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Quesito: servizio militare, mantenimento del posto di lavoro e del permesso di soggiorno

E’utile ricordare le norme che disciplinano il diritto alla conservazione del posto di lavoro nel caso della chiamata al servizio militare.

Il testo originario dell’art. 2111 del Codice Civile prevedeva che la chiamata alle armi per adempiere agli obblighi di leva risolvesse il contratto di lavoro. In seguito questa norma è stata modificata dall’art. 77 del DPR del 14 febbraio 1964, n. 237, a sua volta integrato dall’art. 22 della legge 24 dicembre 1986, secondo cui la chiamata al servizio di leva sospende il rapporto di lavoro per tutto il periodo relativo ed il lavoratore ha diritto alla conservazione del posto. Si aggiunge, inoltre, che la legge n. 653 del 10 giugno 1940, era stata dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale in quanto operava una discriminazione tra gli impiegati e gli operai, disponendo solo per i primi il diritto alla conservazione del posto di lavoro.

Va ricordato che la norma del Codice Civile sopra citata è inserita nell’apposito capitolo dedicato al lavoro ed alle condizioni del lavoratore. La normativa successiva oltre ad avere garantito al lavoratore chiamato alla leva la conservazione del posto di lavoro (che non si conclude, ma si interrompe semplicemente per poi essere ripreso) garantisce allo stesso anche il diritto a computare nell’anzianità di servizio il periodo di prestazione del servizio militare. Si stabilisce, quindi, che anche in un periodo in cui il lavoratore non ha effettivamente lavorato, viene riconosciuta la sua anzianità di servizio ai fini degli scatti della retribuzione. Inoltre il periodo in cui viene espletata la prestazione del servizio militare deve essere computato nella anzianità previdenziale con la conseguenza che anche se il lavoratore e il datore di lavoro non versano i contributi durante il periodo di interruzione del rapporto di lavoro, comunque è come se li avessero versati dal punto di vista della carriera previdenziale ( pensione, ecc).

Tutte queste garanzie si riferiscono in generale alle condizioni del lavoro e ai diritti del lavoratore, sicché sarebbe difficile pensare che possano trarsi conseguenze diverse nel caso di un lavoratore straniero regolarmente soggiornante nel nostro paese. E ciò proprio perché è garantito a tutti i lavoratori immigrati, regolarmente soggiornanti in Italia, il diritto alla parità di trattamento rispetto ai lavoratori nazionali (art. 2 T.U. sull’Immigrazione), non solo per il trattamento economico e la disciplina del contratto di lavoro, ma anche per quanto concerne i diritti in materia di sicurezza sociale.
Va precisato che su questo argomento non esiste alcun precedente giurisprudenziale perchè la magistratura non ha mai avuto modo di occuparsi della questione, come appena delineata. Nonostante ciò riteniamo che l’interpretazione più fondata sia quella di parificare la condizione del lavoratore straniero a quella del lavoratore italiano, sulla base del fatto che tale equiparazione non solo è sancita a livello nazionale dall’art. 2 del T.U. sull’Immigrazione, ma anche a livello internazionale dalla . (ratificata con L. 10 aprile 1981, n. 158). Non avrebbe senso, infatti, riconoscere il diritto al computo del periodo del servizio militare nella carriera previdenziale e assicurativa, se poi non si riconoscesse al lavoratore straniero anche il diritto alla conservazione del posto di lavoro.

Il lavoratore immigrato che deve lasciare l’Italia per rispettare l’obbligo di leva nel proprio paese, se vuole avvalersi del diritto a mantenere il posto di lavoro, ha, come minimo, l’obbligo di comunicare al datore di lavoro sia l’avvenuta chiamata al servizio militare (mettendogli a disposizione copia della cartolina pervenutagli), sia la durata prevista dello stesso. Di questa comunicazione è bene averne una ricevuta per poter dimostrare in qualsiasi momento che è stata inoltrata al datore di lavoro.

Peraltro se il lavoratore non comunica al proprio datore di lavoro l’avvenuta chiamata alle armi, potrebbe essere licenziato per assenza ingiustificata dal posto di lavoro.

Veniamo ora al problema del permesso di soggiorno.

Se il servizio militare ha la durata di un anno (in alcuni paesi dura anche di più), è ovvio che il periodo di leva potrebbe terminare successivamente alla scadenza del pds.
Sappiamo che in alcune questure vengono fornite informazioni sbagliate: per esempio, viene detto di uscire tranquillamente dall’Italia con il pds ancora in corso di validità e poi, una volta terminato il servizio, di presentarsi al Consolato italiano al fine di ottenere il visto di reingresso.
Ma, come ci viene esposto nel quesito, la possibilità di ottenere il visto di reingresso (art. 8, comma 3 del Regolamento di attuazione – DPR 31 agosto 1999, n. 394) è consentita solo nel caso in cui il pds non sia scaduto da più di 60 giorni.

Esempio pratico: chi è in possesso di un pds appena scaduto, entro i 60 giorni successivi alla scadenza farebbe ancora in tempo a presentarsi all’Ambasciata per chiedere il rilascio del cosiddetto visto di reingresso.
I problemi si verificano dopo la scadenza dei 60 giorni perché, come è già successo in molti casi, il rilascio del visto viene rifiutato. Peraltro, anche nell’ipotesi in cui il servizio militare terminasse entro i 60 giorni successivi alla scadenza del p.d.s., ciò comporterebbe, comunque, un enorme disagio per gli interessati che dovessero richiedere il visto, perché i tempi sono estremamente lunghi.

Di conseguenza, la strada più sicura per assicurarsi di mantenere il pds è quella di documentare specificatamente la chiamata al servizio militare direttamente alla questura che ha rilasciato il pds, chiedendone il rinnovo anticipato, anche sulla base della continuità giuridica del rapporto di lavoro che si interromperà per poi riprendere alla fine del servizio di leva.
In questo modo non si presenteranno difficoltà al momento del rientro in Italia, perché l’interessato sarà in possesso di un pds in corso di validità.

Si evidenzia, inoltre, che l’art. 13, comma 4, del Regolamento di attuazione prevede che “il permesso di soggiorno non può essere rinnovato o prorogato quando risulta che lo straniero ha interrotto il soggiorno in Italia per un periodo continuativo di oltre sei mesi, o, per i permessi di soggiorno di durata almeno biennale, per un periodo continuativo superiore alla metà del periodo di validità del permesso di soggiorno, salvo che detta interruzione sia dipesa dalla necessità di adempiere agli obblighi militari o da altri gravi e comprovati motivi”.

Esempio pratico: se uno straniero ha un pds della durata di due anni e, in base ai timbri di uscita e di entrata apposti nel passaporto, si verifica che si è trattenuto all’estero per più di un anno, al momento del rinnovo del p.d.s. stesso otterrà un legittimo rifiuto; viceversa, non potrà esservi alcun diniego di rinnovo del p.d.s. nell’ipotesi in cui l’interruzione della presenza nel territorio nazionale sia dipesa dalla necessità di adempiere agli obblighi militari o altri gravi comprovati motivi.

Rispetto alla nuova legge Bossi – Fini (L. 30 luglio 2002, n.189) e all’introduzione nel T.U. sull’Immigrazione (D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286) del “contratto di soggiorno per lavoro subordinato” (art. 5 bis del T. U., introdotto dall’art. 6, comma 1, della legge Bossi – Fini), che vede una stretta corrispondenza tra la durata del contratto di lavoro ed il soggiorno, non dovrebbero presentarsi problemi in sede di rinnovo del pds, poiché la questura non potrà considerare il contratto di soggiorno cessato, ma in corso di validità perché il rapporto di lavoro proseguirà successivamente alla scadenza del servizio militare.