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da La Stampa del 21 maggio 2006

Senegal, vivere con due dollari al giorno

Reportage di Philippe Bernard

DAKAR. Ondeggiando sulle sue infradito consunte, Combé Goudiaby procede, un catino di plastica made in China in equilibrio sulla testa, nel caos del mercato di Khar Yalla, a Dakar, dove di prima mattina si mescolano nell’aria odori di gas di scarico, pane e pesce fresco. Si infila fra i banchi, indifferente all’esercito di massaie che, come lei, vanno all’assalto del giorno che nasce. La cinquantenne in boubou malva non ha tempo né denaro da perdere, deve fare i conti con un reddito inesistente. Mistero insondabile per bilanci familiari europei ma realtà africana corrente: Combé Goudiaby, vedova con famiglia a carico, vive con meno dei due famosi dollari al giorno che rappresentano la soglia di povertà delle statistiche internazionali, l’abisso della povertà del Sud del mondo e la realtà quotidiana per il 68% dei senegalesi secondo l’ultimo rapporto Onu sullo sviluppo umano.

«Dio ha visto»

Alle 7, quando lascia la baracca in rovina dove dorme la sua famiglia, la donna non possiede ancora il denaro che le permetterà di dar da mangiare ai suoi cari. I 300 franchi Cfa, pari a 0,45 euro, per i biscotti della colazione dei bambini li prende a credito nel negozietto di fianco al grande campo di calcio. Il riso per il pranzo, magari con qualche condimento, sarà finanziato dalle sue attività del mattino: la rivendita di verdure che ha comprato in precedenza a credito dai grossisti. «Mi anticipano fino a seimila franchi cfa (9 euro) di merci. Se va tutto bene – spiega – posso guadagnare duemila franchi (3 euro) di cui la metà mi permette di assicurare il riso per il pranzo».

Ma oggi, con la presenza di un giornalista, le va tutto storto. Convinti che abbia venduto a caro prezzo la sua immagine, alcuni commercianti le rifiutano credito e altri fanno la cresta sulle fatture. «I bianchi ti venderanno», le ripetono. «Li ho lasciati parlare senza dar loro ascolto, Dio ha visto», replicherà lei, impassibile, due ore dopo, disponendo il suo piccolo commercio: manioca, gombo, pomodori, carote, acetosella e pesce secco diposti su un banchetto a un incrocio vicino a casa sua. In aggiunta ai duemila franchi cfa che fruttano ogni giorno i commerci della madre, la famiglia può contare sulle mance (20 mila franchi cfa al mese, un euro al giorno) di una delle figlie, che fa le pulizie in un night club. Quattro euro (5 dollari) al giorno per sette persone, fanno 0,7 dollari a testa. Le altre spese, affitto, elettricità e scuola privata costano l’equivalente di 2 euro (2,5 dollari) al giorno per il nucleo famigliare.

Il sole è già alto quando si avvicina una giovane pettinata in modo impeccabile, jeans attilati e t-shirt rossa rilucente di pailettes. Ndèye, 20 anni, figlia secondogenita, viene a prendere i soldi e gli ingredienti per preparare il pranzo. «Mi vesto elegante, non si crederebbe che vivo in un posto così», confida nella penombra della casa, due stanze senza finestre, separate da una tenda dove la sera s’affollano tre generazioni. L’acqua si va a prendere alla fontana a 25 franchi (3,75 centesimi) al secchio; l’unica lampadina elettrica è attaccata al contatore del vicino e le latrine, fornite di candele per la notte, servono due altri alloggi sovraffollati. L’unico lusso è un minuscolo televisore, che troneggia accanto alle foto di famiglia, perché «con la tv i ragazzi escono meno la sera».

Ndèye riconosce che deve la sua eleganza agli uomini. «Hanno sempre in mente di fare qualcosa con te – spiega – e per questo sono pronti a spendere. Un ragazzo mi ha comprato un telefonino e subito voleva portarmi a letto. Ho rifiutato, ma mi sono tenuta il telefono. Sono le regole del gioco».

La paga quotidiana

«Trovare mezzi di sussistenza è la principale attività quotidiana», conferma Fatimata Sy, direttrice di un centro di aggregazione. «Mentre il boom edilizio fa emergere la classe media, la precarietà e la povertà guadagnano terreno all’altro capo della scala sociale». E c’è un risvolto politico. «La gente – prosegue – si affida a chi promette loro mille o duemila franchi (1,5 o 3 euro) per salire su un autobus e andare ad applaudire un qualsiasi politico. La politica diventa un mezzo per arrotondare. È una perversione della democrazia».

Davanti alle fabbriche gli uomini cercano di farsi prendere a giornata. I contratti, anche a tempo determinato, sono rari e la paga quotidiana di un manovale non supera i duemila franchi cfa. «Ti obbligano a chiedere meno, se no il padrone trova qualcun altro», osserva Mactar Fall, 31 anni, un falegname che non può lavorare a casa perché non ha la corrente elettrica. I lavori fissi, da funzionario o impiegato, sono sistemazioni ambite, che toccano soltanto al 20% della popolazione.

La famiglia Diouf, malgrado l’impegno di due uomini, non ha certo i tre pasti al giorno garantiti. A mezzogiorno Khady Doiuf, 45 anni, la figlia cadetta, che gestisce i bilanci, non sa ancora se si potrà mangiare: a volte si salta. Capita spesso nel quartiere Pikine, all’estrema periferia di Dakar abitata solo da famiglie poverissime. Ai lati della strada degli edifici evacuati restano immersi nell’acqua dopo le inondazioni dello scorso autunno.

La famiglia, dieci persone in una sola stanza, vive seguendo il corso del sole dopo aver dovuto rinunciare all’elettricità. Pape, il figlio di 26 anni, berretto di lana e barba, ripara radio in un laboratorio della città dei Milionari, davanti al grande stadio Senghor. «Il mio orgoglio è donare i miei spiccioli alla nonna», dice, sottolineando che pochi giovani hanno questa possibilità. Ringrazia il «fratello maggiore» che gli ha insegnato il mestiere che gli permette di guadagnare fino a 3.000 franchi (4,5 euro) al giorno. La metà va al padrone che gli permette di occupare un posto nel suo laboratorio.

Ciascuno per sé

La famosa solidarietà africana? Khadij Mballo, 48 anni, con 15 persone a carico, sorride: «E chi mi può aiutare? I miei vicini si trovano nella mia stessa situazione». Gli osservatori concordano: nella città i legami tradizionali si allentano, il «ciascuno per sé» guadagna terreno e le istituzioni di soccorso, sono rare, hanno scarsi mezzi e in ogni caso poco sollecitate, per motivi di dignità. Ma, allo stesso tempo, si diffondono nuove forme di condivisione: l’elettricità, i telefoni, i decoder, sono messi in comune. Le donne investono in settori per loro nuovi come la pesca, il commercio all’ingrosso e il credito. «Al punto – nota il responsabile di un’associazione, Guirane Diene – di avere molte più possibilità di farcela rispetto agli uomini».

Il Senegal è pieno d’iniziative, come quel «gruppo d’interessi economici« creato da 53 donne del quartiere di Grand Yoff. Ogni mese conferiscono 3.000 franchi cfa a testa (4,5 euro) e acquistano casse di the che mettono in sacchetti per rivenderli al dettaglio. Il capitale accumulato dopo due anni permette loro di garantire dei prestiti di 25 mila franchi (37,5 euro) a dieci donne per cinque anni. Coulimata Kane, promotrice di questo microcredito al femminile vive in un incredibile assemblaggio di lamiera ondulata con una famiglia dalle molteplici ramificazioni. Riassume così il suo operato: «Per mangiare bisogna sapersi arrangiare».

Copyright Le MondeRepubblica presidenziale dal 1962, con la vittoria di Abdoulaye Wade (del partito democratico senegalese) alle elezioni presidenziali del 2000 è stata posta fine all’egemonia socialista che durava dal 1960. Nel dicembre 2004 è stato firmato un accordo di pace tra il governo e gli indipendentisti del Casamance: dopo 22 anni di guerriglia sono iniziati dunque i negoziati per definire il nuovo statuto autonomo della regione. Nel gennaio 2005 i Paesi del Club di Parigi hanno cancellato una parte (100 milioni di euro) del debito estero del Senegal. Qui la speranza di vita è di 53 anni e il Paese si trova al 157° posto nella classifica dell’indice di sviluppo umano. Tre immigrati rimpatriati a forza dalla Spagna su una strada della capitale