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Afghanistan, Iran, Turchia e Somalia: fuggire dall’omofobia

Diversi messaggi di aiuto arrivati al Pink Refugees di Verona: “Il giorno che smetteranno di scriverci significherà che sarà troppo tardi per preoccuparsi”

I riflettori sull’Afghanistan si sono in buona parte già spenti, ma le richieste di aiuto continuano ad arrivare al Pink, e non solo da quel paese tribolato.

Le persone LGBTQ che gravitano fra Afghanistan, Iran e Turchia, e comprendiamo anche la Somalia, continuano a scriverci e a lanciare i loro SOS, che stanno diventando assordanti.

Molte persone LGBTQ riparate in Turchia dall’Afghanistan ma anche dall’Iran non trovano risposte alle loro richieste di ricollocamento in altri paesi quali USA e Germania pur essendosi registrate presso UNHCR. Peraltro oggi è il governo turco, e non più UNHCR, a registrare i nuovi rifugiati, e questo causa ritardi e anche veri e propri stalli che rendono le loro vite molto difficili.

Questo è anche il caso di Artemis e del suo compagno, bloccati in Turchia dal 2018 ad attendere un ricollocamento, che UNHCR di Ankara dice non essere ancora stato confermato dagli USA, paese a cui si è chiesta per loro la disponibilità. Ma è anche il caso dell’iraniano Rohan, un altro gay registrato come rifugiato in Turchia e in attesa di ricollocamento. Rohan ci ha raccontato di essere fuggito dall’Iran a causa del suo orientamento sessuale, di essere nell’impossibilità di lavorare e affetto da una malattia autoimmune. Sta attendendo dal 2016 un ricollocamento in Germania che per ora non c’è stato.

Non possiamo non citare Ramiz, gay afghano che ci ha scritto da Kabul, che dalla presa di potere dei Talebani esce solo la notte per la paura di essere preso, dovendo anche gestire la convivenza con i genitori che non devono neanch’essi sapere della sua omosessualità. Per lui si prospetta un futuro molto difficile, al momento è alla ricerca di diverse centinaia di dollari per pagare un visto di uscita dal suo paese, sempre che sia possibile. Lo abbiamo invitato a contattare UNHCR in Afghanistan ma ci ha risposto che in Afghanistan UNHCR non c’è, e questo ci è parso anche un inascoltato grido di aiuto all’occidente.

Ma vi raccontiamo anche di Muniir, un ragazzo somalo di 24 anni fuggito dalla famiglia perché gay, senza lavoro e possibilità di sostentarsi, che non sa cosa fare, come uscire dal paese e immaginare una possibilità di vita.

Tutti loro, e ce ne sono moltissimi altri, hanno una cosa in comune: sono gay e cercano una vita sicura, prima di tutto perché qui parliamo davvero di vita o di morte, poi di possibilità di lavorare e di vivere i propri sentimenti in maniera serena, sempre che i danni causati dai traumi subiti possano guarire.

Vanno tenuti accesi i riflettori su una condizione, quella LGBTQ, che spesso è dimenticata o poco considerata. Vanno aperti corridoi umanitari e concessi visti, vanno affrettate le pratiche di ricollocamento. Non è possibile che Rohan e Artemis in Turchia lo stiano aspettando da anni. Ricordiamo che Artemis è dalla Turchia la voce di molte persone LGBTQ afghane. È stato già minacciato di morte molte volte e subisce le “attenzioni” di gruppi di estremisti islamici che usano Telegram come mezzo di diffusione di odio e minacce.

Ci chiediamo cosa possa fare effettivamente la comunità internazionale al di là delle tante belle parole spese quando i Talebani hanno conquistato l’Afghanistan.
Non pensiamo poi che prima di allora i gay afghani vivessero molto meglio, erano meno attenzionati ma dovevano comunque nascondere la loro omosessualità.
Con i Talebani al potere il pericolo è cresciuto in modo esponenziale, e la cosa che ci preoccupa di più è il silenzio calato sulle loro vite.

Quello che possiamo fare, oltre a segnalare e cercare soluzioni, è restare in contatto con loro e parlarne sui media e sui social, perché le loro condizioni non siano dimenticate.
Il giorno che smetteranno di scriverci significherà che sarà troppo tardi per preoccuparsi.