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tratto da: Redattore Sociale

”Ecco chi sono i Rom della capitale, i nuovi sottoproletari”

di Antonella Patete

ROMA – Chi sono, dove vivono e come vivono i rom che abitano nella Capitale? Ma, anche quali sono i nodi critici nel modello dei grandi campi previsti dal Patto per la sicurezza firmato il 18 maggio scorso tra il ministro dell’Interno, Giuliano Amato, e il sindaco di Roma, Walter Veltroni. Ne abbiamo parlato con Marco Brazzoduro, docente di Politica sociale e Sociologia economica all’università La Sapienza di Roma.

Professor Brazzoduro, chi sono i rom che vivono nella Capitale?
I rom stranieri che vivono attualmente a Roma per la gran parte arrivano dalla Romania, paese da cui l’afflusso è diventato maggioritario nel corso degli anni Duemila. Nel 1999 erano 500, mentre oggi alcuni stimano che siano circa 10mila. E poi ci sono i rom delle ondate precedenti: i rom bosniaci e montenegrini arrivati in gran parte dall’inizio degli anni Novanta, quando in Bosnia è scoppiata la guerra civile. Ma, ci sono anche gruppi di diversa provenienza: per esempio i rom rudari che vengono dalla Serbia o gruppi che arrivano dalla Macedonia e dalla Croazia. Al loro interno si distinguono in grandi famiglie, tra cui le principali sono quella dei dasikhané che sono cristiani e quella dei xoraxané che invece sono musulmani. Poi ci sono i calderascia, che sono seminomadi, lavorano i metalli, sono arrivati in Italia alla fine della seconda guerra mondiale e gli è stata riconosciuta la cittadinanza italiana.

Quanti sono i rom stranieri presenti nella capitale?
Alcuni parlano di un numero tra i 14mila e i 15mila individui, ma sono solo stime, perché in gran parte i rom vivono in campi illegali spuntati come funghi negli ultimi anni. Secondo l’ultimo censimento effettuato dal Comune di Roma, nel 1995 erano 5.500, e il numero sarebbe rimasto invariato fino al 2001. Ma negli anni successivi i rom sono aumentati moltissimo, anche se hanno smesso di arrivare dalla ex Yugoslavia e oggi provengono quasi esclusivamente dalla Romania.

Dove vivono i rom?
I cosiddetti “campi attrezzati” dal Comune di Roma sono 11, a cui si aggiungono alcuni campi semiattrezzati. Si tratta di campi semiabusivi che magari sono stati dotati di alcuni servizi, come per esempio un bagno chimico o una fontanella. L’ultimo campo legale è stato creato alla fine del 2005 ed è quello di Castel Romano, dove hanno trasferito i rom che vivevano a Vicolo Savini. Mentre il campo di Via Salone è stato ristrutturato l’anno scorso. Per il resto, si pensa che nei campi spontanei vivano circa 10mila persone, ma sono soltanto congetture. Abitano sulle rive del Tevere e dell’Aniene, in punti nascosti tra la vegetazione e sotto i ponti dell’autostrada. C’è un campo sterminato che sorge tra le rive del Tevere e il viadotto della Magliana, mentre da pochissimo è stata sgomberata una parte del campo di Ponte Mammolo, che era molto consistente.

Come si vive nei campi?
Si vive malissimo. Per esempio, nel campo di Castel Romano i rom non hanno l’acqua potabile. Gli arriva l’acqua, ma contiene residui fangosi. I rom abitano in container di lamiera, che sono gelidi frigoriferi d’inverno e diventano delle vere e proprie fornaci d’estate. Inoltre, non c’è neppure un albero. E anche la disposizione somiglia a quella di un lager, con le casette tutte squadrate e regolari. Un’altra cosa da rilevare è poi la collocazione dei container, che ostruiscono tutti gli spazi. Se per caso si verificasse un incendio, provocherebbe una carneficina perché non esiste alcuno spazio tra un container e l’altro. Ma le dico un’altra cosa: chi per mestiere commercia rottami, ovviamente li seleziona vicino alla baracca dove vive. Però non è stato previsto alcuno spazio per questa attività, e così alcuni campi si trasformano in un accumulo di macerie, detriti e roba presa dalle discariche. E poi c’è il problema del sovraffollamento: anche nei campi autorizzati si vive stipati fino all’inverosimile. Chi li progetta non tiene conto della natalità: se nascono 15 bambini l’anno, dopo 10 anni ci sono 150 persone in più. A questo si aggiunga l’afflusso non controllato di persone e così col tempo la popolazione dei campi è andata a triplicare o addirittura a quadruplicare. Il campo più grande, comunque, è proprio quello di Castel Romano, dove all’inizio ci vivevano 850 persone, che poi sono diventate oltre mille dopo lo sgombero del campo di Tor Pagnotta.

Eppure sembra proprio che il campo di Castel Romano con i suoi mille abitanti e la sua collocazione fuori dalla città rappresenti il modello per i campi previsti dal Patto per la sicurezza…
La cosa tragica è che ormai tutti sanno che i campi non li vuole nessuno. Siamo noi che abbiamo calato questo modello culturale di abitazione dall’alto. Il 90% dei rom non sono più nomadi, vorrebbero abitazioni fisse come quelle che avevano nei loro paesi di origine. Ed è ormai un dato acquisito che gli stessi rom non sono d’accordo con la creazione di campi di grandi dimensioni. Vogliono luoghi in cui non vivano più di 50 persone, grandi famiglie allargate dove tutti si conoscono, esiste una forte solidarietà di gruppo ed è possibile attuare forme di controllo sociale. I grandi campi generano tensione e conflitti tra gli abitanti, ma diventano anche dei veri e propri volani di illegalità. E si sa che l’illegalità è contagiosa.

Alcuni operatori sociali sostengono che in alcuni campi si sia realizzata un’integrazione dal basso, e che i rom si siano integrati con le fasce più diseredate della popolazione italiana praticando il furto e lo spaccio…

È vero, nei campi esiste una fortissima pratica dell’illegalità. Esistono il furto e lo spaccio, ma si tratta di attività tipiche del sottoproletariato. Allora siamo di fronte a un problema sociale: bisogna tagliare l’erba sotto i piedi del sottoproletariato, che non vuol dire chiudere le persone nei ghetti, ma offrire loro integrazione e lavoro. E i campi sono appunto dei ghetti che contraddicono l’idea dell’inclusione e dell’integrazione. Sono dei simboli di separazione.

Non pensa che offrire ai rom maggiori opportunità concrete di ottenere casa e lavoro potrebbe scatenare con gli italiani meno abbienti delle tensioni sociali fortissime e delle vere e proprie guerre per l’accesso al welfare?
Le faccio un esempio. L’Italia e la Francia costruiscono più o meno 300mila alloggi all’anno. Ma in Francia di queste 300mila abitazioni, 120mila sono destinate a sopperire alle esigenze dei ceti che da soli non ce la fanno. In Italia sono solo 1.000. E allora è facile scatenare una guerra tra i poveri. Gli stranieri poveri e gli italiani poveri sono entrambi vittime. I carnefici sono le autorità pubbliche latitanti e con politiche gravemente inadeguate anche rispetto ad altri paesi europei. Se i problemi vengono trascurati si crea una bomba sociale che prima o poi esplode.