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Calais – “See You in England”

di Wirginia Loboda

“See You in England” sono le uniche parole che si possono dire ai migranti di Calais. Non dirai mai “see You next time “nemmeno “buonanotte”, intanto si sa che non dormono, c’è sempre la paura che i “flics” (poliziotti) arrivino da un momento all’altro, oppure che siano arrivati dei nuovi camion e l’unica possibilità di essere liberi ti sfugge nel sonno.

Calais è una cittadina al nord della Francia, passaggio obbligatorio per l’Inghilterra, la porta verso la “libertà” per centinaia di sans papiers che fuggono dalle persecuzioni , dalla guerra , dalla morte e/o dalla miseria; afgani, sudanesi , eritrei, etiopi, egiziani e qualche palestinese. Gente che è passata obbligatoriamente per la Grecia e per l’Italia, ed è li che avrebbero dovuto o hanno chiesto asilo. Quasi tutti hanno lasciato le loro impronte digitali nei paesi dell’Europa Mediterranea e nessuno ci vuole tornare. “ Li ci rimandano nei nostri paesi oppure ci tengono 4 mesi in una prigione, uno attaccato all’altro. Sporco, stretto. Non c’è neanche dove dormire. Questa non è vita.” – sono le parole di un ragazzo ventiquattrenne fuggito dal genocidio di Darfur. Allora perché l’Inghilterra? Perché lì non vige la zona Schenghen e possono richiedere la protezione secondo la Convenzione di Dublino 2. Nel frattempo la loro vita, nonostante l’enorme impegno dei volontari delle varie associazioni francesi,appoggiate qualche volta da quelle olandesi e belghe, non si può definire tale. La giornata si divide in tre pasti e poi c’è il continuo spostamento per sfuggire dal freddo pungente e dai poliziotti. “L’Inghilterra” è il pensiero incessante di ogni fuggitivo di Calais, quando arriveranno i nuovi camion?, dove nascondersi?, come trovare i soldi per un passeur? E infine come sopravvivere a questa incertezza insistente.

Le storie dei sans papiers di Calais sono toccanti, ma allo stesso tempo quasi tutte uguali, raccontano il dramma umano delle persone che a causa di guerre e repressioni politiche cercano un loro posto nel mondo, ma nessuno li vuole. Y. , un ragazzo sudanese , è sfuggito dal Darfur due anni fa. Ride per non piangere quando ci dice ironicamente “ Venite in Sudan. Venite a vedere, quant’è “bella” la guerra”. Lui, come molti altri, ha venduto tutto quello che aveva. Prima era uno studente d’informatica e tuttora è questo il suo sogno- continuare gli studi universitari. In Europa è stato accolto dalla polizia greca, sbattuto in prigione per quattro mesi. Non è stato rinviato nel suo Paese perché aveva detto di essere somalo ( come avviene spesso contrariamente al principio di “non refoulement” ), sapeva bene che in Grecia non c’è nessun’Ambasciata della Somalia e quindi non rischiava che la sua vera identità venisse scoperta. Dopo mesi di prigione, stretto in una cella, in mezzo alla sporcizia ed escrementi umani, per la mancanza di veri servizi igienici, ha tentato il viaggio verso la Francia. Prima è arrivato in Italia, poi è rimasto 37 ore, attaccato al motore di un camion, senza potersi muovere, senza mangiare, né andare al bagno e finalmente è arrivato a Calais. Vuole andare in Gran Bretagna perché le sue impronte sono rimaste in Grecia e teme che la sua domanda d’asilo non possa essere accolta in nessun altro paese europeo se non sul suolo britannico. Sa inoltre che l’Inghilterra , a causa del suo senso di colpa per il passato coloniale in Sudan, attua dei particolari favoritismi per i richiedenti asilo provenienti da quell’area geografica. La cosa più importante è che la Gran Bretagna, assicura un tetto sopra la testa a tutti i richiedenti asilo, cosa non di poca importanza quando si trascorre 24 ore su 24 nel freddo marittimo di Calais. Y. è uno dei tanti. Poi ci sono i ragazzi egiziani, di età massima di 15 anni. Alcuni di loro hanno perso la loro ingenuità e giovinezza nel viaggio verso l’Europa. Sono proprio loro a subire le insidie dello sfruttamento sessuale e della droga. M. ha 15 anni, dice di essere palestinese perché cosi pensa di poter ottenere asilo. “Abita” a Calais da 7 mesi, come ci è arrivato non si sa. Non parla né francese né inglese, comunica con i gesti e risponde in arabo come se tutti potessero capirlo. È uno dei pochi giovani ad aver mantenuto la gioia e la freschezza della sua età, gioca a pallone e sorride a pieni denti di fronte ad un bel piatto di pasta preparato dai volontari del Salam o del Secours Catholique, associazioni che ogni giorno si occupano dei migranti. Vi è a Calais anche chi ha perso la ragione, è il caso di un uomo afgano, rimpatriato nel suo paese l’anno scorso e ritornato comunque da dove è stato sottratto, con l’unica differenza, a livello mentale si ora trova nello stato di un bambino di 8 anni. Se non fosse per l’impegno di altri immigrati e dei volontari, sarebbe già morto, non potendo badare a sé stesso.

Accanto all’immensità delle storie dei sans papiers c’è la nuova realtà politica dello Stato francese. Nel 2002 Sarkozy allora ministro degli interni aveva chiuso il centro di Sangatte gestito dalla Croce Rossa, l’unico rifugio per migliaia di immigrati. Nel 2009 vengono ordinati gli sgombri della cosiddetta “jungle” . Il ministro francese, Éric Besson, ordina di distruggere la “piccola Kabul”, accampamenti degli afgani, dislocati sulle dune, accanto alla spiaggia che divide la Francia dalla sognata Inghilterra. 276 immigrati , 135 dei quali si dichiarano minori, erano gli abitanti della jungle”, molti di loro sono stati deportati senza nessuna spiegazione. A rendere ancor più difficile la situazione è la ferrea applicazione del cosiddetto “delitto di solidarietà”, una legge francese del 1945 che prevede la possibilità di punire “ tutti gli individui che direttamente o indirettamente , hanno facilitato o faciliterebbero, attraverso un aiuto diretto o indiretto, la circolazione o il soggiorno di un immigrato irregolare”. In questo modo accogliere nella propria casa un sans papiers che gela al freddo , dargli la possibilità di farsi una doccia oppure accompagnarlo ferito all’ospedale diventa un vero e proprio delitto, punibile dalla legge. Di fronte all’inasprimento delle leggi francesi, lo stato inglese temendo un incremento dell’afflusso dei possibili migranti, stringe alcuni taciti accordi con le forze di polizia di Calais; solo durante le ore della distribuzione dei pasti , gli immigrati non vengono disturbati dagli assalti dei “flics”. La polizia francese non risparmia in ogni caso la quiete dei sans papiers. Gli assalti avvengono principalmente di notte, perché è più facile trovarli e più facile portargli fino all’esaurimento psico-fisico.

Per favorire il turismo della costa francese, nell’estate 2010, le polizia inglese di frontiera chiude un occhio, 300 immigrati riescono a passare la Manica.

Intanto durante questo inverno la disperazione di fronte al freddo, all’esaurimento psico-fisico dell’attesa aumenta. Uomini, ragazzi, strisciano nella notte come degli animali, cercando di non farsi riprendere dalle fotocamera della vigilanza del porto. Alcuni perdono la speranza, per qualche giorno si lasciano andare, non mangiano, si nascondono, per poi ritrovarla di nuovo all’arrivo dei camion. Quando arriva un volontario nelle loro “abitazioni” offrono la propria sedia all’ospite, si accomodano per terra e sono felici di scambiare due parole su tutto e niente, sulla loro vita e sulla loro speranza. Infine, preparano su un falò gestito da qualche ramo di legna, il tè caldo. Un tè particolarmente zuccherato, forse per dare un po’ di dolcezza ad una vita cosi amara.