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Terra di mezzo, mare di mezzo

Malta, ultimo giorno

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35° 54′ N. 14° 30′ 45″ E.

Come in un viaggio attraverso il tempo, la navigazione tra Dweyra Bay, a Gozo, e Malta, ci mette di fronte a un succedersi continuo di forme diverse di estrattivismo. Dalla speculazione edilizia che frammenta il paesaggio naturale, con forme di urbanizzazione aggressive e deturpanti, alla riminizzazione dei litorali trasformati – dalla proliferazione di stabilimenti balneari, noleggi di barche, ma anche di musica a tutto volume e di acque cristalline rese torbide dal movimento di persone e natanti – in vere e proprie fabbriche del loisir.

Lo sbarco avviene nel porticciolo turistico di Manoel Island. Prendiamo commiato da Emanuela e Lorenzo, i nostri skipper. Siamo stati bene assieme e ce lo diciamo più con il corpo – abbracciandoci forte – che con le parole. Ma soprattutto ci accomiatiamo da un modo di stare assieme, da un modo di essere gruppo, equipaggio. Prendere terra, in questo senso, non significa solo tornare ad una spazialità stabile e, in qualche modo, indipendente dalle condizioni del vento e del mare. Piuttosto, è l’interruzione di un flusso continuo di parole, idee, discorsi, ma anche di sensazioni e di tensioni che un equipaggio, stando forzatamente insieme, continuamente produce. Nonché l’ampliarsi, incredulo, della sfera di prossimità – in barca i corpi si sfiorano, o si colpiscono, quasi continuamente – e il riorientamento in una “geografia” quotidiana più familiare e meno satura di ostacoli, come spigoli, cime, verricelli. Inoltre, ci disperdiamo. Qualcuno ha trovato un AirBnB a Valletta, altri stanno a casa di amici a più di un’ora di autobus dal centro. Ognuno di noi riprende in mano i fili della propria quotidianità.

Tutti, però, ci portiamo a casa la sensazione che qualcosa, ancora si muova, dentro e fuori di noi. Forse è il piede marino, o forse sono le innumerevoli suggestioni che abbiamo raccolto durante il viaggio e che non trovando ancora una forma propria, come tonni nella rete, si dibattono furiosamente contro le pareti delle nostre teste.

Intermezzo peripatetico

La Valletta è un luogo spiazzante per un o una genovese. A Genova, se si è “foresti/foreste” è facile perdersi, ma si impara facilmente che da un lato si ha il mare e dall’altro i monti. Ha delle vie che imitano la lingua di terra in cui si trova, ma se si scende, prima o poi, si arriva al mare e da lì orientarsi diventa più semplice. A Malta il mare è da tutte le parti, non è un punto di riferimento, aiuta più a perdersi che a trovarsi.

Malta è un luogo spiazzante. Siamo a nord o a sud? È Africa o Europa? Per le vie di Valletta l’inglese si mischia all’italiano e alle lingue parlate dalle migliaia di turisti che affollano i bar, intorno ai numerosi tavoli che ingombrano le arterie di una qualsiasi capitale europea. Il maltese è una lingua meticcia, per un buon 60% proviene dall’arabo e per il resto è frutto delle occupazioni e degli incontri avvenuti sull’isola nel corso dei secoli. Si scrive con caratteri latini, ma suona come l’arabo, parlato da un siciliano.

Malta sta in mezzo al Mediterraneo, ma simbolicamente su quale sponda si colloca? Per chi ci arriva dal mare fuggendo dalla Libia, o dalla Tunisia, è Europa. Ma i cittadini e le cittadine maltesi sudditi dell’Impero britannico, quando migravano in Australia venivano etichettati come “Non-White”; non erano, in altre parole ‘British citizens’, ma ‘British subjects’: soggetti coloniali.

Potrebbe essere una delle tante storie del colonialismo bianco, machista, europeo; ma se si decide di perdersi tra gli edifici di questa città così difficile da collocare è possibile cogliere una qualche sua nascosta peculiarità. Nessuna storia da flâneur: le voci dei fantasmi, delle storie interrotte, sono taciute da numerose casse che pompano un unico beat. Allora, stracciamo per un attimo il paradigma indiziario “del buon ricercatore/della buona ricercatrice” e decidiamo dove andare a mangiare.

La scelta è poco variegata, si posiziona maggiormente nella scala di un climax: catene di fast food, ristoranti patinati con una vorace passione per foto di piatti tipici e altrettante stanze di una ristorazione che, sebbene sia qui, potrebbe essere ovunque. “Noi abitiamo fuori dal centro, a Valletta non veniamo mai a mangiare. Non saprei consigliarti un ristorante, tutti questi posti quattro o cinque anni fa non esistevano”. Arriviamo nel vecchio mercato centrale, convertito a luogo di consumo per turisti e turiste, come succede a Barcellona, a Madrid, o al Mercato Orientale di Genova. “Ci andavo a fare la spesa con mia nonna. Now it’s a tourist trap”. Per il quartiere di Valletta si sparpagliano turisti e turiste che mangiano a qualsiasi ora diurna e pomeridiana. Eccolo, eccoci, intrappolati/e e ingrassati/e come tonni. Ordiniamo una Ftira con caponata: ci arriva una pizza con funghi e formaggio. I bassi pompano, comunicare è difficile; ci estraniano, quasi ipnotizzati da questo vociare di sciame. Siamo in un qualsiasi non-luogo, in un qualsiasi posto del “Nord globale”, ma resta ancora qualcosa. Cosa succede alla sera?

Nessun totalitarismo, poi, è assoluto, nemmeno quello turistico. È il luogo a mostrarci che esiste ancora qualche scorcio, qualche nota salva per gli incontri, gli sguardi e le parole. Rispetto al paesaggio sono chiaramente dei furti, ma indicano comunque un qualcosa.

Abbandoniamo, sgomenti, il mercato di un lunedì autunnale e sentiamo l’attrito. Come volessimo tornare e contrastare con un tempo lento il levigato incalzare della turistificazione globale. Ci sediamo nei Barrakka Gardens, osserviamo la baia alla nostra destra, le gru del porto sullo sfondo del Forte Sant’Anglu. Passa lenta una chiatta, qualche barca a vela. Una nave da crociera, più grande di qualsiasi edificio attorno, si impone come punto di fuga alla nostra vista.

A Malta ci accoglie Daniela DeBono, la collega maltese con la quale abbiamo organizzato il workshop che conclude la nostra missione di ricerca. Le raccontiamo del nostro viaggio, alternando inglese e italiano. A Malta sono quasi tutti bilingue, un tempo anche tri-lingue. L’inglese e il maltese sono lingue ufficiali, mentre l’italiano era appreso attraverso la televisione. Ora i giovani non sanno quasi più l’italiano, perché seguono quasi esclusivamente i programmi della televisione americana. In altre parole, attraverso i consumi culturali si allenta il legame di Malta con l’Europa mediterranea e si stringe quello con l’oltre-atlantico. Se il Mediterraneo è il mare racchiuso tra le terre, il cosiddetto “mare di mezzo” e Malta ne è il centro, la riconfigurazione delle sue relazioni culturali con ciò che le sta intorno sembra comportare un suo riposizionamento. E forse, assieme a una molteplicità di altri elementi (es.: la globalizzazione della filiera della pesca, la frontierizzazione della sponda sud dell’Europa) contribuisce a un generale riassetto di ciò che consideriamo Mediterraneo. E allora viene spontaneo domandarsi, se il Mediterraneo è sempre “mare di mezzo”: nel mezzo di che cosa si trova oggi?

Raccontiamo l’esperienza maturata nel corso del nostro percorso tra le isole del Mediterraneo centrale all’assemblea di Moviment Graffitti; ci chiedono che cosa abbiamo imparato stando in mare e ritornano in primo piano le storie di sfruttamento degli operai delle tuna farms, le dichiarazioni ambigue delle mille autorità del mare che abbiamo raccolto, la disillusione dei pescatori di fronte alla fine del mondo che hanno abitato, la pervasività delle economie del confine, la presa (materiale e simbolica) del turismo come orizzonte di reddito e desiderio, l’isolamento e la distanza delle pratiche di solidarietà rispetto ai sentimenti isolani. Le compagne e i compagni di Graffiti dialogano con noi regalandoci altre storie e mettendo a nudo le difficoltà di azione di quello che si pone come un soggetto di radicalismo politico: “su tutte le lotte che facciamo coinvolgiamo i locali, ci chiamano i vicini, ci portano le cause per cui mobilitarci contro lo sfruttamento turistico, contro la speculazione edilizia, il consumo del suolo, la distruzione dell’ambiente, lo sfruttamento lavorativo… Siamo riconosciuti come un soggetto utile; solo sulle migrazioni ci scontriamo con un’ostilità generale della popolazione e ci troviamo soli”.  E poi provano a spiegarci il primo sciopero dei drivers migranti di Malta taglieggiati dalle agenzie interinali internazionali da cui sono assunti; lo sciopero, nonostante la partecipazione massiva, dura pochi giorni. Il rischio è troppo grande: perdere il proprio lavoro significa perdere la regolarità del proprio status giuridico e avere uno Schengen ban, cioè trovarsi nell’impossibilità di rientrare in Europa per 5 anni.  

Come chiusura di queste due settimane di imbarco prendiamo parte al workshop “The Mediterranean as a Battleground and a Space of Encounters“, che abbiamo organizzato con colleghi di Malta e altrove. In un dammuso dell’università, discutiamo dei temi che hanno attraversato il viaggio, confrontando gli elementi raccolti sul campo con le esperienze di ricercatrici e ricercatori impegnati ad esplorare da tempo gli stessi territori.

Ci chiediamo, quindi, cosa ci abbia lasciato il fare ricerca sul mare. Ci è venuta meno la terra sotto i piedi, base su cui, quotidianamente, ci orientiamo e nella quale siamo radicati. Muoversi scalzi sulla ruvida vetroresina di Tanimar, tra altri piedi nudi e troppi spigoli ha messo in discussione categorie e classificazioni, scardinando percezioni e relazioni, date e incorporate a terra. Le relazioni tra chi lavorando nello stesso luogo ha ruoli diversi; tra chi sta al piano ammezzato e chi sta al terzo piano, chi è dottorando e chi è ricercatore, o docente. A bordo, infatti, si vive e si dorme assieme. E adesso che siamo a terra per tutti noi è comune “mangiare le patatine dal piatto dell’altro”. I ruoli non si annullano, ma mutano la loro geometria.

La barca ci fa perdere l’equilibrio – non solo fisicamente – e l’acquisire insicurezza nello spostarsi apporta un decentramento della soggettività e una ridefinizione del perimetro del “noi”, imponendoci una maggiore trasparenza. A bordo gli spazi chiusi si fanno stretti, nessuno di noi può rifugiarsi in una zona inaccessibile agli altri. Sia essa un perimetro di intimità (come una casa), o un luogo troppo costoso o troppo lontano per tutti gli altri. E questo incide sul modo in cui pensiamo. In barca siamo più consapevoli della nostra presenza nel mondo: l’essere in barca comporta maggiori sollecitazioni. La traversata, con i suoi tempi lunghi e indefiniti, ci obbliga a un tempo di elaborazione che abbiamo provato a mettere a frutto anche attraverso questo esperimento di scrittura collettiva. A terra invece siamo sottoposti a moltissimi input, che tuttavia influiscono scarsamente sui nostri processi interiori, in quanto ci muoviamo continuamente avvolti dai nostri impegni, pensieri, ecc.

Ci portiamo dietro la sensazione che essere in mare comporti una diversa relazione con la spazialità e con la temporalità. Partire o arrivare dal mare, su una barca a vela, implica il divenire incognita di almeno una delle variabili nell’equazione Velocità=Spazio x Tempo.

Al tempo stesso, muoversi sul mare ci “incorpora” in una serie di relazioni cui non avremmo avuto accesso da terra. Così, con gli altri diportisti, con gli ormeggiatori, con i molti pescatori che affollano le banchine degli scali che tocchiamo, ci diamo subito del tu. Forse perché in mare siamo tutti più informali, o forse perché chi arriva dal mare, in qualche modo, sa cosa è il mare; o ancora, perché in porto, come in un piccolo paese, ci si incontra più volte al giorno: andando verso le docce, a prendere un caffè, controllando gli ormeggi o pranzando in coperta, bordo contro bordo. In questo senso, l’accesso al campo “dal mare” si configura come un moltiplicatore del capitale simbolico e sociale dei ricercatori e delle ricercatrici, e agisce rendendo porosi spazi altrimenti meno accessibili.

Questo primo imbarco è finito, quello di un soggetto collettivo – un equipaggio di ricerca e formazione – che prova a raccogliere storie dal mare e a dare forma a una contro-narrazione. Lo spazio transnazionale che ingloba Malta, Italia, Tunisia e Libia ci obbliga ad assumere ed elaborare mille piani di contraddizione con cui confrontarsi senza sosta, interagendo con i diversi abitanti, lavoratori, e le forme di mobilità che lo attraversano. A questo imbarco ne seguiranno altri nei prossimi tre anni, lo spazio di tempo che ci è assegnato da un programma pubblico di ricerca (PRIN – programma di rilevante interesse nazionale) entro cui il nostro agire è finanziato per esplorare le migrazioni e le porosità, le solidarietà e gli scambi, gli immaginari e i conflitti in diversi territori di frontiera. Alcuni e alcune di noi torneranno a costruire un equipaggio, come un attore narrante e itinerante nel Canale di Sicilia; altri cercheranno di imbarcarsi a bordo di pescherecci, motovedette, assetti della flotta civile del soccorso per documentare, espandere e sostenere quanto, con diversi gradi di formalità, contribuisce a contrastare le necropolitiche del confine e restituire il Mediterraneo alla sua etimologia. Non Mare Nostrum, ma mare di mezzo; un luogo dove elaborare nuovi sincretismi, nuovi linguaggi e idee di trasformazione contro l’iper-estrattivismo capitalista – dai macelli dei tonni alle “fabbriche” del turismo – cui oggi sembra condannato.

In ultimo ci teniamo a ringraziare i partecipanti al workshop “The Mediterranean as a Battleground and a Space of Encounters” con i quali, come i mercanti della città di Eufemia (Le città invisibili, Italo Calvino), abbiamo intrecciato dialoghi e ci siamo scambiati idee che ci porteremo dentro, facendole nostre e custodendole, fino al prossimo incontro. Naor Ben-Yehoyada (Columbia Univesity) per aver condiviso con noi la sua vastissima esperienza di ricerca antropologica sui pescherecci mazaresi e le sue riflessioni sul posizionamento di un ricercatore a bordo. Gilbert Calleja (University of Malta) che ha messo a nostra disposizione la sua esperienza di applicazione delle metodologie visuali, presentando il suo approfondito lavoro di etnografia visuale su un equipaggio di pescatori maltesi ed egiziani specializzati nella lampara. Carla Camilleri (Aditus foundation) che, a partire dal caso El Hiblu, ci ha permesso di approfondire le pratiche della resistenza giuridica alle politiche di securitizzazione delle frontiere applicate a Malta. Chiara Denaro (Università di Trento – Alarmphone Italia), che a partire dal suo duplice ruolo di ricercatrice e di attivista ci ha presentato un ampio quadro sulle modalità operative della solidarietà in mare e sulle infrastrutture civili del soccorso nel Mediterraneo. Mark Micallef (Global Initiative Against Transnational Organised Crime) che, sulla base di un lavoro di ricerca decennale nella Libia “post-Gheddafi”, ci ha fornito un’istantanea dettagliatissima dello scenario libico, con particolare attenzione al fenomeno dello smuggling, al ruolo delle milizie e a quello della sedicente guardia costiera libica. Norbert Bugeja, direttore dell’Institute of Mediterranean Studies, che ha ospitato il workshop, che nella sua relazione ha aperto una prospettiva di approfondimento e di confronto sul Mediterraneo come fucina di immaginari. Infine, un ringraziamento speciale va, da parte di tutti noi a Daniela DeBono (University of Malta) per il supporto nell’organizzazione del workshop, per l’accoglienza e l’amicizia; e alle compagne e compagni di Melting Pot Europa, per aver ospitato i nostri racconti nelle ultime due settimane.

A presto, e buon vento!


L'equipaggio della Tanimar

Siamo un gruppo di ricercatrici e ricercatori delle università di Genova e Parma. Per due settimane, dal 26 settembre all’11 ottobre, attraverseremo il Mediterraneo centrale facendo tappa nei principali snodi della mobilità migrante e del controllo confinario europeo: Pantelleria, Lampedusa, Linosa, Malta.