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PH: Emanuela Zampa

«Giornalismo e migrazioni: come cambiare la narrativa»

Il report del dibattito da "A Bordo!", il festival di Mediterranea

Le parole e le immagini sono fondamentali nel processo che costruisce le nostre rappresentazioni. Attorno ai fenomeni migratori, l’immaginario che prevale è poco aderente alla realtà e ai vissuti delle persone in movimento, e subisce il pregiudizio di uno sguardo autoreferenziale.

Nel secondo giorno di “A Bordo!”, il festival di Mediterranea Saving Humans, che si svolge alla Città dell’Altra Economia a Roma e si concluderà domenica 10 settembre, abbiamo seguito il dibattito che ha provato a mettere a fuoco diverse prospettive di chi, sul tema delle rappresentazioni, si interroga costantemente.

Sono intervenuti Fabio Gianfrancesco e Iasonas Apostolopoulos, coordinatori delle operazioni di salvataggio di Mediterranea; Indira Meza, attivista venezuelana dell’associazione Unione Italiana Rifugiati ed Esuli (UNIRE); Federico Alagna, ricercatore della Scuola Normale Superiore; e Angela Caponnetto, giornalista e inviata per Rainews 24, la moderazione dell’incontro è stata affidata a Simone Martuscelli (Scomodo).

Fabio Gianfrancesco ha ricostruito lo sguardo di chi opera nel soccorso in mare, in un contesto storico che ha visto cambiare negli ultimi anni la semantica delle migrazioni. Da agenti umanitari all’epoca dell’operazione Mare nostrum, le ONG sono poi passate a essere descritte come complici del traffico di esseri umani. Alla criminalizzazione dell’intervento di search and rescue è stato necessario contrapporre una contro-narrazione politica.

Nel contesto della ricomposizione dello sguardo, è fondamentale secondo Gianfrancesco operare una genealogia delle immagini usate per raccontare le migrazioni. In molti casi, le fotografie che vengono costantemente riproposte nei mezzi di comunicazione in associazione alle notizie sulle tragedie nel Mediterraneo si trasformano in descrizioni generiche, che appiattiscono il contesto dello scatto. L’immagine diventa quindi funzionale, di volta in volta, alla manipolazione.

Un effetto diretto delle rappresentazioni distorte delle migrazioni è la creazione di vere e proprie gerarchie delle vite. Su questo si basa, secondo Iasonas Apostolopoulos, la tendenza a operare distinzioni tra chi ha diritto alla mobilità e a cercare una vita migliore, e chi no. Una simile strategia è stata messa in atto dal governo italiano, quando lo scorso anno a Catania ha provato a far passare il messaggio che si deve “selezionare” chi va accolto (in quel caso, donne, bambini e persone con vulnerabilità). Tutti gli altri, a prescindere dalle loro storie, sono appiattiti a una categoria senza diritti. Il principio di vulnerabilità si sostituisce quindi alla legge del mare, per la quale “prima si salva, poi si discute”.

Giudicare la scelta di migrare è un’altra tattica messa in atto dai governi europei: questo ribaltamento di prospettiva ha permesso al ministro Piantedosi di mettere in dubbio, all’indomani del naufragio a Cutro, il diritto di partire.

Per spezzare questo tipo di narrativa, è importante che le persone con background migratorio possano autodeterminarsi. L’assenza, per migranti e rifugiati, di spazi in cui rappresentarsi come protagonisti della loro storia è stata sollevata da Indira Meza, che spiega come proprio da questa rivendicazione è nata UNIRE. L’obiettivo dell’associazione è permettere alle persone migranti di costruire la propria immagine, superare la narrazione emergenziale e partecipare ai tavoli di discussione da cui esse sono sistematicamente escluse. La migrazione va riconosciuta come una situazione globale e strutturale: solo con questa prospettiva possiamo mettere i diritti umani al centro delle pratiche quotidiane.

La retorica dell’emergenza continua invece a orientare le politiche migratorie. Ma non è facile stabilire se è il mondo dell’informazione o quello della politica a condurre la narrazione. Si tratta di processi circolari, in continua evoluzione. Come ci spiega Federico Alagna, il caso degli “scafisti” restituisce bene questa complessità. La loro rappresentazione come responsabili delle migrazioni è pervasiva, mentre passa in secondo piano il fatto che con i grandi trafficanti, veri responsabili del controllo dei movimenti, i nostri governi fanno accordi. Se per le ONG è stato più facile contrastare le narrative che criminalizzavano la loro azione, i migranti accusati di essere scafisti – spesso persone sotto ricatto, o che semplicemente vengono indotte dalle circostanze a condurre le imbarcazioni – si ritrovano isolati ad affrontare accuse e processi.

Di fronte all’enorme responsabilità che gli è attribuita, come può il giornalismo recepire queste suggestioni? Secondo Angela Caponnetto, la chiave è ascoltare, raccontare le storie delle persone e restare in maniera continuativa nei luoghi di frontiera. La sua esperienza a Lampedusa è emblematica in questo senso: l’incontro costante con chi arriva le ha permesso di restare a contatto con la vitalità della mobilità internazionale e i suoi cambiamenti. Anche a Cutro, la presenza dei giornalisti è stata fondamentale per fornire un racconto dei fatti puntuale e ricostruire i vissuti di chi ha attraversato il mare e delle loro famiglie.

Redazione

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