Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza
PH: Mara Girardi
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La frontiera Messico-USA dopo il «Titolo 42»

Un reportage da El Paso e Ciudad Juárez

Start

All’ora zero del 12 maggio scorso si è conclusa la tormentosa vicenda del Titolo 42 (T42). Questo provvedimento di salute pubblica era praticamente diventato una specie di feticcio, per lungo tempo oggetto di tutte le maledizioni, perché permetteva di rispedire indietro le persone migranti in pochi minuti, negando loro il diritto a chiedere l’asilo.

Poi, la fine imminente del T42, era diventata la fonte di tutte le paure. L’incertezza ha fatto vacillare alcune persone, che sono rimaste in attesa, afferrandosi alla fiducia in una cosiddetta “via legale” ed alle promesse della “democrazia”, ma la maggioranza si è precipitata senza ripensamenti verso il confine da varcare prima dell’”ora zero”, cioè prima di cadere nel vuoto di provvedimenti poco chiari, ma sicuramente ancor più preoccupanti del Titolo 42.

Una folla di migranti abita le strade di El Paso

Perciò, mentre si avvicinava la fine del titolo 42 le strade di Ciudad Juárez si svuotavano e quelle di El Paso erano inondate da un numero crescente di persone in transito, accampate soprattutto intorno alla chiesa del Sacro Cuore e nelle sue vicinanze.

La maggior parte sono arrivate qui dal muro e dalle sue Porte o dai suoi varchi informali. Migranti consegnatesi al CBP 1 (nelle porte o in città) e rilasciate dopo pochi giorni di detenzione, con un permesso per stare negli stati Uniti e uno o più appuntamenti nei tribunali migratori in vari punti del paese, oppure entrate dai passaggi irregolari ed hanno inoltrato una richiesta d’asilo online, la cui accettazione da parte del sistema implica un permesso temporaneo.

Due documenti che, pur con caratteristiche differenti, per il momento evitano espulsione e deportazione 2.

PH: Mara Girardi

In ogni caso, sono persone ormai sottoposte a situazioni di stress meno traumatiche, e rimangono ancora forzosamente a El Paso perché non hanno i mezzi per raggiungere il loro destino finale all’interno degli Stati Uniti, o un destino intermedio, una delle città santuario come Denver 3, Colorado, oppure come Durham 4, in Carolina del Nord, dove troveranno accoglienza, appoggio umanitario, un’assistente sociale che le aiuterà a trovare lavoro e casa, così tra qualche mese potranno presentarsi con serenità alle udienze dei tribunali migratori.

Maggio: storie di ordinario successo

Antonio è un ex militare venezuelano più fortunato di molti altri, perché gli hanno appena concesso un parole umanitario, – il che non è mai scontato, nemmeno in un caso come il suo – e mostra con una gioia ancora un po’ incredula il documento che gli conferma che si è lasciato indietro muri e fili spinati. Antonio nell’immediato non ha molte preoccupazioni, perché qualcuno gli manderà il biglietto per Denver.

Rosa e sua figlia Deborah, di 16 anni, insieme ad Andrés e Ricardo, di nazionalità colombiana, non hanno mai perso il sorriso. Pur dormendo sul marciapiede e senza nemmeno la tenda che hanno lasciato a Ciudad Juárez, il 6 maggio a El Paso sono più che mai sorridenti perché finalmente non vedono davanti a sé nessun muro militarizzato e, avendo potuto stampare l’accettazione della loro richiesta di asilo online, sentono di avere un salvacondotto. Ma non sanno come allontanarsi dalla frontiera perché le associazioni umanitarie ormai non hanno risorse per finanziare gli spostamenti di migliaia di migranti e a loro nessuno manderà i soldi per comprarne uno. Così sono rassegnate, nell’immediato, a mendicare solidarietà nei semafori ed a cercare dei lavoretti per finanziarsi quest’ulteriore tappa del loro viaggio… una delle ultime, sperano.

Altri non hanno ancora concluso la loro richiesta d’asilo online, e sono le persone che corrono il maggior rischio. In ogni caso, tutte sanno che in un futuro imminente le strade intorno alla chiesa del Sagrado Corazón (Sacro Cuore) non rappresenteranno più una protezione valida per loro, e quindi devono trovare con urgenza il modo di partire.

Il tempo dei militari

Poi il Dipartimento della Sicurezza Nazionale, DHS, ha messo in atto quanto annunciava da giorni in preparazione del “dopo T42”: con l’arrivo di migliaia di soldati ed agenti la città è stata militarizzata, soprattutto la striscia di terra che corre lungo la frontiera, si sono svolte esercitazioni militari, anche chiudendo il ponte e, alla fine, la zona intorno alla chiesa del Sacro Cuore è stata sgomberata.

Quindi prima si è svuotata Ciudad Juárez, quando tutte le/i migrante sono corse verso la frontiera e verso l’altro lato riempiendo, come in due vasi comunicanti, El Paso, e poi è toccato a quest’ultima città, quando è stato chiaro che la strada non era più un luogo sicuro. Così due giorni prima della fine del T42, anche El Pasoè diventato uno scenario di assenze.

Con le/i migranti praticamente invisibilizzate come prima delle “crisi migratorie”, le norme del post Titolo 42, dure e restrittive come annunciato, sono state ufficialmente rese pubbliche il 10 maggio e, a partire dal 12, sono entrate in vigore a tutti gli effetti, dando inizio ad una nuova tappa della storia delle politiche migratorie degli Stati Uniti.

Il nuovo giro di vite del “dopo T 42

Si tratta di due pacchetti di misure già annunciati a gennaio che, nelle intenzioni dell’amministrazione Biden-Harris, dovrebbero far fronte alla situazione di flussi migratori sempre in crescita.

Il primo è un pacchetto di misure dei Dipartimenti di Sicurezza Nazionale e di Stato finalizzato, come enunciato nel comunicato stampa a «una gestione umana della frontiera attraverso la dissuasione, l’applicazione della legge e la diplomazia».

Due le novità, presentate come vantaggi per le/gli utenti. Innanzitutto la prossima apertura di 100 Centri Regionali di Processamento, RPC (Regional processing centers) 5 in vari paesi dell’Emisfero Occidentale per la presentazione di richieste di asilo, e l’apertura imminente dei primi due di questi centri, in Colombia e Guatemala 6.

Inoltre, si è lanciata una nuova versione dell’applicazione CBP One che, a partire dal 10 maggio, non dovrebbe più essere un’angosciosa corsa a ostacoli come era prima: è in funzione non più per un’ora ma per 23 ore al giorno rendendo più facile l’accesso, e si presume che conceda più tempo per riempire ogni sezione del formulario. Infine, si è annunciato un aumento degli appuntamenti concessi giornalmente. In questo modo dovrebbero diminuire le interruzioni del collegamento ed aumentare le possibilità di completare il procedimento fino ad ottenere un appuntamento nel posto di frontiera con le autorità migratorie per – finalmente – chiedere l’asilo “per le vie legali”.

Le altre misure, invece, intensificano i controlli e aumentano la militarizzazione e la sorveglianza: rafforzamento della pattuglia di frontiera, la border patrol (in termini di personale e di finanziamento); aumento della capacità di detenzione, di processi migratori express, di emettere sentenze di deportazione accelerate e aumento dei voli di deportazione; campagna informativa per contrastare il traffico umano e, infine, la pubblicazione del secondo pacchetto di misure, complementare al primo.

Queste ultime sono misure di dissuasione basate su sanzioni e castighi a chi non dovesse usare le vie legali, messe a punto congiuntamente dai Dipartimenti di Stato e di Giustizia 7. Permettono agli Stati Uniti di deportare immediatamente chi nell’intervista non dimostra – o convince – di essere in pericolo nel suo paese d’origine e, soprattutto, riafferma l’asylum ban, secondo cui chi entra negli Stati Uniti in modo irregolare o senza aver chiesto asilo nei paesi di transito, sarà considerato inammissibile alla richiesta negli Stati Uniti, salvo per circostanze molto eccezionali che la persona richiedente avrà l’onere di dimostrare. Tutto sottoposto all’insindacabile giudizio della/del funzionario incaricato di ciascun caso.

Migranti sempre più lontane, senza voce, invisibile

Gli RPC sono presentati come iniziative “amichevoli”, perché disegnati per moltiplicare le opportunità delle cosiddette vie legali per una migrazione ordinata e sicura, come continuano a dichiarare le autorità non solo degli Stati Uniti, ma anche di paesi come Colombia e Guatemala, dove si dovrebbero aprire i primi due centri. In realtà, a parte il ritardo nella loro apertura e l’incertezza sul loro funzionamento, sembrano insufficienti a far fronte ai crescenti flussi migratori ed incapaci di persuadere le persone che vogliono entrare negli Stati Uniti ad avere fiducia negli strumenti approntati dalle autorità. Sembrano anche strumenti di contenimento virtuale, complementari ai cordoni militari già funzionanti.

Oltre ad affrontare l’aumento sostenuto dei flussi migratori con norme dure, restrittive e criminalizzanti, si pretende quindi di allontanare sempre più le persone migranti dalle frontiere USA, dalle telecamere e dai media, di fronte ai quali protestano, piangono ed esigono, si pretende di evitare che abbiano voce e volti, che siano visibili e rivendichino i propri diritti, che si approprino di strade e piazze, che si presentino in persona e bussino alla porta. Come è successo sempre più spesso negli ultimi anni, soprattutto a partire dalle carovane migranti.

La frontiera più amara dopo il 12 maggio

Poco dopo il 12 maggio a Juárez, è ricominciato ad aumentare gradualmente il flusso di arrivi dal sud, ma anche il ritorno delle persone di nazionalità venezuelana, haitiana, cubana e nicaraguense che ancora non hanno avuto il tempo di capire che sono molto più fortunate di chi è state rispedito nei paesi d’origine.

Le notizie più tristi, infatti, sono quelle dei voli di deportazione verso paesi come Guatemala, El Salvador, Colombia, Cuba che con il passare dei giorni si sono moltiplicati, ancor più in termini di visibilità grazie ai mezzi di informazione e dei social. Particolarmente sorprendente la presenza sui voli di famiglie o addirittura di donne sole incinta e con figli/e, per le quali l’asilo si considerava sicuro, inspiegabilmente rimandate nel luogo da cui, a ragion veduta, erano fuggite. I loro volti disfatti dalla sconfitta raccontano alle telecamere che pagano oggi il prezzo più alto, sono le persone più ferite, le più spezzate. Il ritorno a casa non è una gioia, perché sono poche quelle che non hanno venduto tutto ciò che avevano, che non si sono indebitate per fuggire lontano, o addirittura hanno tagliato i ponti con la vita passata. Non hanno casa, non hanno lavoro, in molti casi non hanno familiari, ormai sparsi nella geografia del continente americano.

Santos, salvadoregno non più giovane, sa di essere una preda nel suo paese. Piangeva quando raccontava la persecuzione e le violenze patite dalle autorità solo perché zio di un ragazzo incarcerato per la sua giovane età, arbitrariamente sospettato di essere un pandillero, e diceva “se torno a casa mi aspettano per uccidermi”. Valentina, colombiana, voleva evitare che i gruppi armati reclutassero con la forza suo figlio di 14 anni e, col tempo, quelli più piccoli e ripeteva: “non posso tornare a casa, posso andare dovunque, ma non a casa”. E così via. Quindi, la frontiera più amara è quella che si attraversa per tornare indietro, quella che le persone si trovano davanti arrivando a casa, la fatica o l’impossibilità di viverci.

El Paso o la porta verso il futuro

Invece è a El Paso dove, 3 o 4 giorni dopo il 12 maggio, si poteva respirare un po’ di allegria. Qui le ormai poche persone che bivaccavano o si riunivano in strada, nonostante lo sfinimento e la precarietà, celebravano di non dover scappare né nascondersi, almeno per un po’ di tempo. Trovare appoggio per iniziare una nuova vita negli USA, cominciando con l’acquisto di un biglietto per recarsi nella città dove sono diretti, è una nuova sfida e, per alcune, anche un nuovo dramma perchè difendere il proprio caso nelle udienze presso i tribunali per l’asilo non sarà certo una passeggiata. Intanto però si può tirare un sospiro di sollievo, c’è ancora tempo per risolvere questi problemi.

Non è una tranquillità a 360 gradi. Per esempio Francisca, venezuelana di 22 anni, è incinta di 5 mesi, aspetta due gemelli, le è stato dato il visto umanitario, ma a suo marito Víctor è stato negato nonostante il suo sia un “solido” caso di persecuzione politica. E quindi è stato espulso, poi ha passato nuovamente la frontiera, si è consegnato alla migra ed adesso è in un centro di detenzione. Hanno un patrocinatore, un cittadino USA (ex militare, mi confida Francisca a voce bassa) che farà di tutto per far liberare Víctor.

Sebastián e Carla, venezuelani con il loro piccolo di 23 mesi, ai sentono persi e disperati perché, dopo essere scesi da tre giorni di treno a Ciudad Juárez hanno camminato per chilometri fino alla porta 42, si sono consegnati, hanno ottenuto il parole tutti e tre, sono stati sballottati da un posto all’altro, non hanno un centesimo, e chi li ha aiutati fino ad ora dice di non poterlo più fare e che nella sua zona, a New York, non c’è lavoro. Sarebbero sicuramente meno disperati se non fossero così sfiniti da un percorso duro e senza soste, dalla mancanza di un posto dove riposare e dalla perdita dell’unico punto d’appoggio che avevano, ma chi li vede e parla con loro ha la certezza che presto questi problemi si andranno risolvendo e che loro sì hanno un futuro possibile. A pochi passi da dove si trova questa giovane famiglia, un gruppo di ragazzi di tutte le età si è appropriato della strada per giocare a pallone, allestendo le porte con quello che hanno a portata di mano, dei pulitissimi ed eleganti bidoni della spazzatura.

Insomma, El Paso non fa pensare proprio ad una marcia trionfale, ma sì, ad una promessa di serenità.

Il futuro visto da Ciudad Juárez

Chi è a Ciudad Juárez, generalmente, non rinuncia agli Stati Uniti come obiettivo, e ripone una rinnovata fiducia nella nuova versione migliorata del CBP One. Altre pensano invece che la loro unica possibilità sia entrare negli USA come una volta, cioè irregolarmente, e rimanerci “sommerse”, in quel mondo parallelo in cui milioni di persone si muovono ancora, sperando di riuscire a sfuggire alle maglie dei controlli il più a lungo possibile.

Ma la profonda stanchezza e la frustrazione cominciano a pesare. È il caso di Josué, rapper venezuelano di 32 anni che, dopo 10 tentativi falliti in 8 mesi ed altrettante espulsioni, una caduta dal muro ed un lungo ricovero in ospedale, di fronte alla possibilità di una deportazione ha deciso di chiedere asilo a Ciudad Juárez. Fino a pochi giorni fa chiedere alle persone in situazione di mobilità se prendevano in considerazione la possibilità dell’asilo in Messico si percepiva come una violenza psicologica. Adesso comincia ad essere di conforto pensare ad un’alternativa viabile di residenza, lavoro e casa, anche se non negli Stati Uniti, ma magari in attesa di tempi migliori per riuscire a varcare il confine.

Tutte cercano di riordinare le idee e di trovare una maniera di sopravvivere in attesa di capire meglio come vanno le cose. In questo contesto, Juárez potrebbe essere un centro urbano chiave per assorbire una buona parte della popolazione che rimarrà intrappolata in territorio messicano, specialmente nelle zone di frontiera vicine. D’altra parte l’industria (maquila) locale lamenta un deficit di manodopera di decine di migliaia di persone, quindi sicuramente ha bisogno di loro.

Nuovi “successi” per l’amministrazione Biden-Harris

Diminuzione dei flussi. Un indicatore chiaro della diminuzione degli arrivi di migranti è la diminuzione delle detenzioni (i cosiddetti incontri) al di fuori dei varchi legali, che a ridosso dell’ora zero sono state 10.100 al giorno per precipitare, dal 12 maggio in poi, a 4.400 eventi al giorno, il 56% in meno.

Questo trend è stato propagandato, al solito, come un successo delle nuove misure implementate, ma le stesse autorità migratorie sanno bene che si tratta di un effetto immediato dell’incertezza che accompagna le novità normative, ma che poi il ritmo precedente riprenderà, o si accelererà, e le misure più dure significheranno, come sempre, solo costi umani e materiali sempre più alti per le persone che migrano.

«Humanitarian parole» 8. Anche i numeri dei visti umanitari concesso a cittadine di Venezuela, Cuba, Haiti e Nicaragua sono stati esibiti come un successo, una dimostrazione di democrazia, accoglienza ed efficacia delle vie legali approntate: 11.637 a gennaio, 22.755 a febbraio, 27.783 a marzo e 28.738 ad aprile, cioè raggiungendo quasi i 30.000 mensili previsti. Da novembre il Venezuela (l’unico paese che aveva accesso a questo procedimento negli ultimi due mesi del 2022) ha ricevuto il 37% dei 103.000 visti umanitari accordati, seguito da Haiti con il 28%, Cuba con il 22% e Nicaragua con il 18%.

Peccato che, secondo quanto documentato dalla catena di notizie CBS, ben 1 milione e mezzo di persone residenti/cittadine degli Stati Uniti si sono registrate per patrocinare ciascuna uno o più nuovi immigranti, in un programma che prevede il rilascio di appena 30.000 «humanitarian parole» al mese! cioè appena 360.000 all’anno! 9

Una nuova offensiva xenofoba

Nonostante queste misure sempre più restrittive i governatori repubblicani, perpetuando una consuetudine ormai affermata, accusano paradossalmente l’amministrazione Biden-Harris di permissività e di provocare una “crisi di frontiera”. Hanno quindi approvato in parlamento (camera dei deputati) una legge che prevede più muri e più restrizioni all’asilo, il Secure the Border Act of 2023. Legge che però probabilmente non sarà approvata perché i repubblicani non hanno i voti necessari al senato e per il probabile veto di Biden 10.

Nel frattempo il governatore ultraconservatore della Florida, Ron Desantis, che si annuncia come pre-candidato rivale di Trump per le elezioni presidenziali del 2024, ha promosso e fatto approvare la legge SB1718 (anche conosciuta come Florida Law for Immigrants), persecutoria nei confronti delle persone migranti in situazione irregolare, che ha provocato immediatamente due reazioni: il disaccordo degli imprenditori della Florida e la paralizzazione dei settori produttivi dove buona parte della manodopera è costituita da stranieri in situazione migratoria irregolare (primi fra tutti edilizia e produzione agrozootecnica) che quindi, per paura, non si sono presentati sul posto di lavoro, nonostante l’entrata in vigore della legge sia prevista solo per il 1º luglio. Anzi, buona parte del personale ha deciso addirittura di trasferirsi in altri stati. Ironicamente, ecco che il razzismo che governa la Florida ha trasformato la fiction in realtà, e il giorno dopo l’annuncio dell’approvazione della nuova legge, il 17 maggio, i cantieri della Florida sembravano scene del film Un giorno senza messicani.

Arrivano i “nostri

Ma l’azione di Desantis va al di là di una legge. Infatti ha offerto al Texas l’invio di importanti aiuti militari perché, come annuncia in un comunicato stampa: “è pronto ad aiutare a difendere la frontiera sud” per affrontare quella che definisce la “crisi di frontiera di Biden” in Texas. Questa offerta è possibile in base all’Accordo per l’Assistenza nella Gestione delle Emergenze, che consente la collaborazione tra stati in situazioni del genere. Il comunicato specifica che, al momento, la Florida può inviare fino a 1.100 militari e tecnici: 101 agenti stradali, 200 di polizia, 20 agenti della Commissione per la Conservazione del patrimonio ittico e della vita silvestre, 800 soldati della Guardia Nazionale della Florida, 20 tecnici addestrati per far fronte alle emergenze, oltre a: 5 velivoli, 2 veicoli di truppe speciali, 17 droni, 10 imbarcazioni, tutte attrezzature dotate delle rispettive equipe specializzate per garantirne l’operatività.

Le ultime prove di fedeltà del governo del Messico

Il governo del Messico, da parte sua, continua a collaborare fedelmente con le politiche USA e continua a ricevere persone migranti espulse o deportate pur senza una base legale, visto che l’accordo esistente è decaduto con la fine del Titolo 42. Per il momento i due paesi operano sulla base di accordi tra gentiluomini presi nel corso di telefonate.

Ma ancor prima di risolvere questo problema di relazioni bilaterali, è urgente che il governo del Messico prenda i provvedimenti necessari per garantire l’accoglienza a grandi gruppi che si accumulano in diversi punti del paese, così come la regolarizzazione migratoria e l’accesso a lavoro, alloggio e condizioni di vita degne. Anche perché il flusso non accenna a diminuire.

Sin dall’anno scorso, infatti, la capitale è stata colta impreparata dall’arrivo di un’enorme quantità di popolazione in movimento. Nonostante sia passato del tempo, il governo messicano non si è attrezzato per far fronte a questa situazione, improvvisando, aprendo e chiudendo piccole strutture di accoglienza, del tutto insufficienti, senza un piano chiaro e trasparente e lasciando, ormai da quasi un anno, la gestione dell’accoglienza alle associazioni, senza alcun riconoscimento per il loro lavoro e senza promuovere quei meccanismi di coordinazione che sarebbero assai efficaci.

Di conseguenza, gli albergues di associazioni e di chiese sono pieni all’inverosimile e fanno sforzi immani per rispondere alle esigenze delle persone in movimento. Per esempio da ottobre del 2022 l’associazione CAFEMIN 11 ospita 700 persone, a fronte di 100 posti letto programmati. Centinaia e migliaia di persone migranti, prevalentemente haitiane ma naturalmente anche di altre nazionalità, accampano da mesi nella piazza simbolicamente intitolata a Giordano Bruno, in attesa degli appuntamenti per la richiesta di asilo con la Commissione Messicana per l’Aiuto ai Rifugiati, COMAR, che si trova a 300 metri.

L’INM (Instituto Nacional de Migración) ogni tanto organizza operativi per sgomberare la piazza, rilasciando alle persone in movimento un permesso per ragioni umanitarie di un anno. Ma la piazza si ricomincia a riempire sin dal giorno successivo. Anche in questo caso, l’aiuto umanitario è affidato soprattutto ad associazioni civili e religiose, prime fra tutte la chiesa del Sacro Cuore, che si trova proprio nella piazza.

Anche a Ciudad Juárez è stato sgombrato l’accampamento sorto intorno al memoriale per le vittime del 27 marzo offrendo, in alternativa, una gigantesca tenda in un terreno poco lontano dall’INM e dal Palazzo Municipale, dove si garantiscono alcuni servizi di base ma che non piace alle/ai migranti per molte ragioni, una di queste la totale mancanza di privacy. Ma ancor più gravi sono le denunce delle associazioni per i diritti umani: la maxi-tienda è stata allestita in un terreno alluvionale dov’è assolutamente proibito impiantare qualunque tipo di immobile.

Le persone migranti non apprezzano la maxi tenda dove sono stati trasferiti dopo lo sgombero dell’accampamento tra l’INM e il Palazzo Municipale

Il Commissario Nazionale dell’INM, Garduño, incriminato per la strage di Ciudad Juárez del 27 marzo scorso ma per reati minori e, per ragioni inspiegabili, non dimissionario né rimosso dall’incarico, ha fatto capolino in un paio di iniziative coperte dalla stampa, anche a Ciudad Juárez, senza però perdere il profilo discreto che ha adottato dopo l’incendio. Di contro, la procura ha arrestato una seconda vittima dell’incendio, ancora in cura per le lesioni subite, con l’accusa di omicidio.

Il prezzo della fedeltà

Insomma, siamo all’inizio di una nuova politica migratoria messa in campo dal governo degli Stati Uniti con il vitale sostegno del Messico, a cui tocca la parte più difficile. Probabilmente i governi stanno sottovalutando la portata delle molteplici sfide che impone la dinamica dei movimenti di popolazione, rischiando di dover affrontare situazioni rese sempre più difficili dalle loro stesse politiche.

Allo stesso tempo il governo del Messico non dovrebbe perdere di vista il costo della fedeltà, cioè le tensioni e contraddizioni che deve affrontare in tutto il paese, e non può ignorare che le/i messicani sono le prime vittime della politica di cui è complice. Infatti il maggior numero di persone in situazione di mobilità espulse e deportate dagli USA sono di nazionalità messicana e questi si sommano alla popolazione sfollata interna, che si conta in centinaia di migliaia di persone 12.

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  1. Ufficio delle Dogane e Protezione della Frontiera, CBP per le sue iniziali in inglese, US Customs and Border Protection
  2. Anche se poi si vedrà che non bisognava fidarsi di queste assai popolari e troppo facili richieste di asilo online. Infatti, quando i controlli sulle strade del Texas si sono intensificati, in molti casi questo documento non è più stato riconosciuto valido, provocando molte espulsioni
  3. Jurisdiction: Denver County, Colorado. Date Enacted: April 2014. Policy Decision Maker: Sheriff’s Policy; Detainer Policy: Will not honor ICE detainer unless accompanied by a criminal warrant or some other form that gives legal authority to hold the individual. Source: ICE DocumentICE DocumentDeclined Detainers ListDOJ
  4. Jurisdiction: Durham County, North Carolina. Date Enacted: December 2018. Policy Decision Maker: Sheriff’s Policy. Detainer Policy: Will not honor ICE detainer. Source: Durham County NC
  5. Lo scopo dichiarato è orientare le persone a utilizzare le vie legali di ingresso agli Stati Uniti
  6. Weekly U.S.-Mexico Border Update (19 maggio 2023)
  7. DHS and DOJ Finalize Rule to Incentivize Use of Lawful Immigration Pathways
  8. I visti umanitari sono noti anche come humanitarian parole
  9. Weekly U.S.-Mexico Border Update (26 maggio 2023)
  10. H.R. 2, Secure the Border Act of 2023
  11. Casa di accoglienza, formazione ed empowerment per donne e famiglie migranti e rifugiate di Città del Messico
  12. La Commissione Messicana di Difesa e Promozione dei Diritti Umani, CMDPDH, stima in quasi 30.000 persone la popolazione sfollata per la violenza solo nel 2021, per un totale accumulato di 379.322, secondo i risultati dello monitoraggio di questo fenomeno che realizza dal 2014, pubblicati a dicembre del 2022. Pérez Vázquez, B., L. de Aquino Barbosa, Pablo Cabada Rodríguez (2022). Episodi di sfollati interni in Messico. Relazione 2021. CMDPDH, CdMx

Mara Girardi

Dal 1985 vivo in Mesoamerica, in Nicaragua ed in Messico.
Ho studiato filosofia in Italia e un master in studi di genere in Nicaragua.
Socia ed operatrice di ONG di solidarietà e cooperazione internazionale, le ultime esperienze sono state con i movimenti femministi dei paesi centroamericani e poi con i movimenti indigeni in educazione interculturale e plurilingue. Dal 2006 ho lavorato a temi legati alla mobilità umana, come diritti, violenza, genere e migrazioni.