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L’autodeterminazione nell’insediamento informale di Campobello di Mazara

L'esperienza sul campo del circolo Arci Porco Rosso di Palermo

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Il quartiere multiculturale di Ballarò all’ora di pranzo è un pullulare concitato di corpi. Ballarò ti provoca, ti stuzzica con l’odore del pesce arrostito e i colori di tessuti e vestiti, mentre i venditori abbanniano da una bancarella all’altra sul vociare degli avventori. A Ballarò è impossibile farsi strada senza scontrare i corpi delle altre persone. Se ci si lascia alle spalle i mercati, camminando oltre la biblioteca Sciascia e la chiesa di Santa Chiara, tra vicoli strettissimi e panni stesi al sole, dove sulle pareti delle case popolari scorticate dal tempo spunta un capitello barocco o un fiore in bassorilievo, si giunge a Casa Professa, una delle chiese più iconiche di Palermo. Nella piazza, al civico 1, c’è il Circolo Arci Porco Rosso.

Il Porco Rosso è un circolo di quartiere. È antifascista, antirazzista, ecologista e transfemminista. In quel locale a piano terra, le compagne e i compagni lavorano insieme alle abitanti e agli abitanti migranti di Ballarò. È per questo che quello spazio sembra così inatteso dentro una piazza storica, davanti alla facciata di una delle chiese più iconiche della città, una chiesa talmente bella che la si pensa fissata nel tempo, immobile sopra il fiume della Storia.
E invece ancora una volta Palermo smentisce, contraddice, disattende, perché a pochi passi da quella chiesa, in quella stanza a piano terra, il circolo pullula, si agita, costruisce pensiero ed elabora pratiche politiche di lotta insieme a chi abita il quartiere.

Al circolo non ci sono separazioni tra le persone migranti e le attiviste siciliane: i gesti, le forme di saluto tra compagnə, la fluidità dei rapporti suggeriscono che qualcosa di più profondo coinvolge quei corpi provenienti da esperienze così lontane, un immaginario collettivo, un lessico comune, costruiti con un lavoro di condivisione faticoso e quotidiano.

Alcunə dellə attivistə del Porco Rosso sono impegnatə nell’attività dello sportello Sans-Papiers, in cui offrono supporto legale alle persone migranti o in condizioni di vulnerabilità del quartiere, ma non solo. Dal 2021 gli operatori monitorano costantemente anche l’insediamento informale di Campobello di Mazara 1, in provincia di Trapani, sulla costa occidentale dell’isola. In una terra in cui il tema del migrare interseca come non mai quello del lavoro, dei documenti e dell’abitare, l’obiettivo dello sportello non è soltanto dare supporto legale presso la sede del Circolo, ma anche presidiare il territorio. Ogni venerdì lə volontariə escono da Palermo e si spostano a Campobello.

Questo sportello mobile monitora la realtà e le dinamiche del ghetto dall’interno, perché senza stare sul campo i bisogni e le volontà degli invisibili restano inespressi. Soltanto attraverso un presidio costante del ghetto è possibile tenere traccia della complessità di un microcosmo che le categorie di caporalato e di economia informale non riescono a imbrigliare; solo attraverso una prossimità al ghetto si riesce a tessere relazioni di fiducia che permettano alle donne sfruttate di uscire da forme di vulnerabilità alle quali le istituzioni non offrono soluzioni.

«Il nostro focus è lo sfruttamento lavorativo delle persone che lavorano in agricoltura o che vivono nelle campagne», spiegano. Molte delle persone migranti che vivono stabilmente a Palermo lavorano nel settore agricolo nei campi immediatamente fuori dalla città, senza regolare contratto e a forte rischio di vulnerabilità non solo lavorativa, ma anche abitativa.

Una faccenda ancora più delicata, poi, è quella dei lavoratori del ghetto di Campobello. Nato dopo lo sgombero, nel 2018, del precedente insediamento informale Erbe Bianche, il ghetto di Campobello è stato a sua volta sgomberato lo scorso maggio 2. Con lo sgombero, alcune dellə abitanti sono riuscitə a scappare, una trentina sono statə orientatə verso Fontane d’Oro,campo formale gestito da UNHCR e finanziato dalla regione, aperto tutti gli anni durante la stagione del raccolto. Altre persone sono state portate in CPR  – e molte di loro sono riuscite a uscire, e alle restanti è stato suggerito di fare richiesta di asilo (nonostante si trattasse per la maggior parte di domande di asilo reiterate) e ora sono nei centri di accoglienza.

«Gli sgomberi non sortiscono alcun effetto pratico. Anzi: creano solo nuovi ghetti e nuove marginalità» 3. Finché ci sono persone utili come forza-lavoro a basso costo, non è necessario sgomberare. Di solito, gli sgomberi avvengono quando la presenza dei campi informali può essere strumentalizzata, per allontanare gli sguardi dalla responsabilità delle istituzioni. «Quest’ultimo sgombero è avvenuto dopo l’arresto di Matteo Messina Denaro», proseguono, «quando hanno scoperto che si nascondeva da trent’anni a Campobello. Questo ha messo sotto processo l’intero paese. Il ghetto a due passi da lì è servito a far ricadere le colpe di questo caos su un luogo raccontato come centro dello spaccio e dell’irregolarità».

Se non sarà lì sarà altrove. Che ci siano o meno degli sgomberi, questa è zona di raccolto e ogni anno nasce un insediamento informale, tirato su da chi arriva per la stagione. In alcuni periodi, Campobello è arrivato a contare un migliaio di abitanti, ma anche quando la stagione finisce il ghetto non si svuota mai del tutto; durante l’ultimo sgombero, ospitava tra le 80 e le 100 persone, più o meno stanziali.

L’irregolarità del ghetto non è soltanto quella dei lavoratori agricoli senza documenti, vittime di violenti e spietati caporali; “questa narrazione è parziale”, avevano già avuto modo di raccontarci. «Il ghetto è un universo complesso, ci abitano i braccianti ma non solo». Solitamente, le donne del ghetto entrano nella spirale dell’irregolarità giuridica e abitativa non come braccianti ma tramite il lavoro sessuale – svolto sia per gli abitanti del campo, sia per i “locali” dei paesi limitrofi.

Come sportello Sans-Papier, Porco Rosso si impegna a dare una voce a quella che, nella marginalizzazione del ghetto, rappresenta una categoria ulteriormente marginalizzata. Anche la narrazione delle marginalità è intrisa di quelle categorie patriarcali che filtrano i fenomeni attraverso una lente maschile. Del fenomeno delle donne lavoratrici non esiste neanche una presa di coscienza pubblica, quella che invece ha permesso di inquadrare la condizione dei braccianti irregolari sotto l’ombrello del caporalato.

«Ci chiedi chi sono le persone che abitano questo ghetto. Sono persone uscite dai centri di accoglienza, a cui nessuno ha dato delle alternative; oppure sono i tantissimi ragazzi gambiani che nel 2018 per il decreto Salvini sono diventati irregolari e non hanno trovato come lavorare e dove abitare se non nell’informalità; oppure, ancora, persone che per le più svariate ragioni hanno sentito il ghetto come casa, e che nel ghetto non ci sono soltanto finite, ma lo hanno anche scelto».

Nell’assenza di ponti tra contesti informali e istituzioni, per molte persone il ghetto finisce per rappresentare un luogo rassicurante: si vive in una sorta di comunità, si creano riti e abitudini, si prepara insieme il pranzo, si condivide una quotidianità, ciascunə ha un ruolo sociale e il riconoscimento che fuori non ci sarebbe. Diventa un microcosmo autosufficiente: nel ghetto ci sono le baracche, le vie, la piazza, il bar, i ristorantini, il signore addetto alla ricarica dei cellulari, la persona che scalda l’acqua per le docce, il macellaio, chi vende i vestiti durante la raccolta, chi costruisce le baracche. Durante la stagione del raccolto, c’è un’intera via di ristoranti.

«Per questo moltə scelgono di restare nel ghetto. È la migliore dimensione di comunità che hanno trovato».

Da come questa autodeterminazione viene raccontata, sembra che rappresenti un tema centrale nei rapporti tra l’abitare, le comunità informali e le risposte istituzionali alle vulnerabilità. «Ci sono moltissime ragioni che possono spingere una persona a preferire la vita nel ghetto a quella fuori», raccontano. «Ma penso che il non saper stare dentro una comunità accomuni tutte queste storie».

Il campo informale è uno spazio costruito e gestito da persone che, stando nelle dinamiche relazionali, economiche e abitative del ghetto, si appropriano anche di uno spazio sociale e della possibilità di negoziare le modalità della convivenza con lə altrə abitantə; le comunità di recupero, i centri di accoglienza e i campi ufficiali funzionano con modalità relazionali e di intervento che traducono l’inevitabile squilibrio di potere tra operatori e beneficiari dentro una sorta di “logica del dominio compassionevole”: quando non medicalizzano le persone, comunque le privano della possibilità di autodeterminarsi per mezzo di regole restrittive e infantilizzanti, intollerabili per i bisogni e le volontà di vita di persone già esposte a un vissuto difficile.

«Parlavamo di chi ha scelto il ghetto. Tra le persone che hanno scelto di stare nel ghetto c’è un gruppo di ragazze italiane tossicodipendenti», continuano. Si tratta di ragazze che hanno vissuto in situazioni di forte disagio familiare, in contesti periferici, che subiscono uno stigma sociale fortissimo nelle comunità di provenienza: contesti di paese in cui ci sono un profilo e un’immagine pubblica da tenere.

Alcune di loro, uscite da comunità di supporto o di recupero, hanno deciso di andare ad abitare nel ghetto. «È come se ci fosse un’incompatibilità irriducibile tra la vita vera, con tutta la sofferenza che comporta, e la rigidità di questi luoghi. E invece la flessibilità è la prima cosa da garantire a persone che vengono da famiglie complicate, con dipendenze e in molti casi anche a doppia diagnosi: delle combo esplosive, al punto che talvolta non ci sono neppure delle comunità in grado di tenere insieme questa complessità, e di prenderla in carico».

Il passaggio da contesti poveri e periferici a strutture riabilitative o di accoglienza, poi, è doloroso a prescindere dalle modalità dell’intervento. Per scegliere di abbandonare una comunità a cui, malgrado le difficoltà, si è affezionatə e accettare di stare dentro le logiche abitative dei servizi istituzionali occorre accettare una transizione, abbracciare un cambiamento radicale nel modo di vivere e di fare relazione, un cambiamento che è molto difficile che parta da quelle stesse persone che hanno bisogno di aiuto. Occorre un accompagnamento che moltə non ricevono: i servizi sono troppo affannati per impiegare parte del personale a “uscire” dalle strutture e intercettare i bisogni nel territorio. «Per stabilire rapporti di fiducia con le persone che vivono nell’informalità, è necessaria una presenza costante e paziente in strada, in grado di raggiungere chi da solə non è in grado di emergere e di chiedere aiuto. Questo vale soprattutto per le donne».

Dal momento che molte di loro hanno scelto di abitare il ghetto, le operatrici di Sans-Papier che le supportano raccontano di voler promuovere il loro diritto di autodeterminarsi, di definirsi e di scegliere per sé in quanto soggetti attivi. Non per questo, però, sono meno oppresse e marginalizzate, soprattutto se in questo percorso di autodeterminazione il ghetto resta la soluzione più rassicurante.

Raccontare la complessità del ghetto, allora, forse significa denunciare i limiti strutturali dentro cui le volontà e le singolarità di queste donne sono costrette senza mai sottrarre il valore di quelle volontà. «E poi se vogliamo davvero restituire uno spazio di autodeterminazione alle donne del ghetto, dovremmo partire da qui, dal non prendere parola per loro. Noi vogliamo che prima o poi, uscendo dalle condizioni di vulnerabilità in cui si trovano, queste donne parlino di sé in prima persona».

  1. Oltre il caporalato. L’esempio dell’insediamento informale di Campobello di Mazara e il nostro supporto socio-legale, Arci Porco Rosso (Luglio 2022)
  2. Sullo sgombero di Campobello di Fulvio Vassallo Paleologo – Comune.info (Giugno 2023)
  3. Se si “privatizzano” gli insediamenti informali: la raccolta olivicola del 2023 a Campobello di Mazara (TP) a fronte della politica degli sgomberi – Arci Porco Rosso (27 novembre 2023)

Rossella Marvulli

Ho conseguito un master in comunicazione della scienza. Sono stata a lungo attivista e operatrice nelle realtà migratorie triestine. Su Melting Pot scrivo soprattutto di tecnologie biometriche di controllo delle migrazioni sui confini europei.