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Non andare perché?

Di città e di persone. Esempi di periferie

Diversi anni fa, prima della pandemia, avevo partecipato ad una ricerca sociale con docenti di semiotica e di antropologia urbana. Terreno di studio era la Bolognina: un quartiere di Bologna, posto al di là della stazione centrale, noto ai più come multietnico, degradante, pericoloso. Non so dove viviate, ma certamente anche nel vostro intorno topografico ci sarà quel quartiere dove è meglio non andare perché. La Bolognina, se seguiamo una lettura superficiale delle realtà, potrebbe rientrarvi. Obiettivo per me era capire l’integrazione (riuscita? In corso? Impossibile?) tra gli abitanti. Per farlo, ho avuto la preziosa possibilità di intervistare ragazze e ragazzi sui sedici anni circa. Parlare con loro, confrontarmici, ascoltarli, mi ha permesso di vedere come si può vivere (non, badi bene, l’unico modo, ma uno dei) la Bolognina ora (cioè in quel tempo lì), da giovani adolescenti. È chiaro che ora le cose sono diverse: c’è una pandemia in corso, politiche securitarie di diverso tipo. Però ecco, mi chiedo (domanda aperta): che cosa rende un quartiere periferia? La distanza geografica, chilometrica tra il centro storico e quel dato terreno?

Qui una cintura della ferrovia, letteralmente, taglia, distanzia, il centro dal lontano, la parte più visitata turisticamente da quella meno vista – e, tra l’altro, il modo in cui i media mainstream aggettivizzano il quartiere fa toglier la voglia di vederlo questo quartiere e/o di averne paura ad attraversarlo. Oppure è più una questione di che cosa ci trovi all’interno di quel territorio?

Dunque, in questo caso bolognese, il centro è costituito dalle due Torri, da Piazza Maggiore o da via Rizzoli, per esempio, mentre la Bolognina di altro, ovviamente, come piazza dell’Unità, il parco Arcoveggio, la mia mini pasticceria preferita, per esempio. Centro storico vs altro: come spesso accade, si va per ragionamenti binari, oppositivi, limitanti e chissà, errati. Infatti, concepire la periferia è sempre in riferimento ad un centro. Dunque, è sempre posta in relazione con altro. Se al centro viene data maggiore importanza, alla periferia viene data minore importanza. Non godono di una relazione paritaria. A pensare alla periferia, solitamente, si affiancano aggettivi negativi. Tutto il contrario accade per il suo compagno parola centro: qui incontriamo aggettivi positivi. Tuttavia, il centro senza periferia non potrebbe esistere. La periferia è tale solo perché in tal modo asseconda alla funzione del centro che la crea e dà le basi per immaginarseli entrambi. Lasciando invece la parola alle persone ascoltate emerge che la Bolognina è un territorio tranquillo, dove non c’è molto da fare la sera o comunque per svagarsi:

«è una zona tranquilla».1

«vado in centro perché non c’è nulla da fare».2

«non ci piace la zona perché non ci sono i parchi».3

[in riferimento ad un parco della zona] «ci vanno pochi ragazzi a giocare proprio per questo perché c’è certa gente che beve la birra, fanno queste cose qui…».4

[La sera esco] «Fuori. Esco e vado in centro, piazza maggiore e mi sento sicuro».5

[La sera esco] «In centro, però mi accompagna il mio ragazzo quindi…».6

[La sera esco] «Sono un po’ nella zona e poi con la bici vado in centro».7

Mancano cose. Un quartiere può essere periferia perché mancano cose: non monumenti, quelli non mancano. Ad uno sguardo attento la storia è ovunque, la memoria meno, tanto che si potrebbe smetterla di aggiungere l’aggettivo storico solo per il centro, per allargarlo al più vasto territorio. Mancano semmai risorse, spazi ricreativi8, parchi e, cosa non da poco, un’illuminazione certa e capillare. Interessante è quando le ragazze mi dicono che c’è tra di loro chi ama correre e che però la bassa illuminazione desta preoccupazione, mentre altre mi spiegano esplicitamente episodi di catcalling:

«io credo che a tutte sia successo a tutte le femmine qui in mezzo perché ai maschi succede di meno… che passano di fianco ad una persona e ti si gira e ti segue e ti dice: “Ciao Bella!”. Diciamo è successo più di una volta di andar fuori con i cani, vado a fare un giro al parco e ci sono le persone che ti seguono proprio».9

«Anche io sento questo disagio però mi sento più sicura nel quartiere perché conoscendo più persone, salutando, parlando hai anche un tipo di rapporto, sai la gente che c’è. Quando invece sei in un quartiere che frequenti poco, vuoi stare pure tranquillo e poi invece le persone… ti fanno pure passare la voglia».10

Ecco, il quartiere come area protetta, come famiglia allargata, come sguardo attento collettivo sui più piccoli e non solo. Non tutte le persone ascoltate hanno la stessa percezione di quartiere simil safe, ma tutte mi fanno intendere che il loro gruppo amicale è il loro centro affettivo e culturale. Lì tutto prende una piega diversa: all’interno del gruppo prendersi in giro anche con termini che da esterno potrebbero sembrar razzisti, lì non lo sono. Se c’è un’integrazione riuscita è lo stare bene (che non vuol dire non discutere, anzi, ma rispettarsi sempre, essere tutti alla pari) tra le famose seconde generazioni e quindi in classe e fuori dalla classe, tra giovani. I genitori di questi però, almeno qui, non dialogano molto tra di loro. E così, capita, che la distinzione culturale tra persone provenienti da nazioni o continenti differenti la vedi nel pianerottolo di casa con gente che non parla tra di loro, eccetera. C’è un’incomunicabilità negli spazi fuori dalla scuola che alimenta certamente un non dialogo, una non integrazione, una non messa in discussione di sé stessi e delle proprie opinioni. Quindi, torniamo all’importanza della presenza sul territorio, per più motivi, di spazi ricreativi, di svago, d’ incontro. Alla domanda se ci sono mai stati episodi di violenza, mi rispondono:

«No, qua niente»11.

Ci sono poi periferie più di altre. Nella stessa città ma in tempi diversi, ho avuto modo di lavorare nel sistema dell’accoglienza e, per altri versi, di intervistare persone richiedenti asilo. Chi è del settore lo sa già, ma per chi non lo è: i centri di accoglienza tendono ad essere situati lontano dal centro noto. Il bus e quindi l’abbonamento risultano fondamentali per adempiere a tutta quella serie di luoghi e doveri che lo stato italiano richiede loro: la prefettura, la scuola di italiano, la scuola di formazione, il tirocinio. Questi sono ubicati in zone periferiche della città. Le loro ‘case’ sono caratterizzate da rumori notturni (gente che urla, gente che gioca a flipper) che quotidianamente ostacolano il sonno e fanno sì che si vada a dormire dalle due in poi (e ci si sveglia di conseguenza nel primo pomeriggio), oltre che dall’isolamento che l’ubicazione del luogo porta con sé. Se chiudessimo gli occhi e fossimo in questi centri ecco cosa potremmo sentire:

«Rumore di macchina, voce della gente, di lingua diversa soprattutto italiano».12

«Auto, cani e basta».13

«C’è molto silenzio. Devi capire che vivere con tante persone è difficile».14
«Voci, gente che canta».15

«I treni perché c’è un binario».16

«La voce del mio coinquilino».17

Bologna è stata conosciuta con i bus, da soli o in compagnia dei nuovi amici. Di fatto, il loro spiegarmi Bologna è tutto un: “prendo numero, scendo e prendo numero e aspetto”. Ogni percorso è fatto e spiegato attraverso il numero dei mezzi presi. Lo svegliarsi alle cinque e mezza del mattino (per coloro che hanno trovato un lavoro) è dovuto agli orari dei bus e dell’ampia distanza tra centro e lavoro (spesso i lavori sono situati fuori della città). C’è stato poi un ragazzo che non conosce Bologna a piedi. Lui pensa a cercare lavoro e, ora che lo ha trovato, pensa a come trovarne uno stabile (il problema del trovar casa è ancora, relativamente, lontano). Così le sue giornate vengono trascorse sempre a casa, dentro l’autobus, al lavoro (che non è a Bologna) e nuovamente dentro l’autobus per giungere di nuovo a casa. Per lui, la città non pare caratterizzata da centri, ma è tutta una serie di nodi, di fermate del bus. Non esce mai di casa se può, va solo e si focalizza solo sul come avere un lavoro di lungo periodo, un lavoro sicuro. Quello è il suo centro, mentre i suoi punti di riferimento, non fa che ripeterlo, sono le parole di sua madre. Il senso di isolamento sia fisico per la posizione della casa che sociale, ovvero il non parlare mai l’italiano perché non si hanno amici italiani, perché non è facile parlar con loro (noi), rimane. Di nuovo: mancano spazi e tempi d’incontro. Un’altra domanda che mi pongo è: il vivere in periferia (un posto, abbiamo detto, dove mancano certi servizi o cose) fa sentire chi là ci vive come periferia/ come abitante di serie B?

Ascoltando le giovani ed i giovani della Bolognina non mi è sembrato affatto; ciò non si può dire delle persone migranti ascoltate. È chiaramente una posizione diversa, giuridicamente, emotivamente eccetera eccetera, ma di fatto: la periferia può trasmettere un senso di trascuratezza e di non futuro.

Infine, un altro esempio di periferia proviene da una breve etnografia svolta tra persone rom rumene. Abitavano in un parco non in uso da parte della città, in un’area oggetto di riqualificazione, tanto che era ed è presente un comitato di quartiere pronto a vederlo ri-usato e ri-valorizzato quel parco. Le loro storie sono di giovani donne e uomini, diversi con figli piccoli lontani, che per motivi economici, si erano ritrovate qui: a perseguire una traiettoria migratoria nota tra Romania – Italia. Di fatto però erano e si sentivano esclusi dalla società. È vero che esiste un welfare che aiuta loro in caso di malattia e che, ad alcuni di loro, offre una sistemazione temporanea, ma si ritrovavano nel circuito della non residenza e del non lavoro. Se menziono questa vicenda qui, in un articolo di riflessione sulle periferie è perché loro mi hanno spiegato bene come si sentano mal visti, come feccia e pericolosi per strada. Lo sguardo altrui (il nostro, il mio inconsapevole e privilegiato in questo caso) fa soffrire, anche se sei rom, rumena/o, zingar* od altro. E così pare che, in questo caso, loro stessi si sentissero periferia o fuori posto, non graditi, pericolosi.

Le periferie nascono come estensione della città: si cementifica sull’erba per farci stare la gente, gli arrivi delle persone provenienti da lontano e da vicino, ma anche per spostare le industrie dal centro alle periferie appunto, per metterci ciò e chi, nel centro storico, dove vigono le politiche del decoro, non si vuol vedere.

  1. Dalle interviste.
  2. Dalle interviste.
  3. Dalle interviste.
  4. Dalle interviste.
  5. Dalle interviste.
  6. Dalle interviste.
  7. Dalle interviste.
  8. Di fatto, il paesaggio è in parte mutato: nello specifico, alcune aree sono state oggetto di riqualificazione.
  9. Dalle interviste.
  10. Dalle interviste.
  11. Dalle interviste.
  12. Dalle interviste.
  13. Dalle interviste.
  14. Dalle interviste.
  15. Dalle interviste.
  16. Dalle interviste.
  17. Dalle interviste.

Mara Degiorgi

Per dire qualcosa, bisogna essere qualcosa/qualcuno? E cos’è che fa di te quel qualcuno/qualcosa? Scrivo, leggo, penso. Sono un’antropologa, una geografa, altro. Nata a Lausanne nei primi anni Novanta da un padre salentino e da una madre limeña. Cresciuta tra San Francisco, Torre Vado, Lima.