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L'entrata del centro di Border Line Crisis Center
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Border Line Crisis Center: Judith, un cuore anarchico dalla parte delle donne migranti

La terza parte del reportage «Tijuana. frontiere, resistenze, sogni»

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La terza parte del reportage di Andrea Miti 1 da Tijuana racconta il Border Line Crisis Center, uno spazio gestito come centro comunitario per la popolazione migrante. Il centro è anche un rifugio per donne e bambini in transito, compresi gruppi particolarmente vulnerabili come le persone afrodiscendenti, indigene, LGBTI e persone con disabilità. “Questo spazio“, scrive Andrea, “vuole essere resistenza, libertà, autodeterminazione, autonomia. È una delle realtà che ho avuto la fortuna di incontrare a Tijuana, di quelle che guardano ai margini e vi si addentrano per portare un cambiamento, per denunciare, per problematizzare, vedendo persone prima dei “migranti”.
Judith Cabrera de la Rocha, Tijuanense, co-direttrice del rifugio, mi ha raccontato come è nato e si è evoluto il centro e quella che è stata la sua esperienza“.

Vista della piazza commerciale in cui si trova il rifugio

Tijuana. A 200 metri dal porto di entrata del Chaparral e a 700 metri da quello di San Ysidro, c’è un piccolo centro di accoglienza. All’arrivo, non è chiaro se sia aperto, perché la saracinesca di metallo è quasi sempre chiusa per motivi di sicurezza. L’unico modo per scoprirlo è bussare o sbirciare attraverso le grandi finestre laterali, dove spesso si vedono bambini che corrono o donne che chiacchierano sedute. L’ingresso è sotto un portico ornato da murales e da uno striscione in alto con la scritta, dai colori sbiaditi dal sole e dal tempo, “Border Line Crisis Center2.

Se si ha bisogno di aiuto, di informazioni, di un rifugio, basta bussare a quella porta. Qualcuno del rifugio apre la saracinesca e sorridendo chiede di cosa si ha bisogno, come si può aiutare, e spiegando la situazione e le regole del centro: se si vuole conoscere la situazione alla frontiera, si ha bisogno di vestiti, di cibo, di un rifugio, questo è il posto giusto.

Se si vuole restare tre sono le regole più importanti: il nostro spazio si basa sul aiuto mutuo, quindi si deve aiutare in qualcosa; la seconda regola importante è prendersi cura dei propri figli: ci troviamo in un quartiere poco sicuro; la terza è rispettare le altre ospiti, questa è la loro casa, una casa inclusiva, libera da discriminazioni di genere, razza, religione, preferenze sessuali, pregiudizi e violenza.

Non ci sono solo regole rigide, ma si tratta più di accordi comunitari. Sono accordi che sono stati presi da persone che sono venute prima di lei. Questi possono essere discussi in cerchio ogni settimana, in modo che siano adatti a tutte. C’è una cucina comunitaria, uno spazio di gioco per i bambini, uno spazio per le attività educative, una sala da pranzo e una clinica herbal.

Border Line Crisis Center è un’organizzazione che cerca di offrire una rete di supporto alla comunità di persone migranti, siano essi in transito, rifugiati, deportati o richiedenti asilo, partendo dalle loro esigenze e basandosi sulle risorse locali disponibili attraverso un gran numero di collaborazioni. Lo spazio è inteso come centro comunitario per la popolazione migrante, ma dispone anche di un rifugio per donne e bambini in transito, compresi gruppi particolarmente vulnerabili come le persone afrodiscendenti, indigene, LGBTI e persone con disabilità.

Può accogliere fino a 65 persone, e quest’anno ha accolto soprattutto donne messicane, centroamericane e haitiane, con la loro prole.

Tende nel salone di Border Line Crisis Center

Entrando, si incontra un ampio salone coperto, in gran parte occupato da tende da campeggio di diversi colori e dimensioni. Questo spazio è stato praticamente occupato nel corso degli anni in quella che era una piazza commerciale abbandonata, conseguenza di un’economia turistica in declino. È interessante notare che dalle ceneri di una piazza commerciale è sorto e prospera un centro comunitario. Nello stesso edificio c’è una clinica medica gratuita e un altro centro di accoglienza per famiglie di migranti.

L’atmosfera all’interno è molto diversa da quella di un centro convenzionale. Sembra un centro sociale autonomo, per il modo in cui viene mantenuto dalle persone che lo abitano e lo attraversano. Ogni persona lascia una sua impronta. La manutenzione di base del centro è interamente a carico delle donne residenti. Il lavoro del personale e dei volontari è quello di contribuire con qualcosa in più, stabilire collaborazioni, cercare fondi, facilitare l’accesso ai servizi medici, legali e psicologici, organizzare attività educative, culturali e artistiche per minori e adulte, o semplicemente chiacchierare e spettegolare con loro.

Questo spazio vuole essere resistenza, libertà, autodeterminazione, autonomia. È una delle realtà che ho avuto la fortuna di incontrare a Tijuana, di quelle che guardano ai margini e vi si addentrano per portare un cambiamento, per denunciare, per problematizzare, vedendo persone prima dei “migranti“.

Judith Cabrera de la Rocha, Tijuanense, co-direttrice del rifugio, mi ha raccontato come è nato e si è evoluto il centro e quella che è stata la sua esperienza. La sua energia e il suo impegno, la sua passione per i progetti comunitari, la sua posizione anarco-femminista e il suo senso di giustizia le hanno dato la forza di gestirlo per quasi due anni senza stipendio.

Judith serve pasti con le compagne del centro di accoglienza ad un accampamento formatosi in giugno al porto di entrata di San Ysidro

Come ti sei avvicinata al tema della migrazione?

Sono cresciuta qui, e ci si desensibilizza al tema. Mia madre è stata costretta a migrare. È arrivata a Tijuana in fuga dalla violenza familiare. Qui, nella sua casa, ha ricevuto praticamente tutto il suo villaggio. Sono passati tutti a Tijuana da lei, perché aveva un ristorante, dove si poteva lavorare per un po’ e continuare con il proprio destino e i propri progetti. In modo molto intuitivo, mia madre aveva il suo centro di accoglienza, per la sua famiglia e per i vicini del villaggio. Credo che non ci sia stato un momento in tutta la mia infanzia e adolescenza in cui non abbia avuto gente di Sinaloa in casa. La migrazione era così comune che si smetteva di vederla… gli alberi erano troppo vicini per vedere la foresta.

Mi sono avvicinata in maniera più consapevole al tema della migrazione nel 2018, quando è arrivata la carovana. A quel tempo facevo parte del collettivo Enclave Caracol 3. Le compagne dell’Enclave mostrarono molta solidarietà con le persone della carovana, e io ho iniziato da lì. Ho visto la carovana attraverso i media, che la stigmatizzavano terribilmente, demonizzandola. Erano “criminali, tossicodipendenti, ingrati“.

C’era tanto odio, xenofobia, paura. Si poteva sentire chiaramente il discorso di Trump tradotto in spagnolo 4. La stessa gente di Tijuana, che è una città fondata da migranti, per i migranti, improvvisamente diceva cose e condivideva discorsi di odio che non avevano senso…

Nel primo centro di accoglienza in cui ho lavorato, sono entrata come organizzatrice culturale più che altro, e poi come responsabile della cura collettiva e della salute mentale. In quel rifugio mi sono resa conto che le donne sole subiscono ancora molestie e discriminazioni nonostante si trovino teoricamente in un posto sicuro. Il machismo è dilagante, la misoginia è fortissima. Anche tra noi donne! Proveniamo comunque tutte da una cultura patriarcale e maschilista, anche se non abbiamo il potere di oppressione che hanno gli uomini. Tutti in un rifugio possono andare a lavorare, tranne le donne, perché non c’è nessuno che si prenda cura dei loro figli e questo le limita molto, limita la loro mobilità e la possibilità di avere un reddito.

Come è cambiata la migrazione qui a Tijuana negli ultimi anni?

Ho vissuto questo cambiamento dall’interno. So, perché l’ho visto, che coloro che migravano erano per lo più uomini, giovani, sani, con il desiderio di lavorare, che andavano negli Stati Uniti per inviare rimesse, sostenere le loro famiglie e poi tornare in Messico. Prima, il confine era molto più poroso: si poteva attraversare, lavorare nella ‘pisca5 e tornare.

Dal 1994 in poi, con l’Operazione Gatekeeper 6, la frontiera si è chiusa ulteriormente. Molti di coloro che la attraversavano dovevano rimanere negli Stati Uniti, perché andare avanti e indietro non era più un’opzione.

Nella carovana non c’erano più solo uomini, ma anche molte donne, molti bambini, anziani, e persone con disabilità. Molte donne incinte arrivavano a Tijuana quasi disidratate, in un grave stato di salute. Non si era mai visto prima. Nella carovana c’era di tutto.

Ci siamo resi conto che non c’erano rifugi che ricevessero persone appartenenti alla comunità LGBT. Tutti i centri che esistevano fino a quel momento erano religiosi e non accettavano persone evidentemente LGBT. Le donne trans non avevano dove andare. Se non avevano nessuno che le ricevesse, erano destinate a vivere per strada e a dedicarsi al lavoro sessuale, che nella maggior parte dei casi comporta l’abuso di sostanze. Questa è la storia del bordo, la canalizzazione del fiume Tijuana, piena di tutte le persone migranti che arrivano qui, si scontrano con il muro e non sanno dove andare né che fare 7. Per questi motivi iniziarono ad aprire molti altri centri di accoglienza con visioni diverse, che accoglievano un altro tipo di popolazione.

Ci racconti la storia del Border Line Crisis Center?

Il rifugio è nato come centro comunitario per i rimpatriati e i deportati. Fu fondato da Daniel Ruiz, ora co-direttore, negli uffici del suo call-center: decise di destinare una parte all’accoglienza di deportati, affinché potessero avere accesso a un telefono e a un computer per comunicare con le proprie famiglie.

Subirono un attentato. Si trovavano dall’altra parte del ponte, in un’area controllata da gruppi della criminalità organizzata che cercavano di estorcere loro denaro. Non accettarono e i loro uffici furono incendiati. A quel punto si trasferirono da questo lato del ponte, dove ci troviamo ora. Il territorio in cui siamo è diviso tra cinque diversi gruppi di criminalità organizzata. Una banda transnazionale controlla dalla metà del ponte fino a Chaparral, e un’altra controlla dalla metà del ponte fino a qui. Altri gruppi controllano le altre aree circostanti. Questo edificio in particolare si trovava nel mezzo, al di fuori delle loro attività.

Il porto di entrata del Chaparral, la piazza nella quale si formò l’accampamento

Nel 2018, questi uffici venivano ancora utilizzati come centro comunitario per persone in transito. Trump implementò il programma MPP (Migration Protection Protocol) o anche detto “resta in Messico” nel 2019 8. In base a questa politica, le persone potevano fare domanda di asilo al confine, ma dovevano aspettare in Messico e attraversare solo per presentarsi alle udienze in tribunale. Normalmente queste erano molto presto e, data la nostra vicinanza al porto d’ingresso, le persone rimanevano per la notte. Lo spazio è diventato un rifugio di emergenza. In seguito, le persone hanno iniziato a restare per più tempo.

Accampamento del Chaparral

Quando sono arrivata c’erano due o tre famiglie al massimo, 15 persone, e dormivano in  spazi improvvisati. Avevo appena perso il lavoro e non volevo sapere più nulla di migrazione o volontariato. Ero molto stanca. Alla fine sono entrata come socia, come co-direttrice… senza stipendio. Mi sarei procurata lo stipendio da sola, ma ho passato un anno e mezzo senza. La raccolta fondi è difficile.

Quando è sorto l’accampamento del Chaparral, all’inizio del 2021, ho iniziato a lavorare molto lì, a titolo personale, e a poco a poco sono stata coinvolta in altri progetti con le poche organizzazioni che lavoravano nel campo. Il campo di Chaparral era un accampamento di persone migranti molto stigmatizzato e delegittimato 9. L’intera scena di attivisti e delle ONG emarginava coloro che ci andavano a lavorare.

Ho visto Judith per la prima volta a un evento della Giornata Internazionale del migrante fuori dal campo, dove c’era un concerto di un’artista locale chiamata “Fémina Fatal”. Il campo è stato sgomberato all’inizio del 2022, dopo un anno dalla sua formazione 10

Eravamo in un gruppo di lavoro chiamato CHA, Chaparral Humanitarian Alliance 11. Border Line Crisis Center, che era un’organizzazione relativamente piccola, è riuscito improvvisamente a far entrare legalmente negli Stati Uniti oltre 3.000 richiedenti asilo, essendo parte di CHA. Eravamo un gruppo molto agguerrito. Avevamo almeno 100 persone qui, ogni giorno, che cercavano un appuntamento con un avvocato, o di entrare in una lista, a seconda del processo ufficiale vigente, che cambiava continuamente 12.

A quel tempo, stavamo già pensando se fosse il caso di ospitare solo donne nel centro di accoglienza. L’idea arrivava dalle mie esperienze precedenti ed era anche legata a una prospettiva apertamente femminista e intersezionale. C’erano anche ragioni pragmatiche. Gli uomini sono più violenti, creano più problemi, non sono abituati al lavoro domestico, si aspettano di essere accuditi e non amano ricevere ordini da una donna.

Abbiamo avuto un caso molto grave di un uomo residente, molto attivo nel rifugio, che iniziò a molestare le donne presenti. È stato un grosso problema, e loro mantennero il silenzio per un po’.

Questo ci ha dato un’impressione molto chiara della vulnerabilità di queste donne, della paura di rappresaglie e del livello di violenza, controllo, manipolazione e abuso psicologico che subiscono. Inoltre, il livello di precarietà in cui si trovano molte famiglie non consente loro di avere opzioni, non possono decidere di andare in un altro centro di accoglienza. Non conoscono la città, non hanno una rete di supporto, dove andranno?
Non volevamo chiudere la porta alle famiglie che arrivavano con uomini, ma ogni volta, da lì veniva l’oppressione verso le altre donne o verso i minori. È stato molto difficile, ma la decisione è stata quella di proteggere donne e i bambini.

Quali sono gli obiettivi del Border Line Crisis Center?

È un argomento delicato per il mio cuoricino. Vorrei che questo luogo, oltre a quello che già facciamo, che è molto, fosse un luogo di guarigione, un luogo che possa essere una tregua in mezzo a tutto il caos che la migrazione rappresenta, in mezzo a tutte le trappole che esistono per la popolazione migrante, le frodi, le estorsioni, le rapine e gli stupri. Vorrei che fosse un luogo dove vengono a riposare, i loro corpi ma anche le loro menti. Vorrei creare una connessione con il potere che c’è in loro e che ci unisce tutte. Per ora, la fretta, l’urgenza, la perenne crisi umanitaria che stiamo affrontando e la mancanza di personale, ci ostacolano un po’.

Mi piacerebbe che avessimo una maggiore incidenza politica e che questo rifugio servisse anche come piattaforma per l’organizzazione di queste donne. Questo è molto difficile quando le persone che arrivano non sono politicizzate e i loro obiettivi sono ben altri. La maggior parte di loro è solo di passaggio e questa è l’ultima tappa prima di raggiungere gli Stati Uniti. Ma io non perdo la speranza. Sono sicura che esiste una strategia per raggiungere questo obiettivo, tattiche che non ho visto, ma le troverò. Abbiamo fatto molta strada in questi anni. Border è uno dei rifugi più piccoli in termini di numero di persone che possiamo accogliere, ma è già una delle organizzazioni più conosciute della zona, con un ampio raggio d’azione. La vedo in crescita.

Cosa trovano le donne che arrivano in questo rifugio?

Non mi piace dire che trovano un luogo sicuro, perché credo che sia impossibile da raggiungere in questa società. Ma mi piace pensare che trovino un luogo almeno più sicuro, per stare bene loro e i loro figli. Un luogo in cui le loro esigenze di base siano assicurate, cibo, acqua, igiene, un luogo in cui possano trovare i servizi di cui hanno bisogno, come l’assistenza sanitaria, la salute mentale, consulenza legale. Non necessariamente noi direttamente offriamo loro tutto questo, ma abbiamo i contatti per far sì che possano ricevere le cure di cui hanno bisogno.

Sicuramente trovano un luogo molto flessibile, che dà loro molta libertà: libertà di fare, di andare, di venire, di organizzarsi tra di loro, di ascoltare la loro musica. Trovano un luogo in cui vengono ascoltate, in cui vengono prese in considerazione, in cui non ricevono solo ordini dall’alto. Questo è ciò che mi piace pensare, che trovino un luogo che li accolga calorosamente. Penso anche che trovino un piccolo team che mette il cuore in quello che fa: nessuno lo fa per i soldi, lo posso garantire. Ma non idealizziamo, trovano anche un luogo difficile. Ci possono sempre essere tensioni tra le famiglie.

Le compagne del centro ad una clinica gratuita per ricevere attenzione medica

Quale è il vostro approccio nella gestione dello spazio?

Mi piacciono e mi entusiasmano l’organizzazione comunitaria, l’autogestione, l’autosufficienza, il mio cuore è più anarchico che altro. E l’aspetto positivo che vedo nella gestione di un’organizzazione è che possiamo avere i vantaggi di un’associazione civile senza avere pratiche da ONG.

Possiamo promuovere azioni politiche ed essere in grado di decidere come e dove lavorare, ed essere liberi di farlo. La mia visione deriva dal profondo rispetto dell’autonomia delle donne che accogliamo. Da questo deriva la flessibilità che abbiamo qui, e il caos, oltre che dalla fiducia che queste persone sappiano cosa fare della loro vita.

Le donne che riceviamo non sono agenti passivi della loro storia, e noi non siamo i loro salvatori. Non c’è spazio per una visione messianica. Il risultato è anche caos, ma è un caos consapevole, non è una negligenza, accettiamo di lavorare nel caos, come potenziale di creatività.

Un’altra cosa che mi piace molto dell’anarchia è l’orizzontalità. Le decisioni che vengono prese qui non riguardano nessuno più delle residenti, per questo è importante ascoltarle e che le loro voci siano parte del processo decisionale. Il posto è loro, vivono qui, e nessuno conosce la migrazione meglio di loro. Nessuno sa di più su ciò che vogliono e su ciò di cui hanno bisogno. Forse noi sappiamo di metodologia, di come funzionano le dinamiche di questa frontiera, grazie all’esperienza che abbiamo avuto nel corso degli anni. Sappiamo dove andare per ottenere tali documenti, tali servizi. Combinando le nostre risorse con le loro, tutto il lavoro che viene svolto risulta molto più efficace, molto più reale, molto più immediato.

Non è sempre facile avere questa posizione. Alcune persone hanno una mente più istituzionalizzata e per loro funziona meglio ricevere istruzioni in modo verticale, come accade in molti centri di accoglienza. Molte persone non si sentono a proprio agio con la responsabilità, il mutualismo e la libertà di fare proprio lo spazio. Ci sono donne che non sanno come usare la propria voce, si crea per loro uno spazio affinché si esprimano e rimangono mute. Non perché non abbiano nulla da dire, ma perché il sistema capitalista-patriarcale non ha permesso loro di usare la voce al di là della sfera privata, non sono abituate a farlo e non lo faranno da un giorno all’altro. Dietro questi atteggiamenti c’è una violenza strutturale profondamente radicata e anni di condizionamento sociale.

Inoltre, viviamo in una società super individualista, dove ognuno si tira su con le unghie e con i denti, per la propria sopravvivenza, e non si vede come parte di una comunità. Non cresciamo pensando che il benessere dell’altro è anche il nostro benessere, comune e condiviso. Cresciamo con questa idea di competizione: più lei ha, meno io avrò, giusto? Le risorse qui sono limitate, c’è molta precarietà nel contesto del rifugio, e questo innesca molti meccanismi di sopravvivenza nelle persone. Per questi motivi, mi chiedo: per le persone che non hanno una visione politica e comunitaria del benestare, sarà utile arrivare in un posto con questa mentalità? O le mette in una situazione difficile e scomoda? Non lo so. Ma questa è la mia scommessa, ed è l’unico modo per saperlo. Ho visto persone cambiare, rendersi conto dei benefici dello stare insieme comunitario.

Quali sono le difficoltà maggiori che incontrate?

La verità è che la maggiore difficoltà è stata la mancanza di stipendio. Sono arrivata a un punto in cui non potevo più farcela, dovevo pagare l’affitto, la scuola, il cibo, dovevo sopravvivere. Ogni volta che avevo un’emergenza non potevo andare dal medico. Mi sono indebitata moltissimo, ed ero estremamente stressata. Sono arrivata al punto di prendere in considerazione un altro lavoro. Non riuscivo nemmeno a pagare la benzina. Per fortuna, durante quella settimana, sono arrivati al centro i primi fondi che ci mi hanno permesso di avere uno stipendio.

Un’altra grande difficoltà è stata la persecuzione che abbiamo vissuto da parte delle autorità a causa del mio lavoro all’accampamento del Chaparral.

Posto di polizia abbandonato in prossimità del ponte del Chaparral

Quando infatti le autorità cercavano di sgomberare il campo, Judith era in prima linea nell’impedire che la polizia buttasse via gli effetti personali delle persone. Insieme ad altri attivisti riuscì a fermarli. Purtroppo, accanto a lei in queste lotte erano presenti anche persone che avevano interesse a tenere lontana la polizia per poter continuare le loro attività, tra cui il controllo del campo con la violenza e l’estorsione. Judith si ritrovò così ad apparire in molti video ed emersero voci secondo le quali aveva legami con il gruppo criminale che operava a Chaparral.

Mi sono sentita in pericolo. Ho avuto molta paura. L’intera area qui intorno è sotto il controllo di bande e gruppi criminali, e non sapevo loro con chi fossero coinvolti, se da questa parte o dall’altra del ponte. Temevo di essere dal lato sbagliato. In Messico il 97% degli attacchi contro attivisti e giornalisti non ha nessuna conseguenza, so che non c’è protezione per noi. La polizia municipale ha iniziato a controllare le nostre attività. Hanno iniziato a dire che il rifugio non esisteva, che si trattava solo di riciclaggio di denaro, che non c’era nulla, che era chiuso. Non hanno mai bussato alla porta per scoprirlo.

L’attivismo ti procura molti nemici qui. Se si vuole fare politica in Messico, occorre “leccare fondoschiena”. Io non posso. Non sono molto diplomatica. E ad essere onesti non mi piace del tutto l’idea della difesa dei diritti umani, perché i diritti umani dovrebbero essere garantiti dallo Stato, e per garantirli occorre legittimare lo Stato come garante di questi diritti, quando è lo stesso stato che li viola.

Il bordo dal ponte del Chaparral, il fiume Tijuana

Che cos’è Tijuana?

Tijuana è un caos molto bello, molto amorevole. È abbondante, per molte cose. È una città che ha accolto tante persone e ha avuto qualcosa per tutti. Ora c’è anche molta violenza, è stata una delle città più pericolose del mondo per anni. È una città fatta di persone migranti. È come una capirotada (un dolce tipico messicano, una specie di budino di pane con frutta), prendiamo cose da ogni parte, e alla fine viene fuori un buon risultato. Molto gustoso.

La ricerca di un’identità Tijuanense da parte di coloro che sono nati qui mi ricorda molto quello che fanno gli adolescenti, volersi definire a partire dall’essere diversi dai propri genitori. Qui siamo cresciuti parlando inglese e spagnolo mescolati insieme, ascoltando i Nirvana e i Radiohead. C’è molta più identificazione con questa cultura, con i film di Hollywood. Questo è l’ambiente in cui sono cresciuta, era ben lontana dal considerarsi “una città di migranti“. Però Tijuana è creata e definita dalla sua posizione geografica. Per me ha avuto molto senso quando l’hanno definita “la terza nazione”. Perché non è sicuramente gli Stati Uniti, ma non è nemmeno il Messico. È molto diversa da tutto il resto.

Tijuana è brutta, ma è amichevole.

Spesso usano la parola ‘transfronteriza‘ e non mi piace molto perché, vivendo qui, non si sente così, non si sente molto la frontiera.

Per esempio, quando arriva gente da fuori e li porto a vedere il muro in spiaggia… ultimamente mi sono resa conto che non l’avevo mai guardato. È sempre stato lì.

Ma è come se Tijuana facesse le sue cose da questo lato, indipendentemente dalla sua esistenza. Ovviamente il muro ci definisce, ma non ci limita. Non mette limiti alla nostra possibilità di divertirci, di avere una vita molto ricca e molto interessante.

PH: Valentina Delli Gatti (Muro di confine sulla spiaggia di Tijuana). Dal reportage “Bienvenido a Tijuana, bienvenido a mi muerte
  1. Biologo di formazione, sono da anni attivista per i diritti umani, prima in Italia, a Bologna, e poi a Tijuana, in Messico. A Tijuana mi sto specializzando in migrazioni internazionali e collaboro a diversi progetti con associazioni civili per la tutela dei diritti delle persone migranti, lavorando in centri di accoglienza e con associazioni binazionali. In particolare, sono interessato a progetti comunitari con finalità educative e con un approccio di genere
  2. Il sito web; la pagina FB
  3. Centro sociale autonomo nel centro di Tijuana
  4. Trump, a todo pulmón contra la caravana, CNN (1 novembre 2018)
  5. La raccolta, in particolare di cereali, caffè, mais e cotone. Storicamente, la maggior parte dei messicani che si recano negli Stati Uniti lavorava nel settore agricolo degli Stati Uniti, un settore che fa ancora molto affidamento sulla manodopera senza documenti
  6. L’Operazione Gatekeeper, di cui parla Judith, faceva parte del programma di controllo delle frontiere del Governo degli Stati Uniti, iniziato sotto il Presidente Bill Clinton, con l’obiettivo di fermare l’immigrazione clandestina negli Stati Uniti e di rendere più difficile contrabbando e traffico di persone attraverso il confine.

    In quegli anni è iniziata la costruzione del muro che si può vedere oggi a Tijuana, molto prima che Trump ne parlasse nella sua propaganda. Programmi simili sono stati messi in atto in altre città di confine. Il risultato è stato una rottura della circolarità della migrazione messicana, dovuta all’aumento dei rischi nel attraversare il confine. Le persone erano spinte ad attraversare zone desertiche e fluviali molto più pericolose, mettendo ancora più a rischio la loro vita e aumentando di fatto il volume di affari per i contrabbandieri

  7. México: la trágica vida de los deportados en El Bordo, BBC (2014)
  8. México: La política migratoria de Estados de Unidos pone en peligro la vida de los solicitantes de asilo en Tamaulipas, MSF (2019)
  9. L’accampamento del Chaparral era composto da centroamericani e messicani in attesa di richiedere asilo o in attesa della propria udienza negli Stati Uniti. L’accampamento arrivò ad alloggiare più di 800 persone, accampate in tende di fronte al porto di ingresso del Chaparral. Judith era una delle poche attiviste che si recavano al campo per lavorare con le persone che ci vivevano, fornendo loro informazioni, monitorando le loro esigenze e organizzando anche attività culturali
  10. La Alianza Humanitaria Chaparral denuncia, Impacto (2022)
  11. Alianza Humanitaria Chaparral Video informativo. Psicólogos Sin Fronteras Baja California
  12. Dopo che Biden ha posto fine al programma MPP, il Titolo 42 è rimasto in vigore fino allo scorso maggio. Ad un certo punto, il CBP, Customs and Border Protection, l’Ufficio delle Dogane e della Protezione delle Frontiere degli Stati Uniti, ha iniziato a concedere eccezioni al Titolo 42 ai richiedenti asilo, sotto forma di parole humanitario, attraverso organizzazioni e centri di accoglienza che operano nelle città di confine. Tra questi c’era il Border Line Crisis Center. Di fatto, è stato chiesto loro di fare il lavoro del CBP