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Tra la scelta e la sussistenza

La narrazione del quotidiano in una terra straniera

Photo credit: No Name Kitchen

La Bosnia-Erzegovina è ancora inginocchiata dalla guerra anche se la guerra è lontana, dietro le porte chiuse del secondo millennio. Ogni angolo nel cantone di Una-Sana esibisce questo passato violento, anche il mercato di Bihać, il segno di un commercio elementare, senza carte di credito e scontrini, fatto di fiori di campo e pezzi di ricambio di vecchie biciclette. I venditori siedono a terra agli angoli delle polverose strade di paese.

A Velika Kladuša i locali si sono abituati ai flussi costanti di migranti. A causa della crescente ostilità, i bar e i piccoli esercizi commerciali hanno iniziato a vietare loro l’accesso; restano i grandi supermercati, gonfi di cibo e di bevande, mastodonti che drenano le energie dei piccoli produttori sempre più poveri, in una federazione frammentata, con un governo centrale carente, in cui la comunicazione orizzontale tra i cantoni manca o è inibita da ragioni di natura etnica: anche i bosniaci hanno molte sofferenze da sopportare. La crisi migratoria è soltanto l’ultima in ordine cronologico.

Appena fuori da Velika Kladuša c’è un piccolo bar. Il proprietario, Dario, è bosniaco di nascita. A pochi passi, sul versante di una piccola montagna, ci sono la bangladeshi forest e la pakistani forest: villaggi di tende di plastica e di legna costruiti in obliquo su quei pendii.

Ad oggi si stimano non meno di 2mila migranti fuori dai campi istituzionali della Bosnia-Erzegovina, distribuiti nei boschi nelle fabbriche dismesse del cantone. Il governo cantonale, che si occupa dell’amministrazione pubblica e dei compiti esecutivi, ordina sgomberi periodici di queste strutture che non mutano l’ordine complessivo delle cose: ne stravolgono soltanto la distribuzione. Finché il confine non è attraversato, i migranti continuano ad affollarsi in questa regione, tra gli squat e le foreste, e i campi sono insufficienti a rispondere alle esigenze, soprattutto nella stagione calda.
Dario ha visto la guerra in Bosnia prima di partire in Canada. È stato un rifugiato per molti anni prima di tornare.

Da qualche mese, mediante un sistema di voucher ideato dai volontari di No Name Kitchen 1, consente ai migranti di acquistare cibo e bevande. Su un ripiano del bar ha messo in vendita una grande quantità di spezie orientali perché i suoi principali consumatori sono loro. È stato anche lui un rifugiato e sa cosa significa, sa che a volte quello che vorremmo più ardentemente è solo una Coca Cola o un dolce; che siamo fatti anche di questi sfizi; che anzi ciò che ci rende umani passa per desideri ordinari, passa per la vita di tutti i giorni. Nel suo bar ha offerto questa possibilità ai migranti. Il suo servizio è unico nel raggio di chilometri.

I più volenterosi lo aiutano col lavoro: c’è un piccolo cantiere aperto dove dei ragazzi preparano la calce; lavorano in modo scanzonato, facendo gesti lenti, gustando la gioia di quel piccolo impegno. Poco più in là, oltre il cancelletto che porta all’orto, altri danno una mano nella preparazione della grappa.

Dal momento che il confine croato-bosniaco è molto duro (con ogni probabilità il più duro della rotta), riuscire ad attraversarlo richiede spesso settimane o mesi; diventa quindi chiaro perché in prossimità di questi ultimi paesi si accalchi un numero così alto di migranti, e ha senso chiedersi come questi vivano la vita di tutti i giorni; soprattutto quando, come in questi casi, sono fuori dai campi istituzionali e la loro vita non è vincolata ad alcun organo esterno.

Qual è il loro senso del tempo? Per qualsiasi cittadino europeo che abbia un lavoro e la possibilità di acquistare i beni essenziali e che sia in qualche misura inserito nella società, il tempo della quotidianità è un tempo codificato: scandito dagli orari di lavoro e dal tempo libero, dai servizi offerti nelle nostre città e dalla possibilità concreta di usufruirne.

La codificazione del tempo non è una mera razionalizzazione della vita; essa genera delle abitudini che soddisfano il bisogno di sicurezza e di riferimenti sociali; e quando sono condivise, queste abitudini producono un universo di riti nei quali ci riconosciamo e ci identifichiamo. La narrazione del nostro quotidiano passa per questi intercalari; e come gli intercalari propri di una lingua, essi non sono soltanto modi, spesso automatici e irriflessi, ma profonde manifestazioni dell’identità collettiva. La condivisione dei pasti, il momento della lettura o dello sport, il tempo della preghiera, una festa: noi tutti, fuori dalla nostra consapevolezza, celebriamo la vita in questo paganesimo quotidiano. Un uomo è tale nella misura in cui ha la possibilità di accedere a questo universo di riti e di tornare ogni volta a osservarli, imprimerli, attraversarli: la ripetizione è la cifra del tempo collettivo.

Al contrario, i migranti costretti fuori dai circuiti sociali in una terra straniera vivono una quotidianità monolitica e opaca, senza cadenze imposte dall’ambiente circostante, né rituali, né memoria.

Il fatto che non godano di diritti e garanzie ha anche un impatto sul loro grado di immersione nel contesto sociale. Questo concetto corrisponde a ciò che Simone Weil chiamò radicamento.

Il radicamento è forse il bisogno più importante e più misconosciuto dell’anima umana. È tra i più difficili da definire. […] Partecipazione naturale, cioè imposta automaticamente dal luogo, dalla nascita, dalla professione, dall’ambiente. Ad ogni essere umano occorrono radici multiple. Ha bisogno di ricevere quasi tutta la sua vita morale, intellettuale, spirituale tramite gli ambienti cui appartiene naturalmente.” 2 Come il senso del tempo, anche il radicamento nella propria comunità costruisce un’identità individuale, è affondare nelle maglie dell’Altro e consentirgli, tramite il posto che occupiamo all’interno della comunità, di osservarci e di definirci.

Alle persone migranti in viaggio verso l’Unione Europea, costrette a fermarsi per settimane o mesi nei campi profughi della Turchia o della Grecia o a vivere nelle fabbriche dismesse della Bosnia, sono sottratte queste possibilità: non hanno un punto di riferimento fisico né un impiego con cui orientare il proprio tempo quotidiano e dare un apporto positivo a sé e alla comunità, non hanno accesso ad attività che allevino lo spirito e consentano una qualche forma di fioritura umana, sono fermi in luoghi che non conoscono la loro lingua d’origine e quindi il loro universo di simboli, immagini e storie care.

In loro vi è una contraddizione dolorosissima: la loro presenza in questi luoghi si dà per mezzo dei loro stessi corpi e solo tramite questi. Il corpo afferma una presenza, a dispetto dell’invisibilità legale dice “ci sono”, con una forza che travalica ogni definizione giuridica della persona e ogni forma codificata; tuttavia, senza quei riconoscimenti il corpo diventa per l’ambiente circostante un oggetto estraneo. Privati di una memoria storica condivisa, senza una comunità che li osservi da cima a fondo (nei termini morali, intellettuali, spirituali di cui parla Simone Weil) e tenga conto di quella complessità che il solo corpo non è in grado di narrare, questi ragazzi vivono un tempo ingiustificabile.

Nel suo piccolo, il bar di Dario (e ogni pratica simile) rovescia questo paradigma, poiché restituisce loro la possibilità di dare una direzione al proprio tempo, di raccontarsi ai locali, di scegliere le spezie per il riso; ne ripristina la dignità restituendo loro la facoltà di pensare, di scegliere e di determinare il proprio presente. Qui i ragazzi ritrovano qualcosa che sfugge al rituale delle distribuzioni di cibo e degli aiuti assistenziali. È un salto di qualità immenso.
Non solo per loro: anche Dario, bosniaco in una terra di migranti, ex-rifugiato in terre lontane tornato per amore della sua Bosnia, si radica nella propria terra inventando una nuova quotidianità che coinvolge i migranti in transito.

  1. Associazione senza scopo di lucro in supporto dei migranti
  2. Simone Weil, “Preludio a una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano”, 1943

Rossella Marvulli

Ho conseguito un master in comunicazione della scienza. Sono stata a lungo attivista e operatrice nelle realtà migratorie triestine. Su Melting Pot scrivo soprattutto di tecnologie biometriche di controllo delle migrazioni sui confini europei.