Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza
PH: Sofia Pari
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In migliaia a Milano contro i CPR

Il racconto della manifestazione del 6 aprile

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Il 6 Aprile 2024 circa 5.000 persone hanno marciato per le strade di Milano fino a qualche centinaio di metri dal CPR di via Corelli, dove le camionette della polizia hanno bloccato il passaggio. Alla testa del corteo lo striscione di apertura con la principale rivendicazione della mobilitazione: «No Cpr, no lager di Stato, né a Milano né altrove, né in Libia né in Albania».

PH: Sofia Pari

«È sempre una bella giornata quella in cui la città si ribella e si mobilita a questa vergogna che già da 4 anni macchia la città». A parlare è Riccardo Tromba, presidente del Naga, storica associazione milanese che da più di trent’anni fornisce assistenza sanitaria, legale e sociale gratuita alle persone straniere presenti sul territorio, a prescindere dalla loro condizione giuridica.

Al fianco della rete Mai Più Lager- No ai Cpr, numerose realtà associative non solo milanesi, ma anche da Torino, Padova, Bologna e altre città italiane. A partecipare alla mobilitazione anche la comunità palestinese, in quanto storicamente afflitta dall’utilizzo della detenzione amministrativa da parte dello stato coloniale sionista di Israele, e la diaspora albanese in Italia, adirata dal recente accordo tra il governo di Giorgia Meloni e il premier albanese Edi Rama che prevede la costruzione di due centri di detenzione italiani in territorio albanese.

Alexia Malaj, attivista italo-albanese e rappresentante del collettivo queer di albanesi in Italia Zanë, nel suo intervento al corteo ha evidenziato e rifiutato la logica neo-coloniale che sottende all’accordo: la popolazione albanese immigrata negli anni Novanta in Italia ha subito le politiche migratorie xenofobe di allora, che ancora oggi si ripercuotono sulle seconde generazioni; a differenza di quanto affermato da Rama, perciò, né la diaspora, né tanto meno la popolazione residente in Albania ha da sentirsi in debito con l’Italia. In un’intervista per Melting Pot, Alexia ricorda che l’Italia è stato paese occupante in Albania sotto il regime di Mussolini ed evidenzia come l’esercizio di una tale giurisdizione sui territori dove verranno costruiti i due centri sembra rappresentarli «come un prolungamento di una regione italiana».

L’affluenza dalle altre regioni e di un ampio ventaglio di associazioni e ONG dimostra che la lotta contro i CPR è diffusa in tutto il paese e da parte di chiunque si occupi in vario modo di immigrazione. Tutte le realtà partecipanti guardano infatti a questi centri e alla detenzione amministrativa come l’ultimo tassello di un puzzle fatto di mancanza di vie sicure di accesso al territorio, violenze e respingimenti illegali alle frontiere marittime e terrestri, nonché di progressiva esternalizzazione delle frontiere europee, di cui l’accordo con l’Albania è un nuovo e distopico orizzonte.

Numerosi gli attacchi al governo italiano per il continuo finanziamento dei lager libici e dei violenti respingimenti perpetrati dalle guardie costiere libica e tunisina nel Mar Mediterraneo. Altri interventi hanno riportato la realtà alle frontiere terrestri. No Name Kitchen, ha denunciato i trattamenti disumani e degradanti a cui sono esposte le persone in movimento nei campi di transito lungo la rotta balcanica, all’interno dei quali le persone si vedono negate i propri diritti fondamentali. I paesi europei, pagando paesi terzi per bloccare le persone prima che raggiungano i loro confini, si rendono complici silenziosi delle pratiche illegali della polizia sulla frontiera, che picchia, denuda e deruba chi cerca di raggiungere la fortezza Europa. Più che soluzioni umanitarie, i campi di transito alle frontiere si trasformano in strumenti di controllo per gestire gli “indesiderabili”, come definiva Michel Agier le persone che la società vuole allontanare e pretendere di non vedere. La stessa funzione è di fatto svolta dai CPR sul territorio italiano.

PH: Sofia Pari

Tra le nazionalità maggiormente rinchiuse nei CPR italiani quella tunisina. A intervenire al corteo anche Majdi Karbai, ex-parlamentare tunisino in esilio a Milano dal 2021, dopo che il presidente Sayed ha sospeso il parlamento. I tunisini in Italia faticano particolarmente ad ottenere i documenti, perché la Tunisia è considerato un paese sicuro.

«Così sicuro che nelle carceri di Sayed ci sono politici, sindacalisti, giornalisti, la cui colpa è quella di essersi opposti al regime. Così sicuro che permette all’Europa di stanziare 264 milioni di euro per impedire le partenze» – Majdi Karbai

«Al momento in Tunisia ci sono 20 mila migranti subsahariani, nei campi di ulivi o a Kasserine, vicino al confine con l’Algeria, esposti quotidianamente alle violenze della polizia. Questo è il modello che vuole esportare il governo italiano e l’Europa in Egitto, in Libia, in Albania, finanziando regimi dispotici e autoritari», aggiunge Karbai nel suo intervento.

Durante la manifestazione diversi flash-mob hanno messo in scena i gironi infernali della detenzione amministrativa in Italia: in primo luogo, il trattenimento senza reato, le udienze di convalida, la difficoltà di accesso alla difesa legale.

«Non c’è reato, non c’è processo, ma solo un’udienza che decide, di tre mesi in tre mesi, cosa ne sarà della tua vita, e tutto in pochi minuti. Si chiamano le udienze dei “300 secondi” perché non durano di più». – Rete Mai più lager – No ai Cpr

Nicoletta Alessio

Dopo una laurea triennale in Scienze Politiche Sociali e Internazionali all'Università di Bologna, mi sono laureata nel corso magistrale in Migrazioni Inter-Mediterranee delle Università Ca' Foscari di Venezia e Paul Valéry di Montpellier. Mi interesso di politiche migratorie ed etnografia dei confini e ho approfondito con due esperienze di ricerca sul campo la cooperazione italiana con Tunisia e Algeria in tema di espulsioni.

Sofia Pari

Dopo una laurea triennale in lingue orientali all’università Ca' Foscari di Venezia, mi sono laureata nel corso magistrale in Migrazioni Inter-Mediterranee delle università Ca' Foscari di Venezia e Paul Valéry di Montpellier. Con due esperienze di ricerca sul campo ho approfondito il tema dei diritti delle persone migranti e rifugiate, una in Marocco con la comunità siriana, e una in Libano, nel campo profughi di Chatila, con la comunità Palestinese.