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Espulsione – La “condizione di povertà” non giustifica una condanna

Commento alla sentenza n. 30774 della Corte di Cassazione

La sentenza n. 30774 della Corte di Cassazione depositata il 18 settembre 2006, si è occupata di stabilire se è colpevole o meno del reato di inottemperanza all’ordine di lasciare il territorio italiano entro 5 giorni (si veda l’art. 14, commi 5 bis, ter, quater e quinquies, T.U. sull’Immigrazione) un cittadino straniero colpito dal provvedimento di espulsione che, nonostante la diffida che gli è stata notificata, si trattiene sul territorio italiano perché completamente sprovvisto di mezzi di sussistenza.
Secondo questa pronuncia è giustificato, quindi non punibile, il comportamento dell’immigrato extracomunitario clandestino che, per comprovata ed evidente mancanza di soldi, non rientra in patria dopo aver ricevuto dal questore l’ordine di allontanamento dal territorio italiano.
Questa tesi – che si richiama ad una interpretazione adottata dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 5 depositata il 13 gennaio 2004 – essenzialmente fa leva sullo stato di necessità della persona, ovvero sulla circostanza che non si può chiedere un comportamento impossibile a nessuno, nemmeno al cittadino extracomunitario in condizioni di irregolare soggiorno. Naturalmente non vi è nessun automatismo nel dichiarare giustificato il comportamento dello straniero che si trattiene sul territorio dopo aver ricevuto l’espulsione e la diffida a lasciare il territorio nazionale entro 5 giorni.
Peraltro, cogliamo l’occasione per precisare che il provvedimento di diffida a lasciare il territorio italiano, potrebbe considerarsi legittimo solo nel caso in cui sia oggettivamente impossibile eseguire l’espulsione con il mezzo dell’accompagnamento coattivo. In altre parole, l’autorità di polizia non potrebbe esporre ad una condanna lo straniero tutte le volte in cui ritenesse più comodo diffidarlo a lasciare il territorio nazionale anziché usare gli strumenti a disposizione. Deve infatti risultare da elementi oggettivi e giustificabili che non è possibile disporre l’accompagnamento immediato alla frontiera o, comunque, il trattenimento in un centro di permanenza temporanea (art. 14, comma 5 bis T.U.) dello stesso.
In ogni caso, vi è quest’ulteriore argomentazione difensiva rappresentata, appunto, dalla indigenza della persona interessata.
Come sopra precisato non si tratta di un automatismo, perché non basta dichiarare che non c’erano i soldi per pagarsi il viaggio, perché altrimenti è chiaro che, di fatto, questo andrebbe a vanificare automaticamente una norma di legge nella quasi totalità dei casi in cui dovrebbe applicarsi. Nel caso specifico infatti era stato appurato che la persona interessata dormiva presso lo scalo ferroviario ed era totalmente priva di reddito; le condizioni accertate nel corso del procedimento penale non lasciavano pertanto spazio ad equivoci.
Di diverso avviso la Procura della Repubblica presso la Corte d’Appello di Roma (che aveva impugnato la sentenza assolutoria in grado di appello) la quale aveva sostenuto che “il mero disagio economico, dipendente dall’ingresso nello Stato senza disporre di mezzi e dalla mancanza di occupazione connessa alla condizione di clandestinità volontariamente posta in essere, non è un motivo di giustificazione che deve avere le connotazioni di necessità inevitabile”. In altre parole, il fatto di essere in condizioni di indigenza, sarebbe dipeso dalla scelta, fatta dall’interessato, di vivere clandestinamente e non avrebbe potuto giustificare in ogni caso la sua condotta.