 chilometri di strada asfaltata che portano dalla capitale ad Agadez nessuno ha controllato i nostri documenti e anche i nostri compagni di viaggio non nigerini sono stati lasciati in pace.

Tra questi Boubacar, un giovane maliano dall’espressione acuta, che ha già trascorso due anni da emigrante in Senegal, dove ha lavorato nel commercio vendendo scarpe e vestiti. Lo abbiamo incrociato a Gao, nel nord del Mali, punto di partenza di un’altra rotta sfruttata dai candidati all’ingresso clandestino in Algeria. A differenza dei molti disperati che rimangono in questa cittadina polverosa sulla riva sinistra del fiume Niger in attesa di racimolare i soldi per partire verso nord – i passeurs algerini chiedono 100mila franchi Cfa (153 euro) per attraversare la frontiera su fuoristrada – Boubacar ha un unico sogno in testa: Agadez e poi la Libia. Ha così deciso di dirigersi verso Niamey e, insieme a bordo dello stesso scassato camion, abbiamo impiegato (tra guasti, pause per le preghiere ed estenuanti controlli doganali) trenta lunghe ore per raggiungere la capitale del Niger, ad appena 400 chilometri di distanza. Da qui abbiamo proseguito per Agadez, dove lo scintillante autobus della Sntv ci ha portato in appena dieci ore.

L’euforia è scomparsa

Arrivato infine nella città di fango e paglia ai margini del Teneré, Boubacar si trova ora di fronte a una realtà meno allegra di quanto avesse immaginato: l’abituale euforia è temperata dalle insistenti voci sui rimpatri, che rimbalzano di bocca in bocca tra i candidati alla partenza. Alcuni appaiono indecisi sul da farsi.

Per la prima volta, un’ombra di inquietudine attraversa il volto altrimenti solare del giovane maliano. Le informazioni sulla chiusura della via libica lo avevano rincorso fin dall’inizio del viaggio, ma lui aveva preferito ignorarle. Il tam tam informale dei candidati all’immigrazione funziona meglio di qualsiasi agenzia di stampa: ancor prima che la decisione fosse operativa, a Gao la rotta Dirkou-Libia era già data per spacciata. In molti avevano quindi consigliato a Boubacar di soprassedere, esortandolo ad aspettare un momento più propizio. Ma lui aveva tirato dritto. E ora non sa che fare: avventurarsi verso Dirkou, con il pericolo di rimanere bloccato nell’oasi, o dirigere i suoi passi verso l’Algeria, per tentare la via libica successivamente?

I soldi scarseggiano e la decisione deve essere presa rapidamente. Alla fine opterà per l’avventura e, dopo un’ultima cena a base di montone alle bancarelle del cosiddetto «mercato notturno», salirà di buon mattino sul cassone del vecchio Mercedes diretto verso Dirkou.

Al momento della partenza, aggrappati al camion malandato di Boubacar, arriviamo a contare almeno centoventi persone. Dopo altre due ore di attesa, mentre il sole comincia già a picchiare inesorabile, l’autista mette in moto e fa rombare il motore. Osservando partire l’ennesimo carico umano, Zidane ci strizza l’occhio e lascia schioccare la lingua: «Gli europei devono capire che possono firmare tutti gli accordi che vogliono, ma non riusciranno mai a fermare questo flusso umano. È come un fiume in piena. Se si mette uno sbarramento, la marea presto deborda da un’altra parte. Finché l’Africa sarà abbandonata a se stessa, non ci sarà altra alternativa che la fuga».

All’orizzonte, accompagnato dalle grida dei ragazzini festanti, il camion-cattedrale per Dirkou si allontana strombazzando con il suo carico umano. Centoventi ombre dirette verso nord, con l’angoscia nel cuore e la speranza di non essere rispediti al punto di partenza.