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Conseguenze dell’accordo Italia-Tunisia: violenze della Guardia costiera e razzismo di Stato

Il report e il video del talk promosso da Melting Pot Europa a Sherwood Festival

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Il 5 luglio si è tenuto nello spazio “Media & Produzioni” di Sherwood Festival il talk «Violenze della guardia costiera tunisina: osservazioni dal campo», con la partecipazione della ricercatrice Dorra Frihi del progetto Mem.Med, appena rientrata da Tunisi, e il ricercatore Luca Ramello, attualmente impegnato sulla frontiera alpina con On Borders.

Valentina Lomaglio di Melting Pot Europa ha introdotto ricordando quanto sta accadendo in Tunisia in questi ultimi mesi contro le persone migranti e nere, soprattutto dopo il discorso di Kaïs Saïed che si è reso interprete dell’idea cospiratoria di “un accordo criminale preparato dall’inizio di questo secolo per cambiare la composizione demografica della Tunisia“.

Un tema, quindi, di stretta attualità considerati i pogrom in corso a Sfax (e non solo) con la deportazione e l’abbandono di migliaia di persone al confine con Libia e l’Algeria, e perché la Tunisia è diventato un Paese centrale per le politiche europee e nazionali di esternalizzazione delle frontiere. 

L’Italia e l’Ue hanno infatti stipulato degli accordi che hanno conseguenze molto concrete e letali: dall’aumento delle intercettazioni nel Mediterraneo, alle pratiche violente della Guardia costiera tunisina, fino alla criminalizzazione dei e delle tunisine, che sono solidali in vari modi con le persone migranti di origine subsahariana, per effetto di una legge che criminalizza l’assistenza nei confronti di chi si trova in condizione di irregolarità. 

E’ il regime di frontiera che oltre a morte e violenze, è stato fatto notare, causa anche dei macroscopici danni economici alle comunità locali, in primis ai pescatori che sono anche criminalizzati e perseguiti in via giudiziaria per i soccorsi e lavorano in un mare sempre più militarizzato; un regime di frontiera che indirizza ingenti somme di denaro al securitarismo e non alla sicurezza sociale delle classi più povere.

«Un grazie obbligatorio alle persone che hanno avuto il coraggio di attraversare il Mediterraneo e anche di raccontare le violazioni dei diritti umani che hanno subito lungo il loro viaggio e in Tunisia. Senza questo coraggio, senza questa presa di parola, non sarebbe possibile essere qui oggi», ha precisato in apertura la redattrice di Melting Pot, esponendo una panoramica sull’evoluzione più recente degli accordi bilaterali fra l’Italia e la Tunisia.

«Tra il 2020 e il 2021 sono stati concessi dall’Italia almeno 24 milioni di euro alla gestione delle migrazioni, soprattutto nell’ambito del progetto di sostegno al controllo delle frontiere e alla gestione dei flussi migratori. Nel 2022 è aumentato il budget arrivando ad almeno 27 milioni stanziati in tre anni. Per cosa? Soprattutto per l’addestramento e il rifornimento di mezzi per fermare i migranti in mare attraverso la Guardia nazionale tunisina. Un altro obiettivo molto importante è legato alle procedure di rimpatrio dall’Italia dei cittadini tunisini senza documenti, attraverso dei voli charter che partono diverse volte a settimana. Si tratta di accordi che sono sotto segreto di Stato, la cui applicazione non può essere monitorata. Anzi, sono molte le denunce delle pratiche violente, anche mortali, con cui la Guardia tunisina effettua le intercettazioni delle imbarcazioni nel Mediterraneo. E sono documentate anche le terribili condizioni a cui vengono sottoposte le persone durante il rimpatrio». 

Per approfondire ascolta il podcast di Radio Melting Pot

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Tunisia, un «paese sicuro». Per chi?
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«Nel 2023 – ha proseguito – l’Italia e la Tunisia hanno vissuto un periodo denso di visite bilaterali e comunicazioni anche telefoniche. Fino a maggio, queste relazioni hanno prodotto la promessa di almeno 10 milioni al governo di Saïed in cambio del pugno di ferro contro i migranti indesiderati che partono verso l’Italia. Poi, a giugno, Giorgia Meloni si è recata più volte, anche a distanza di pochi giorni, in Tunisia, sempre per chiedere maggiore impegno del governo tunisino nel contenimento dei flussi migratori. Il Forum Tunisino per i Diritti Economici e Sociali (FTDES), con cui abbiamo potuto svolgere gran parte delle attività di ricerca di cui parliamo, ha commentato queste negoziazioni dicendo che l’Europa non considera la Tunisia come un Paese che ha bisogno di cooperazione sulla base di valori democratici come i diritti fondamentali e le libertà, ma soltanto come una frontiera esterna che ha bisogno di maggiori strumenti per contenere la migrazione, con l’obiettivo che nessuno riesca a raggiungere l’Europa. Quali sono stati concretamente i materiali, anche forniti dall’Italia alla Tunisia, per l’implementazione di questi accordi? Tra gli altri, la rimessa in funzione di sei motovedette italiane già in possesso della Guardia nazionale, il rifornimento e la fornitura di un laboratorio di analisi del DNA che è stato poi utilizzato dal governo tunisino per analizzare quello prelevato con la forza agli studenti subsahariani dopo le manifestazioni, un sistema di rilevamento della presenza umana installato al porto di Tunisi e vari mezzi terrestri, fra cui minibus o ambulanze, pick-up e mezzi speciali per il trasporto dei detenuti».

Valentina Lomaglio ha concluso l’introduzione chiarendo che gli accordi hanno conseguenze concrete anche sulle dinamiche interne della società tunisina, «quindi la xenofobia è a tutti gli effetti uno strumento per il governo tunisino per mettere in campo il pugno di ferro che richiede l’Italia, ma anche un maggior controllo interno in un contesto di crisi sistemica, quindi in un Paese in cui mancano acqua, farina e riso. Il populismo riesce, appropriandosi tra l’altro di parole d’ordine e concetti del sovranismo italiano ed europeo, a dividere gli ultimi, per indirizzare la conflittualità sociale lontano da sé».

Dorra Frihi, da pochi giorni tornata dalla Tunisia, ha confermato come il contesto sia diventato molto pericoloso per una certa categoria di persone, soprattutto dopo il 21 febbraio, dove si è assistito proprio a un incitamento alla violenza e alla diffidenza nei confronti dello straniero che è stato considerato come una minaccia, un pericolo per la nazione. 

«Pur essendo febbraio, ho visto un aumento esponenziale delle partenze, soprattutto di persone non bianche e non tunisine. Questo perché si sono ritrovate dall’oggi al domani senza poter avere diritto alla casa, a un luogo dove stare, senza poter lavorare e perfino mangiare, in un contesto in cui sono volontariamente rese irregolari. Infatti, non ci sono delle leggi che contribuiscono a regolarizzare le persone e che quindi si trovano forzatamente irregolari». 

Sono così aumentate le persone decise a partire e nel contempo i racconti e le testimonianze sulle pratiche violente della Guardia costiera. «Abbiamo il privilegio, tra i molti privilegi, di poterne parlare. E poter dare voce a tutte quelle persone che sono state vittime di tutte queste pratiche violente che avvengono nel Mar Mediterraneo». 

«La Tunisia attualmente sta facendo il cane da guardia, il lavoro sporco dell’Europa, perché è in una situazione anche di instabilità politica, economica, sociale. Nel Paese non c’è la farina, si fanno le file per prendere il pane, non c’è l’acqua. Manca il riso e il caffè, non c’è la benzina. Una situazione instabile, che trova una finta salvezza economica nei finanziamenti europei che andranno – così dicono – a finanziare qualche scuola e qualche altro piccolo progetto. Gli accordi con l’Italia e l’Europa vengono divulgati come accordi che consentiranno lo sviluppo dell’economia», ha spiegato.

La ricercatrice ha poi messo in luce come vengono trattati i corpi delle persone decedute in mare, abbandonati in decomposizione nell’obitorio di Sfax oppure sotterrati in fosse comuni senza rispetto per la morte, senza nemmeno la possibilità per i propri cari di piangere un corpo e seppellirlo in modo dignitoso.  

Grazie al lavoro effettuato sul campo, dove ha raccolto testimonianze delle persone in movimento sopravvissute in mare e l’apporto positivo e fondamentale dei pescatori, in un luogo che per sua natura è difficilmente osservabile, Luca Ramello ha illustrato la lista delle modalità con cui la Guardia costiera tunisina effettivamente blocca le barche.

«Il primo livello di violenza, il più indiretto, è quello della omissione di soccorso. Ci sono casi in cui sostanzialmente le persone muoiono per ipotermia o per annegamento, abbandonati, nonostante siano stati visti dalla Guardia costiera. Oppure ci sono molti casi in cui la Guardia costiera non identifica la barca in mare e non dà l’annuncio della barca in difficoltà per il salvataggio. Riporto le parole di un sopravvissuto al naufragio: “L’acqua ha cominciato ad entrare nella barca e abbiamo deciso di chiamare i soccorsi. Abbiamo spento il motore e abbiamo aspettato. Erano circa le due di notte. Dalle nove è andato tutto bene fino alle due, siamo naufragati alle tre e siamo rimasti in acqua fino alle otto. Abbiamo chiamato più volte i soccorsi, hanno risposto al telefono ma non sono mai venuti. Poi sono arrivati i pescherecci tunisini e ci hanno superato. C’è stato solo un pescatore tunisino che ci ha visto da lontano ed è venuto a salvarci. Non ci ha salvato tutti, c’erano 25 morti. Il pescatore ha preso solo una persona morta che era accanto alla barca. Ha preso un corpo e poi la Marina è andata a cercare gli altri corpi. Ce n’erano quattro”».

L’ulteriore modalità con cui si bloccano le persone è attraverso la minaccia e i tentativi o gli atti di estorsione, usando addirittura fucili, armi e bastoni che non sono ovviamente adatti ad un contesto di salvataggio, ma sono adottati per “placare il panico”, costruendo così artificiosamente la pericolosità del mare. Un’altra consiste nella rimozione dei motori che sono poi rivenduti a coloro che organizzano i viaggi. Anche questa pratica viene effettuata mettendo a repentaglio la vita delle persone che sono intercettate da barchini molto rapidi, anche fino a otto, che ruotano attorno all’imbarcazione generando pericolosi moti ondosi oppure la inseguono speronandola, provocando così molti naufragi. 

Queste alcune testimonianze raccolte: 

Quando sono arrivati alla nostra barca, ora era la loro barca che stava mettendo acqua nella nostra barca e il motore che stava affondando, è dalla parte del motore che sono arrivati. L’acqua stava entrando, noi togliamo l’acqua mentre andavamo avanti. La barca ha iniziato ad affondare. Non era uno Zodiac, un gommone, era una barca di ferro. La barca si è rovesciata. Tutti stanno gridando. Ora dieci persone sono morte. Eravamo in 45, hanno potuto salvare 35 persone. Dieci persone sono morte e sono scomparse. Disperse”. 

Quando la Guardia nazionale ci attaccava da destra, noi andavamo a sinistra e viceversa, come in uno zigzag, poiché hanno motori più potenti. E’ come se giocassero con noi. Ci mandano l’onda addosso per farci cadere. Il mare e il tempo erano buoni. Se fosse stato il tempo ce l’avremmo fatta. Continuavano a seguirci, poi si sono scontrati con la nostra barca che si è rovesciata ancora”. 

Chiamano la Guardia nazionale, ci colpiscono con i bastoni, ci picchiano con i bastoni di ferro. Non solo il capitano. C’era una madre tra noi. Gridava e loro gridavano “Papà, perdonami”. Con i bastoni di ferro picchiavano la gente e poi si fermavano sulle barche e dicevano siamo obbligati”.

«Non esiste nessuno che sappia quanti naufragi ci sono stati in quella giornata – ha sottolineato il ricercatore -. Dobbiamo immaginarci che ogni volta che ci sono quattro naufragi, ce ne siano stati 40 e che magari una percentuale di questi possa essere conseguenza di queste strategie. Azioni che hanno causato tragedie dalle quali nessuna persona sopravvive. Sono i numeri invisibili che si aggiungono ai naufragi provocati e invisibili, nonostante avvengano in uno dei punti marini più trafficati a livello mondiale e più controllati da Frontex».

Il talk si è concluso ascoltando il discorso di un cittadino tunisino pronunciato a Zarzis in chiusura del sit-in organizzato lo scorso 6 febbraio dal movimento 18/18. La protesta era stata promossa per denunciare le responsabilità sulla morte di 18 ragazzi tunisini naufragati il 21 settembre 2022 e ricordati come martiri per la libertà di movimento. Una vicenda emblematica, dove la Guardia costiera non ha iniziato le procedure per i salvataggi e i pescatori hanno scoperto alcuni corpi sepolti dalle autorità tunisine nel cimitero degli sconosciuti di Zarzis, senza dire niente alle famiglie, senza interpellare.

Non fosse stato per i figli e le figlie di Zarzis, in Tunisia e all’estero, se non fosse stato per i pescatori di Zarzis, per l’associazione dei pescatori, se non fosse stato per tutti i cittadini di Zarzis, per ogni ragazzo, in ogni scuola, in ogni liceo, per ogni donna, il sit-in non avrebbe potuto continuare. Questa città ha portato avanti un movimento storico, ha difeso la sua dignità e il suo onore, si è posizionata contro l’insabbiamento della verità, contro la obliterazione dei fatti e contro la sepoltura dei suoi abitanti come degli stranieri. È arrivata alla verità da sola, senza alcun aiuto da parte dello Stato. Abbiamo fatto tutti i tipi di sit-in, scioperi e mobilitazione. Abbiamo difeso la nostra dignità e i nostri diritti dicendo che i nostri figli e le nostre figlie sono martiri. Oggi uno di loro avrebbe compiuto 15 mesi di vita. E’ la politica repressiva ingiusta degli accordi tra lo Stato e l’Unione europea che ha reso questo Paese un grande carcere per i suoi figli. Un accordo che ha reso il mare un cimitero per i migranti tunisini e non. Questa politica repressiva e ingiusta delle migrazioni deve essere cambiata. Lo diciamo, crediamo nelle madri. E diciamo che c’è stato un crimine. Non è vero che i nostri figli sono morti per un naufragio naturale, ma sono stati uccisi, annegati e i resti che abbiamo trovato dei martiri sepolti. Non è stato un naufragio causato da un buco nella barca. No, è stato un omicidio di Stato.18 persone che sono morte come martiri della dignità, martiri della libertà, martiri della libertà di movimento. Gli europei vengono qui in 5 minuti e i tunisini devono fare un visto. Fino a quando non glielo concedono la migrazione continuerà, così come continuerà la harga 1 fino al momento in cui sarà richiesto un visto, fino al momento in cui ci saranno politiche ingiuste, oppressive. Relazioni non simmetriche che permettono che un tunisino come gli altri africani, perché siamo africani, muoia a dieci anni, mentre un europeo in 5 secondi arriva qui. Continueremo la nostra battaglia”.

  1. Il termine harga in arabo richiama l’atto di bruciare. Si usa per indicare l’azione di attraversare i confini senza essere visti

Stefano Bleggi

Coordinatore di  Melting Pot Europa dal 2015.
Mi sono occupato per oltre 15 anni soprattutto di minori stranieri non accompagnati, vittime di tratta e richiedenti asilo; sono un attivista, tra i fondatori di Libera La Parola, scuola di italiano e sportello di orientamento legale a Trento presso il Centro sociale Bruno, e sono membro dell'Assemblea antirazzista di Trento.
Per contatti: [email protected]