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Rubrica: Confini e frontiere

Ai confini della criminalizzazione

di Francesca Fortarezza

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Šid, 3 gennaio 2021 - Negli ultimi giorni la Rotta Balcanica è tornata a richiamare l’attenzione della comunità europea a causa dell’incendio nel campo di Lipa, in Bosnia, e per gli innumerevoli appelli da parte di organizzazioni locali e internazionali impegnate nella difesa dei diritti delle persone migranti.

La Rotta Balcanica è diventata, negli ultimi anni, l’ennesimo inferno provocato da politiche egoistiche, nelle zone grigie della legalità, che costringono migliaia e migliaia di persone a condizioni di vita e di viaggio inammissibili secondo qualsiasi codice di condotta internazionale. Eppure, nonostante gli appelli incessanti, le dichiarazioni e le denunce, la situazione non migliora, al contrario, sembra peggiorare giorno dopo giorno.

Nel rimbalzarsi le responsabilità, governi e istituzioni continuano a perdere tempo e a procrastinare azioni, urgenti e necessarie, che permetterebbero viaggi regolari e sicuri per chi si trova in transito verso l’Europa. L’Europa, con i suoi fallimenti istituzionali e morali, è fatta però anche di tante realtà sub e trans nazionali, fatte di singoli individui e organizzazioni che, stanchi e frustrati da questo spettacolo della disumanità, hanno deciso di assumersi quelle responsabilità che i loro governi continuano imperterriti a ignorare e calpestare.

Sopperendo alle carenze della politica, questi difensori dei diritti umani si impegnano a portare beni di prima necessità alle persone sulla rotta, che si tratti di cibo, di vestiti e scarpe, o di una chiacchierata intorno a un fuoco, condividendo lingue ed esperienze diverse e cercando di ricreare un po’ di umanità là dove ogni diritto umano sembra aver perso di significato.

“Grazie per quello che fate”, ci dicono alcuni ragazzi, ventenni afghani cui abbiamo portato un po’ di acqua e legna, nel loro rifugio tra i cespugli lungo la ferrovia. Intorno è notte, è buio ed è silenzio. Solo le loro e le nostre voci, accompagnate dallo scoppiettio del piccolo falò improvvisato. “Grazie”, ci dicono. E noi gli rispondiamo che è davvero il minimo che si possa fare. Lo è. È davvero il minimo, se si pensa quanto poco costerebbe, economicamente e politicamente, replicare queste piccole azioni di solidarietà ovunque siano necessarie. Ma non è facile. Le donazioni ci sarebbero, ma alle frontiere bloccano qualsiasi carico sia destinato ai migranti. I volontari ci sarebbero, ma alla dogana non possiamo dire quello che stiamo venendo a fare, non siamo i benvenuti.
Basterebbe poco, in realtà, se ci fosse collaborazione tra le parti, se le istituzioni fossero almeno capaci di offrire a volontari e operatori umanitari spazi e strumenti adeguati e garantirgli sicurezza e supporto morale. Purtroppo, però, non è così.

La criminalizzazione e la repressione della solidarietà in Serbia è un dato di fatto, e di legge, che costringe i volontari ad agire nell’ombra, aspettando il calar del sole per poter distribuire alimenti, acqua, vestiti e altri beni essenziali. Beni che non salveranno certo delle vite, vite che sono state capaci di salvarsi attraverso i continenti e le violenze, ma che si fanno almeno simbolo di un’umanità parallela, resistente e resiliente.

Costretti a prendere strade secondarie, a camminare lungo le ferrovie nascosti tra la boscaglia. Costretti a tenere un occhio e un orecchio sempre allerta, controllando ogni luce e ascoltando ogni rumore sospetti. Persino le strade, per raggiungere i ragazzi, sembrano voler scoraggiare dal portare a termine il proprio lavoro di solidarietà. Dissestate, sporche e piene di buche. Senza indicazioni e senza luci. L’esercizio della violenza da parte delle forze dell’ordine al confine tra Serbia e Croazia è trasversale. A volte questa violenza si manifesta verbalmente, con insulti e minacce, a volte fisicamente, con spintoni e ceffoni.

Questo è quello che è successo qualche settimana fa a un gruppo di volontari, intercettati dalla polizia durante una distribuzione. Durante il controllo, condotto al limite della regolarità, i volontari sono stati insultati, sbeffeggiati e minacciati, spintonati e colpiti da uno degli ufficiali, costretti ad accettare una
perquisizione non autorizzata e ostacolati nella comunicazione con il proprio assistente legale. Erano accompagnati da un locale, un “amico” della loro organizzazione, che è stato portato in commissariato e trattenuto per quasi tre ore.

La criminalizzazione colpisce infatti anche gli autoctoni, che nel farsi tramiti e mediatori mettono in pericolo la propria incolumità e quella delle loro famiglie. Quando la violenza diretta, verbale o fisica, non è sufficiente a spaventare gli operatori, la repressione si fa ‘legale’.

Grazie alla confusione generata dai cavilli legali la polizia trova quindi spazio per perseguitare i volontari, costringendoli a scegliere se abbandonare il campo e la causa o rimanere in modo irregolare sul territorio serbo, compiendo così un atto di resistenza politica e umana.

Lo scorso 28 dicembre, una volontaria belga di 23 anni che aveva scelto la resistenza è stata fermata, portata in commissariato e deportata, o meglio, trasportata oltre la frontiera serba e abbandonata nel mezzo del nulla, alle otto di sera, senza che il suo avvocato avesse il tempo di raggiungerla e mediare per lei.

Per chi si occupa di questioni umanitarie il tema della sicurezza impone una riflessione costante, una messa in discussione perenne di se stessi e delle proprie motivazioni, ma soprattutto un compromesso a volte molto faticoso tra queste motivazioni e gli ostacoli politici e sociali dei contesti in cui si lavora. Non è però ammissibile che questi compromessi avvengano a due passi dal cuore della “civilizzazione” occidentale, a due passi dalla terra dell’umanesimo, a due passi dalla terra dei diritti dell’uomo e del cittadino.

A due passi da questa Europa che criminalizza i migranti e abbandona chi cerca di aiutarli. Nel frattempo decine, centinaia, migliaia di persone restano nascoste nelle foreste e nei casolari abbandonati. Coperte di vestiti fradici e sporchi. Indossando scarpe troppo piccole o troppo rotte, che lasciano intravedere pezzi di piedi sofferenti. Vivono nascosti, negli spazi di confine delle frontiere europee.

Il problema, allora, non è la Serbia, non è la Bosnia, non sono i singoli paesi. Il problema è l’infrastruttura istituzionale, formale e informale, che nel criminalizzare i migranti delegittima anche l’azione e la voce di chi mette la propria persona accanto a queste persone. La colpa è di chi, non riuscendo o non volendo rendere la migrazione un percorso sicuro, nega anche quegli spazi di azione e di dialogo che cercano di compensare tali carenze.

Questa breve riflessione vuole allora essere un appello alle istituzioni europee e agli stati del continente. Se vi rifiutate di fornire supporto a queste persone che migrano, almeno garantite delle condizioni decenti per chi è disposto ad assumersi questo compito al posto vostro. Un appello alle organizzazioni internazionali, affinché oltre alle dichiarazioni mettano in atto azioni concrete per creare spazi di legittimità e giustizia in questi luoghi dimenticati dalle leggi umane e sovrumane.

Questa breve riflessione vuole essere un appello a tutti coloro che credono nella lotta e rivendicano la resistenza. Venite, venite a lottare qui, dove non è rimasto più nessuno a lottare. Venite, venite a inneggiare alla libertà qui, dove ogni diritto a una vita degna e dignitosa viene calpestato quotidianamente.

Venite e tornate, a raccontare ciò che potrete vedere, ascoltare, sentire.
Venite a vedere i volti sporchi e stremati di questi ragazzini.
Venite qui, a vedere coi vostri occhi il fallimento di questa umanità.

Francesca Fortarezza

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[ 18 gennaio 2021 ]
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Photo credit: Valerio Muscella - Michele Lapini

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ARGOMENTI:
Balcani, Bosnia e immigrazione, Confine tra Bosnia e Croazia, Est Europa, Europa, Migrazioni, Serbia e immigrazione, Solidarietà e attivismo, Violenze e abusi
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Bosnia ed Erzegovina, Serbia
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